20 dicembre 2022

L’ANNO CHE STA ARRIVANDO ….

Così cominciava una bella canzone di Lucio Dalla


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Possiamo davvero credere in un anno migliore, il prossimo?

A guardarsi indietro, sale piuttosto un grumo di angoscia, come mai forse prima. La pandemia sembrava dare finalmente qualche respiro, ma le convulsioni sempre più gravi e ravvicinate di un pianeta malato hanno ripreso in ostaggio la nostra vita: guerra, crisi energetica ed alimentare, estate torrida, e poi inflazione devastante, impoverimento crescente…  Opprime una mancanza di futuro, una paura tanto “amara che poco più è morte”, una sensazione di pericolo concreto, non ancora però consapevolezza nella diagnosi, tantomeno condivisione della terapia.  Si dirà, la sensazione può essere l’anticamera della comprensione.  Accontentiamoci, forse un sapiente Virgilio ci guiderà oltre le belve che ci impediscono nel procedere.

Il fatto è che la didattica dell’esperienza fatica ancora ad imporsi sulle coscienze narcotizzate dal potentissimo intreccio tra interessi di sistema e profondi condizionamenti socio culturali. Che ne è del virtuoso dibattito che tanto ci impegnava sotto l’infuriare del Covid? Dove i canti dalle finestre, i convegni pensosi, il cambiamento annunciato e non più rimandabile, anche a Milano, di un modello di produzione e consumo distruttivo? Nulla. Soddisfatto, Sala compulsa presenze turistiche e shopping, godendo del “ritorno alla normalità”, eppure ancora pochi mesi fa chiamava alla “città in 15 minuti”.

Che ne è del cielo ripulito dall’intreccio vorticoso dei jet sopra le nostre teste? Cosa della riforma di un sistema sanitario che ha pure fatto bancarotta e cosa del corteo interminabile delle bare a Bergamo? E’ un fatto, tutto riprende come prima, gira più di prima, con entusiasmo crescente, non fosse per le nubi che la BCE, liberata dal fantasma di Draghi e di nuovo preda dell’ordoliberismo teutonico, si è incaricata di soffiare nel nostro cielo di scrocconi meridionali. Crosetto denuncia, l’educato Gentiloni tace.

Ricordo cinquant’anni fa (è la vecchiaia, bellezza), un inascoltato Enrico Berlinguer introduceva l’“austerità” nel lessico della sinistra, preziosa occasione per ripensare, con i consumi energetici, l’intero sistema. Invano, respinto con gravi perdite non solo dal blocco avverso ma anche da quello amico che silenziosamente lasciò solo il leader, poi venerato. La “Milano da bere” trionfò qualche anno dopo. Cinquantanni, una vita, e mentre questo nostro mondo, questa nostra Italia, questa nostra Milano, consumano senza requie la generosa dote ricevuta dal passato e lasciano le giovani generazioni eredi di un patrimonio dissipato, neppure si può dire che disagio, povertà, esclusione, ci abbiano abbandonato.

Non siamo sociologi, basta un giro oltre il circolo della 90 per cogliere la crescente polarizzazione sociale che dice di un impoverimento di massa, condizione a cui ciascuno reagisce come può, e senza badare troppo per il sottile: primum vivere, anzi consumare.  “Intanto mi faccio il SUV”, emblema osceno di un modello culturale che eleva a status symbol il trasporto di una persona su qualche tonnellata di ferro, gomma e plastica (e Co2).  Ciao Greta.

La triste misura si colma con lo spettacolo di un partito postfascista al governo: assistiamo come un pugile suonato allo scorrere dei secondi. mentre dall’angolo vengono incitamenti rassegnati.

Che umore plumbeo ci accompagna negli ultimi giorni del 2022!!

Ma davvero non c’è speranza? Davvero la partita è persa, la sequenza delle crisi convulsive del pianeta inarrestabile? Solo una catastrofe ridarà, ma a che prezzo, nuovi orizzonti possibili da riscrivere? Davvero il campo democratico non dispone più di energie per risollevarsi dal tappeto dove si è accasciato, gonfio di botte? Come le crisi, anche le chance vanno lette su scala globale.

La rivoluzione iraniana continua senza sosta, guidata da ragazze furenti che urlano alla mummificata teocrazia l’orrore di una vita senza libertà, e con loro le madri e le nonne, la sorella che ripudia il leader supremo Khamenei, un desiderio di vita libera e di eguaglianza così travolgente da sedurre anche i maschi, fratelli, padri e figli, che dai bazar agli impianti petroliferi le affiancano, certo non tutti e non con la medesima convinzione. Ma il ragazzo che prima dell’esecuzione grida “non leggete il Corano, fate musica” assomiglia ai giovani del “fate l’amore, non la guerra”, testimoniando, con ben altro prezzo però, che la libertà non è lusso dei popoli ricchi, come qualche povera anima relativista dice per compiacere regimi russi e cinesi, ma aura esistenziale della nostra persona, voglia di vivere incomprimibile sempre ed a tutte le latitudini.

Il popolo ucraino, per alcuni immolato in conto terzi, combatte per sé e la sua libertà, esalta, dà scacco all’autocrate Putin ed a tutti quanti poco speravano nella tenuta di una resistenza pagata così a caro prezzo, non solo di morti in battaglia, già nel conto, ma di civili, massacrati ed ora gettati nel buio gelato della notte dai tremendi bombardamenti russi. Questo avviene vicino a noi, fa paura il rischio atomico, ma che potenza il desiderio di libertà dei popoli. Se ci sarà pace, e ci sarà, non sarà sigillata dal trionfo putiniano.

In Cina, la cosa è passata quasi sotto traccia, il regime totalitario di XI JIN PING ha dovuto retrocedere dalla sua disumana dottrina antipandemica di fronte alle crescenti resistenze e rivolte popolari. Se si considera per un solo istante la sconfinata potenza tentacolare dell’apparato repressivo dello stato cinese, è davvero miracoloso.

L’onda trumpiana, che come il fascio nel 22 aveva assaltato a gennaio le istituzioni americane, ha trovato pane per i suoi denti anche alle elezioni di midterm, rafforzando ragioni ed energie del campo democratico mondiale, corroborato dall’uscita di scena di un criminale politico chiamato Bolsonaro. Cambiamenti che pesano nello scenario planetario.

Spaventose tragedie civili, belliche, sanitarie, eppure anche forti luci di speranza, desiderio insopprimibile di libertà, antidoto planetario. Le crisi globali non sono gestibili dai singoli paesi, per quanto grandi, chiedono nuovo governo mondiale dove i popoli sono la maggior risorsa e la libertà condizione essenziale.

E da noi? Che succede? Cosa ci offre speranza?

Sul piano politico, poco o nulla ancora. Il campo di centro sinistra, che pure conta quasi il 60% nelle urne, resta paralizzato dalle divisioni, incerto assiste agli slittamenti del senso comune verso i valori di una destra che pareva ridotta a nostalgia. I cosiddetti tecnici, i Valditara, i Sangiuliano, i Piantedosi, i Nordio, affondano bandierine identitarie su di un corpaccione tramortito che non reagisce. Mentre Berlusconi impone la minima a 600 euro, il PD invoca il ritorno al finanziamento pubblico dei partiti. Ad ognuno il suo: la piazza chiamata da un leader esangue resta vuota.

Eppur si muove…. qualcosa.

Prendono corpo figure di leader intese a riprendere il profilo di un’identità di sinistra, forse non del tutto adeguati, forse non destinati a successo, ma pare avviarsi al termine l’era geologica di uno schieramento dominato volta a volta dalla paura di dire qualcosa di sinistra o dal volerla proprio cancellare, date voi i nomi che li sanno tutti.

Riprende piede un nuovo antico “sentire” di sinistra, ma vago, ancora in gestazione, in ricerca non solo di un leader ma anche di un nuovo costrutto, di una nuova visione di società e di cambiamento possibile, che, è chiaro, non bastano i bei ricordi per riportare in vita un mondo che non c’è più.

Eliminati Renzi e Bersani, Franceschini e Zingaretti, ora infine Letta, resta da compiere l’ultimo rito palingenetico, l’annichilimento delle correnti che da legittimo concorso pluralista si sono trasformate in una cricca autofererenziale, che sequestra a sé ogni potere e tutto decide fingendo l’ascolto. Occorre aprire la finestra e dare aria nuova, correndo tutti i rischi che bisogna correre.

Sarà un buon anno il 2023?

Spes ultima dea, ma Lucio Dalla cantava “io mi sto preparando, è questa la novità”.

Giuseppe Ucciero



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