10 gennaio 2023

DIZIONARIETTO ELETTORALE LOMBARDO

Consigli per gli acquisti


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AAA Campagna elettorale. Gli obbiettivi sono semplici, si tratta di a) motivare e confermare i propri elettori siano essi di lista o di preferenza b) convincere gli indecisi c) inserire dubbi negli avversari e se non si riesce a convincerli spingerli verso l’astensione (checché se ne dica per un politico in attività è meglio un astenuto in più che un voto in più all’avversario).  Come? Si tratta di decidere cosa dire, decidere come dirlo, dirlo. I problemi stanno nel come dirlo. Questione che dai tempi di Le Bon affascina i comunicatori con risultati a volte esilaranti, godetevi le vaste serie di poster elettorali on line

Astensione. Alle ultime regionali aveva votato il 73, 1% degli aventi diritto, nel 2013 era stato il 76,74%. Alle politiche di settembre il 70 %. A Milano città alle comunali del 2021 il 47,7%, alle regionali il 68,64%, cioè a dire che tra regionali e comunali 203000 elettori milanesi hanno scelto l’astensione, più di un partito! In valori assoluti nel 2005 i voti per il presidente furono 5573000, nel 2013 5938000, nel 2018 5762000 le variazioni sembrano legate alla contemporaneità con le politiche. L’astensione non è uguale nelle varie circoscrizioni, più alta a Sondrio dove ha votato il 66,26% più bassa a Brescia 76,55%. Vale la pena ricordare che nel 2018 le schede bianche e nulle furono il 2,56%. Chiunque voglia saperne di più legga il rapporto di Stefano Rolando che magistralmente analizza la situazione. Chiunque voglia vincere pensi a questo bacino di potenziali elettori.

Candidati a presidenti nelle diverse tornate, raffronto tra. Fontana nel 2018 ha sfiorato il 50% dei voti superando nettamente Maroni fermatosi al 42,81%. Gori ha perso quasi il 10% rispetto ad Ambrosoli perdendo anche rispetto a Penati e restando ben 14 punti lontano dallo score di Sarfatti nel 2005 che resta il miglior risultato di sempre delle opposizioni. Dei candidati centristi o soi disant vale la pena ricordare Benedetto Della Vedova che 23 anni fa prese il 3,39%, Savino Pezzotta nel 2010 con il 4,69%, Gabriele Albertini con il 4,12% nel 2013. Diversi i candidati che dal 1995 si sono cimentati da Francesco Speroni a Pippo Torri da Marco Pannella a Carlo Fatuzzo da Giorgio Schulze a Vittorio Agnoletto a Gabriele Invernizzi a Carlo Maria Pinardi da Marco Marsili a Massimo Gatti e Giulio Arrighini, pochi quelli di cui ci si ricorda. Non credo legata alle candidature presidenziali la performance del movimento 5 stelle che prende il 3% nel 2010, il 13,63 nel 2013, il 17,39 nel 2018. Alcuni candidati a presidente così sicuri di non essere eletti si sono candidati anche nelle liste provinciali per garantirsi un seggio.

Candidati. si fa sempre più fatica a trovarne tant’è che per i piccoli comuni dove spesso si presenta una sola lista è stato abbassato il quorum per rendere valide le elezioni. Per incentivare la partecipazione si punta alla lista/e del presidente, a volte chiamate civiche, che consentono a soggetti diversi, magari con un loro seguito geograficamente definito, di poter competere senza doversi misurare con i recordman di preferenze dei candidati di Partito. Spesso si tratta di ex di vario genere e tipo. Il risultato è un po’ simile al vecchio self-service dei ricevimenti quando per evitare che tutto finisca, nello stesso piatto metti le tartare di ricciola, i nervetti con cipolle e la mousse di cioccolato. A volte funziona: nel 2013 la lista Maroni ottenne il 10,22% poco meno della Lega e otto volte i voti di Fratelli d’Italia, il patto civico Ambrosoli il 7,22%; a volte no, nel 2018 la lista Fontana non raggiunse il 2% e quella Gori si fermò al 3,03%. Scarso successo hanno avuto le liste legate a un leader nazionale come la lista Tremonti nel 2013 che ottenne lo 0,51% ma la lista Parisi nel 2018 con lo 0,53% ottenne un seggio. Tra i candidati vi sono quelli che hanno partecipato a più elezioni di vario livello e che sono transitati sotto più simboli senza a volte mai essere eletti: inguaribili esibizionisti o inguaribili idealisti?

Comunali e regionali, raffronto tra. Non serve a nulla. Alle comunali il doppio turno consente ripensamenti, alleanze in divenire etc. Si dice che al primo turno si vota per qualcosa al secondo si vota contro qualcosa. Nulla di tutto ciò alle regionali. Alle comunali partecipano migliaia di candidati, decine di liste. Alle regionali hanno partecipato nel 2018 in tutta la regione 1556 candidati (uno ogni 5000 elettori) 1351 nel 2013; a Milano area metropolitana erano 494 cioè meno della metà dei soli partecipanti alle comunali del capoluogo quando vi era un candidato ogni 500 elettori

Differenze provinciali. Quando si dice che vincere a Milano città non basta si fa riferimento alle abissali differenze tra le diverse circoscrizioni: 10 punti per i Cinquestelle tra Mantova e Sondrio, ventitré punti per la Lega tra Milano e Sondrio, Fratelli d’Italia prende il doppio dei voti a Brescia rispetto a Sondrio, la lista Fontana il quadruplo a Varese rispetto a Monza, come la lista Gori presidente tra Milano e Monza. La lista più omogeneamente diffusa è quella di Forza Italia.

Illusioni perdute. Più di 100 candidati nel 2018 hanno preso tra 0 e 3 preferenze, capisco non essere popolari capisco meno perché neanche votarsi, ammenoché fossero candidati di “comodo”. Ricordano l’onorevole Gastone Moschin di “Incensurato provata disonestà carriera assicurata cercasi”.

Liste. Alle ultime elezioni regionali si sono presentate 19 liste di cui 14 in tutte le 12 circoscrizioni.

Solo 6 liste hanno superato il 3%, 8 non hanno raggiunto l’1%. Nove liste hanno eletto il consigliere regionale. Tutte le liste in coalizione hanno preso, in valori assoluti meno voti del loro candidato a presidente ad eccezione di Onorio Rosati. 341450 elettori votano solo per il presidente. Abissale la differenza tra i voti delle liste collegate a Gori 1414919 e i voti al candidato presidente 1624619, nella circoscrizione di Milano ben il 16,55%, la percentuale più alta tra tutti i candidati. Diverso il dato percentuale: Fontana ha preso il 49,7% come presidente e il 51,23 come coalizione, Gori il 29,1 come presidente e il 26,99 come liste.

Liste, proliferazione. 19 liste e sette candidati alla presidenza nel 2018 sembrano tante ma va ricordato che al comune di Milano due anni fa le liste erano 28 (record nel 2006 con 34), al comune di Brescia 18 come a Monza, a quello di Como 15, 19 a Lodi. Alle regionali del 2013 18 con 5 candidati presidente. Nella campagna elettorale regionale i candidati al consiglio svolgono un ruolo marginale se paragonato alle elezioni comunali perché la dimensione delle circoscrizioni è enorme rispetto alle forze e ai tempi. In regione ci sono 1504 comuni, dai 243 di Bergamo ai 55 di Monza e Brianza passando per i 133 dell’area metropolitana milanese. Nella città di Milano si è arrivati per alcuni consigli di zona a un candidato ogni 230 elettori ripeto con 1556 candidati alle regionali nel 2018 il rapporto era di un candidato ogni 5000.

Preferenze. All’origine c’è Scipio Sighele nel 1895: “Sbalzati al seggio con l’appoggio di Tizio o di Caio, anziché per meriti proprii riconosciuti dal popolo, gli eletti trascinano necessariamente con sé la catena di una riconoscenza forzata. E questa riconoscenza si traduce in favori che sono parzialità e ingiustizie. Pel deputato è un obbligo contraccambiare le prove di devozione che ha ricevute: per l’elettore è un diritto ricevere questo contraccambio. Il mandato legislativo viene così a snaturarsi dalla base e prepara il terreno a nuove e più grandi immoralità”. Degni eredi del leader nazionalista in tempi più recenti Piero Fassino e Walter Veltroni condannavano la preferenza come “un fattore di competizione perversa e malsana tra candidati della stessa formazione, di lacerazione e indebolimento di un partito nel confronto con gli autentici avversari”,  mentre Fabio Mussi e Pietro Folena la combattevano come “un formidabile incentivo all’incremento delle spese elettorali, al proliferare delle pratiche clientelari, del malaffare e della corruzione, del voto di scambio e degli inquinamenti malavitosi”, come “la garanzia del predominio delle organizzazioni criminali sulla società e sulle istituzioni”.

Dopo la prova data dall’uninominale oggi tutto è cambiato e le preferenze sono viste anche da parte di Letta come un modo per garantire il recupero di legittimazione della classe politica restituendole autorevolezza attraverso la ricostruzione di un rapporto con il territorio. Anzi la preferenza consentirebbe all’elettore di essere direttamente coinvolto nella selezione degli eletti, evitando da una parte le primarie complesse da organizzare e dall’altra lo strapotere dei leader di partito determinati contro le minoranze interne al partito o delle oligarchie delle correnti che impediscono il rinnovamento degli eletti. In effetti alle precedenti regionali i neoeletti/e erano ben 56 su 80 e nel 2013 58 erano al primo mandato, merito delle preferenze.

Con le preferenze si narra, ciascuno affronta la competizione elettorale autonomamente, mentre con le liste bloccate i candidati sono solo quelli graditi ai partiti e quindi “la rappresentatività sarà intermediata dal partito”. Per molte forze politiche compresi i pentastellati anche se a corrente alterna, le preferenze sono l’unico sistema espressione di una democrazia che opera dal basso. Una cosa è certa: per molti candidati la vera competizione è quella con gli altri candidati della lista e fanno campagna elettorale esclusivamente tra gli elettori “sicuri”, a scapito del consenso alla lista: è umano ma improduttivo.

Preferenze, alternanza di genere. La norma che consente 2 preferenze purché di sesso diverso, determina un vasto e complesso mercato degli accordi all’interno delle liste ma non raggiunge gli obbiettivi, oggi le elette sono solo 18 su 80, 3 in più della precedente tornata. La lista più “femminista” era Fratelli d’Italia con 2 donne su tre eletti nel 2018. Il passaggio da una sola preferenza a preferenze plurime comporta il rischio di una “visibilità” del voto; infatti, se il candidato A (maschio o femmina che sia) impone ai suoi elettori di far seguire al suo nome alternativamente i candidati B, C, D, E (maschi o femmine che siano), distribuendo le “doppiette” per singoli seggi/zone, avrà una prova per accertare se il suo “consiglio” è stato seguito. Non si torna alla legge elettorale del 1946 per le legislative che prevedeva la possibilità di esprimere fino a quattro voti di preferenza, scrivendo i cognomi dei candidati prescelti oppure i loro numeri di lista cosicché le molteplici combinazioni dell’ordine della quaterna, spesso trasformata in cinquina, con l’ultima preferenza annullata, rendeva possibile un controllo del voto, in quanto erano svariate combinazioni. Al comune di Milano, fino alla riforma presidenzialista, le preferenze esprimibili erano cinque con 120 combinazioni possibili (non considerando le varie variabili: scrivi nome e cognome, scrivi cognome e nome, scrivi numero e cognome, scrivi …).

Premio di maggioranza. È eletto Presidente della Regione il candidato che ottiene il maggior numero di voti validi. Gli altri 79 consiglieri sono eletti con criterio proporzionale sulla base di liste provinciali; un seggio è riservato al miglior perdente tra i candidati alla presidenza. La legge lombarda stabilisce che chi ottiene almeno il 40% dei voti abbia il 60% degli eletti (nel 2018 48 alla maggioranza 17 all’opposizione di Gori 13 ai pentastellati oltre a Fontana e Gori), con meno del 40% il vincitore ha un premio di maggioranza pari al 55% cioè 44 seggi. Non sono ammesse al riparto dei seggi le liste il cui gruppo abbia ottenuto meno del 3% nell’intera Regione, a meno che siano collegate ad un candidato Presidente che abbia conseguito almeno il 5% dei voti validi (le liste provinciali che si presentano con lo stesso simbolo in almeno 5 province formano un “gruppo di liste”. Più “gruppi di liste” che indicano il medesimo candidato Presidente formano una “coalizione”). I retroscenisti ipotizzano che con soli 44 voti a sostegno della maggioranza il futuro del vincitore sia a rischio nel corso della legislatura.

Quanti voti ci vogliono per essere eletti? Dipende dalla circoscrizione. Nel 2018 a Milano ne bastarono 500 (Nicola De Marco) nei Cinquestelle, almeno 3500 nel PD (Paola Bocci), almeno 6000 in Forza Italia (Altitonante) e si può rimanere esclusi con 5943 nell’UDC; in questo caso la candidata ha preso una preferenza ogni 3,6 voti di lista, una ogni 2,5 nella città di Milano, uno ogni 1,7 nel Municipio. Il primo degli eletti pentastellato ha preso una preferenza ogni 182 elettori. Eletto con il minor numero di preferenze il pentastellato di Cremona (Marco degli Angeli) eletto con 284 voti, il maggiore Gallera con 11667, tant’è che a prescindere dalle performance come assessore lo ricandidano, aprendo un nuovo genere letterario: “del masochismo elettorale”. A volte la differenza tra l’eletto e il trombato è minima 23 voti a Monza e Brianza in Forza Italia, 16 tra i Cinquestelle a Pavia, a volte abissale più di 8000 voti nella Lega di Sondrio. Complessivamente si danno meno preferenze alle regionali che alle comunali ma il numero di preferenze assegnato è cresciuto per tutti le liste, con sfide che non hanno nulla da invidiare a quelle dell’ok Corral.  Le preferenze determinano delle gerarchie politiche secondo logiche diverse da partito a partito, spesso non corrispondenti alle gerarchie partitiche. Nel PD alle comunali milanesi, il primo degli eletti, Maran, prende più preferenze del primo degli eletti in regione che ha un bacino ben più largo, per la precisione prende una preferenza ogni 16 voti espressi per il PD mentre Bussolati recordman alle regionali una preferenza ogni 39 voti di lista nella circoscrizione, 1 ogni 26 in città. Il fatto che i vincitori della gara per le preferenze nel PD regionale e cittadino siano della stessa corrente non è casuale, la professionalità politica non si inventa.

Il fatto che a Maran non siano state concesse neanche le primarie probabilmente dipende dal numero di preferenze prese; come nella prima repubblica se prendi troppe preferenze turbi gli equilibri interni sei candidato a maggiori ruoli e ti fai di conseguenza un enorme numero di nemici, del resto, dal 1914 a Palazzo Marino, invero con altro livello di candidati, le preferenze sono un problemone, ma è un’opinione mia molto personale. Nell’UDC milanese un elettore su 3 ha dato la preferenza all’eletto e 1 su 3,6 al primo dei non eletti (Deborah Giovanati), talché su 21476 voti sono state date 16000 preferenze. Non siamo lontani da alcune città del sud che arrivano ad un indice di preferenza (rapporto tra i voti espressi e quelli esprimibili) che supera il 90%. Sull’ingorgo di preferenze non vi è grande differenza tra centro destra e centrosinistra e anche le liste “civiche” non fanno eccezione: Fedrighini, ad esempio, prende una preferenza ogni 9,6 voti di lista, David Gentili di Lombardia progressista un voto ogni 6 di lista (in quella lista su 11253 voti nella circoscrizione milanese ci sono più di 7000 voti di preferenza). Gli sforzi anche economici per la preferenza condizionano ormai in modo importante la campagna elettorale e distraggono forze alla contesa di lista e partiti. Ai professionisti dei partiti, al mitico funzionario della federazione immortalato da Bettiza o della corrente si è sostituito il professionista della preferenza, in questa categoria si incontrano alcuni dei più spettacolari e pittoreschi imbroglioni della politica.

Simboli elettorali. Una curiosità, nel 2018 nei simboli del centro destra era centrale il nome del leader nazionale (Salvini, Meloni, Berlusconi e c’era financo un Parisi) nel centro sinistra solo più Europa aveva il nome nazionale (Bonino) mentre le altre 6 avevano il nome di Gori generando un simpatico ingorgo comunicativo. Svariate le biciclette (intendesi con bicicletta un simbolo che ne racchiude altri, il termine rimanda all’unificazione socialista degli anni Sessanta), la civica popolare per Gori ne conteneva 5, la lista Gori insieme ne conteneva 3 (tra cui una civica). Quasi cinquant’anni fa un segretario di partito mi diceva: “l’unica comunicazione che non può mancare è quella sul simbolo quello che sta nella scheda” credo che sia ancora così.

Tempi. La questione del se è meglio partire per primi o attendere l’ultimo momento è annosa.

Io la penso come un antico spin doctor: “per lo ordinario erra più chi delibera presto che chi delibera tardi; ma da riprendere sommamente la tardità ad eseguire, poi che si è fatta la risoluzione”. Certamente annunciare delle decisioni, ad esempio farò una mia lista civica e poi aspettare l’ultimo minuto utile per farla è dannoso, logorare i candidati nella fase di schermaglie per il posto in lista invece che mandarli a cercare consenso esterno è dannoso, non dare certezza ai potenziali alleati di poter presentare una loro lista è dannoso, tardare il fund raising è dannoso, attendere pensosi spin doctor che poi partoriscono il fondamentale “cambiare insieme” è un errore, formulare format uniformi per tutti i candidati è dannoso e inutile,  etc. etc.

Voto, disgiunto. Ciascun elettore può, a scelta: a) votare per un candidato alla carica di Presidente della Regione; b) votare per un candidato alla carica di Presidente della Regione e per una delle liste a esso collegate, tracciando un segno sul contrassegno di una di tali liste; c) votare per un candidato alla carica di Presidente della Regione e per una delle altre liste a esso non collegate, tracciando un segno sul contrassegno di una di tali liste (“voto disgiunto”); d) votare a favore solo di una lista; in tale caso il voto si intende espresso anche a favore del candidato Presidente della Regione a essa collegato. Sul voto disgiunto si favoleggia da anni, masse compatte di elettori del centro destra organizzati da diverse correnti avrebbero dovuto in passato penalizzare Formigoni per contenerne lo strapotere, non se ne è mai vista traccia politicamente significativa. Anzi, vi è chi sostiene che poiché il premio di maggioranza viene attribuito sui voti del presidente dare il voto di lista all’opposizione potrebbe determinare la scelta di un’opposizione di comodo. Bubbole. L’unico significato pratico del voto disgiunto finora è stato quello di gestire le preferenze di alcuni portatori di voti e di lobby, comunque poca cosa.  Elettori PD che votino Moratti in odio a Majorino o elettori di Calenda che votino Majorino in odio alla Moratti o berlusconiani che votano Moratti e la lista di Forza Italia etc. ci saranno ma in valori assoluti e percentuali trascurabili. Non si può tuttavia escludere che se voto disgiunto diventasse serio oggetto della campagna elettorale di uno dei contendenti principali qualche sorpresa potrebbe esserci. Va però detto che il solo parlare di voto disgiunto mina la coesione delle coalizioni e della lista.

Voto, utile in genere le coalizioni più forti invocano il voto utile, cioè suggeriscono ai cittadini di dare la propria preferenza a chi ha più certezze di superare le soglie di sbarramento o di vincere, promuovendo l’idea che dare il proprio voto a chi non riuscirà a superare certi limiti sia sostanzialmente inutile. Alle regionali in Lombardia i “terzi” in gara hanno avuto risultati altalenanti ma non sempre modesti basti pensare ai candidati pentastellati alle ultime che hanno eletto 13 consiglieri contro i 18 di Gori. Si può tuttavia ragionevolmente affermare che in generale l’elettorato ha preferito concentrarsi sulle coalizioni maggiori’? No, se si guarda ai risultati pentastellati, sì se si pensa che nel 2013 la lista Monti prese alla Camera il 10,07% e alle regionali Albertini il 4,6% (coalizione); sull’invertire questa tendenza gioca tutta la campagna di Moratti. A mio modo di vedere il voto utile è solo uno strumento di campagna elettorale, uno slogan ovvero un esercizio accademico postelettorale, un po’ come quando dopo la sconfitta della nazionale di calcio milioni di tifosi azzeccano la squadra giusta. Dopo appunto.

Voto, obbiettivi numerici per colmare le differenze. Giocando a Fantapolitica la logica dei numeri è semplice. Fontana nel 2018 prese 2.773.218 voti, Gori 1.624.619, Violi 970.942, Rosati 108.721, Massimo Gatti 38.316 quindi Moratti o Majorino facendo il pieno di tutte le opposizioni dovrebbero recuperare 30620 voti e sperare che i 50000 voti di CasaPound non vadano in soccorso di Fontana. Basterebbe che uno dei due accettasse di fare il vice dell’altro, sperare che i voti di provenienza diversa si sommino matematicamente (cosa mai avvenuta nella storia elettorale della repubblica e del regno) e la partita sarebbe contendibile. Giudicate voi quanto l’ipotesi è credibile. Ma si dice ci sono i sondaggi che raccontano un’altra storia, più che ai sondaggi però guarderei alle politiche che si sono svolte pochi mesi fa: nel proporzionale il centro destra ha ottenuto in regione 2.549.503 pari al 50,4%, il centro sinistra 1.373.145 pari al 27,14%, Calenda 513.620 pari al 10,15%, i cinque stelle 370.336 pari al 7,32%, Italexit per l’Italia 91.757 pari al 1,81%, Unione popolare con De Magistris 55.894 1,1%, Italia sovrana e popolare 58.143. 1,15%. Quindi anche in questo caso la contendibilità teorica della regione ci sarebbe se ci fosse un solo candidato a confrontarsi con Fontana, il che non è alle viste. Vi è però da dire che negli ultimi anni vi è stata una mobilità dell’elettorato mai vistasi negli ultimi lustri: alle regionali del 2018 Fratelli d’Italia prese il 3,64% e 190000 voti quattro anni dopo alle politiche di settembre si avvicinava al 30% e al milione e mezzo di voti. Ergo? Sempre giocando a fantapolitica (parzialmente) l’unica concreta possibilità di contendere la regione al centrodestra sta nel verificarsi di quattro scenari 1) il tracollo del centrodestra o di uno dei partiti del centro destra 2) il ritorno al voto di masse compatte di astensionisti 3) l’intervento della Madonna di Lourdes o delle Moire 4) l’intervento della magistratura.

Walter Marossi

 



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  1. Gianluca BozziaFinale tristemente esilarante! Complimenti.
    11 gennaio 2023 • 12:21Rispondi
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