5 aprile 2022

I GIOIELLI SPENSIERATI DI BALANCHINE

Il trittico torna alla Scala con nuovi debutti


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«Quando sono da Tiffany, sento che niente di male possa accadere», con queste parole Holly, il personaggio che forse più di altri ha reso Audrey Hepburn un’icona, mostra tutta la sua ammirazione per le vetrine di Tiffany. E le vetrine di quella 5th Avenue a New York sono state fonte d’ispirazione per lo stesso Balanchine, che ha creato un balletto “spensierato” in cui i gioielli stessi diventano danza per dare forse momenti di illusione, ma momenti nei quali le tenebre della guerra per un po’ svaniscono dietro la brillantezza delle pietre preziose.

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A distanza di circa otto stagioni di balletto, tornano al Teatro alla Scala i Gioielli di Balanchine, tra interpreti già visti e molti debutti. Ho avuto l’opportunità di assistere a due recite, la prima (11 marzo) e il 18 marzo con il secondo cast. L’orchestra, il pianista e la direzione hanno fatto la differenza tra le due recite: a una prima che mi è apparsa musicalmente più omogenea e uniforme lungo il trittico ha fatto seguito una seconda recita in cui gli stili dei tre compositori e le loro caratteristiche e diversi scintillii sono risultati più chiari a quindi anche il balletto è risultato più leggero.

Spesso si sente dire – ma già ai tempi di Balanchine, e lui è pronto a smentire l’associazione – che gli Smeraldi di Fauré richiamano il balletto romantico francese, i Rubini di Stravinskij il balletto ‘nuovo’ americano e i Diamanti di Čajkovskij il balletto imperiale russo. Non si può negare che l’associazione sia accattivante, soprattutto considerando la vita artistica e personale di Balanchine; io stesso fatico a immaginarla diversamente, ma anche gli organizzatori del 50º anniversario di Jewels presso il Lincoln Center: infatti, nel 2017 invitarono il balletto dell’Opéra di Parigi per Emeralds, il Bol’šoj per Diamonds e il New York City Ballet ospite per Rubies (anche se poi Americani e Russi si invertirono in alcune recite). 

Eppure, Balanchine era attratto da altro, lui sembra mostrare che fosse attratto solo dal lusso in sé, la Quinta Strada di Manhattan e le sue origini «orientali» – dice lui, in quanto georgiano –, e gli Orientali sono storicamente sempre stati attratti dai gioielli. E in effetti, più che un esercizio di stili coreici, Jewels sembra voler rivivere e far rivivere quella spensieratezza di Audrey Hepburn in Colazione di Tiffany. In fondo, il film è del 1961, il balletto del ʼ67 e appartengono a quella stessa New York di un’America che viveva il proprio benessere prima di entrare nella fase più buia della guerra del Vietnam (o almeno che se ne rendesse conto l’opinione pubblica).

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La compagnia della Scala ha regalato spensieratezza, un attimo di distacco dal conflitto in Ucraina, che ci tiene, noi tutti in Europa, in un clima di incertezza. Gli Smeraldi soffrono di essere collocati all’inizio, ma in questa produzione hanno offerto tutta la loro intensità con i degas spiralici e fluttuanti e l’eleganza dei ports de bras. Pietre preziosissime sono state Martina Arduino (11.03.) e Vittoria Valerio (18.03.), che hanno regalato il loro innato e consueto romanticismo agli spettatori nella prima variazione. Alice Mariani (11.03.) e Caterina Bianchi (18.03.) hanno interpretato la seconda variazione in modo completamente diverso: di Mariani ho apprezzato la forte e solida tecnica, il ballon in ogni tipo di salto e la velocità accurata dell’esecuzione, anche se le braccia e le mani mi sono sembrate alle volte troppo spigolose e tese per il mio gusto; la variazione di Bianchi era più morbida e flemmatica con un’allure molto adatta al tema di Emeralds.

Gli uomini smeraldo si sono dimostrati adeguati e pronti: ottimi partner e sicuri interpreti Marco Agostino e Nicola Del Freo (11.03.), uno splendido cavaliere di eleganza e presenza Gabriele Corrado (18.03.) e un gran poeta Claudio Coviello, che con Vittoria crea una coppia capace di regalare un sottotesto di reale affetto, quasi come riscrittura di un balletto a sé nella coreografia di Balanchine.

Poi si accende il rosso scuro con le dissonanze di Stravinskij. Le donne rubino indossano delle frange che somigliano a quelle di cuoio e ottone delle antiche corazze romane, che lasciano scoperte le gambe nella loro lunghezza, diventandone assolute protagoniste. Infatti, la solista assume il ‘titolo’ non ufficiale di Amazzone e un po’ a qualche elemento classico si ispirano i Rubini di Balanchine. Le geometrie della diagonale finale della solista con gli chassés alla seconda lungo la diagonale oppure il momento con i quattro uomini che “manovrano” la solista guidando ciascuno un arto. María Celeste Losa (11.03.) è stata perfetta per il ruolo: divertente, divertita, dinamica, un’Amazzone più guida di sé stessa, che guidata.

La coppia principale e il corpo di ballo si trovano ad affrontare una coreografia piena di passi fuori asse, di fratture e recuperi repentini di linee ed equilibri, di passi “non passi” – per il balletto in senso scolastico – come trotti, passaggi sui talloni e braccia con i gomiti piegati, che rende tutta l’atmosfera come una fiera festosa, con i fuochi d’artificio èbancarelle, giostre, giochi, tenorini e zum pa pa» per citare Tosca (Il terzo fuochista, 2007). Il corpo di ballo danza il pezzo che coreograficamente considero il più interessante e brillante e gli artisti della Scala lo hanno eseguito magnificamente nelle due recite: hanno fatto un ottimo lavoro.

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Virna Toppi e Claudio Coviello (11.03.) danzano spesso assieme, come nell’ultima «Bayadère» di Nureyev. Pur se personalmente non li trovo del tutto ‘compatibili’ per questioni di altezze e proporzioni che emergono soprattutto per l’uso della punta, non posso negare che l’esperienza e la professionalità dei due primi ballerini sopperisce alla mia perplessità: sono stati frizzanti e brillanti, lasciando un senso di dispiacere per la fine del loro duetto. 

Il secondo cast ha visto debuttare i due solisti Agnese Di Clemente e Domenico Di Cristo. La tensione era tangibile, ma l’effetto sul palco è stato quello di una coppia principale di Rubies pienamente convincente, dalla tecnica solida, gli off-balance gestiti con padronanza, gli sguardi con l’intenzione adeguata e la freschezza di un “primo appuntamento” alla festa di paese.

Chiude il balletto la Sinfonia nº 3 di Čajkovskij che dà luce ai Diamanti. I Diamanti di Balanchine fanno sicuramente “più scena” per la musica altitonante della polonaise, il numero di danzatori e il finale con apoteosi; ma non vanno considerati come il movimento più importante, perché i tre gioielli vanno considerati come autonomi momenti di una creazione d’insieme.

La coppia principale prende il nome di Nicoletta Manni e Timofej Andrijašenko (11.03.) e di Martina Arduino e Nicola Del Freo (18.03.), tutti al loro debutto. Manni e Andrijašenko hanno eseguito una versione molto ieratica, improntata alla staticità della figura e – complice l’esecuzione orchestrale troppo lineare senza variazioni – mi è risultata a tratti monocorde. Arduino e Del Freo hanno mostrato più sinuosità e una ricerca di un sottotesto che mostrava del tormento. Sarà stato Čajkovskij dai toni eroici ma anche dai temi tristi dal Lago dei cigni a Onegin, ma Martina, alcune volte pure con le movenze da cigno bianco dei ports de bras (a tratti troppo per la poetica di Balanchine), è stata in grado di trasportare nella sua lettura dei Diamanti

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I tre movimenti sono pensati con un numero inversamente proporzionale tra il corpo di ballo e le coppie principali: apre Emeralds con due coppie principali e un trio, segue Rubies con una coppia principale, una solista e un corpo di ballo piccolo, chiude Diamonds con una coppia principale, quattro soliste e un corpo di ballo numeroso. Il lusso e la spensieratezza che i gioielli evocano, fanno di Jewels un ‘classico’ del Novecento, storicamente ben inserito, ma capace di sospendere la tirannia del tempo e farsi apprezzare sempre, come solo i classici sanno veramente fare.

Domenico Giuseppe Muscianisi

Crediti: «Jewels» di George Balanchine © The George Balanchine Trust. Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano © Teatro alla Scala. Foto 1: María Celeste Losa e il corpo di ballo. Foto 2: Claudio Coviello e Vittoria Valerio. Foto 3: Domenico Di Cristo e Agnese Di Clemente. Foto 4: Martina Arduino e Nicola Del Freo.

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