20 dicembre 2022

BORIS GODUNOV, COME STALIN E PUTIN

La Prima della Scala


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Sul Boris Godunov, con il quale a Sant’Ambrogio è stata inaugurata la stagione della Scala, è stato scritto di tutto e di più, su tutti i giornali, e si è sentita una quantità di commenti addirittura spropositata, su ogni aspetto dell’opera e in massima parte positivi, tanto che si ha l’impressione è che sulle “Prime” scaligere non si possa esprimere una critica severa senza rischiare una sonora condanna per lesa maestà. La “Prima” della Scala gode di una sorta di impunità, è avvolta da un velo di sacralità che la rende inattaccabile, al punto che le timide recensioni del giorno dopo (in cui si è osato dire, per esempio, che nella prima parte dell’opera l’orchestra ha palesato qualche opacità ma, per carità, subito scomparsa nella seconda parte!) sono apparse come gesti eroici.

In realtà l’opera è proprio magnifica, la versione originale proposta da Chailly si è rivelata meravigliosa, la lettura che ne ha dato l’orchestra (quand’anche vi fossero state le opacità adombrate dai critici coraggiosi) ha raccolto un grandissimo consenso (e noi stessi non possiamo che tesserne gli elogi), le voci erano tutte ottime a partire dal bravissimo protagonista russo Ildar Amirovich Abdrazakov.

Non si può invece affermare che sia piaciuta anche la messa in scena; tutte le persone con cui abbiamo avuto modo di scambiare opinioni hanno espresso giudizi per nulla lusinghieri nei confronti di Kasper Holten, Es Devlin e Ida Marie Ellekilde, rispettivamente autori/autrici della regìa, delle scene e dei costumi. Da questo punto di vista l’opera si è rivelata il solito malriuscito tentativo di dare senso di modernità alla vicenda che, come tutti sanno, si svolge alla fine del Cinquecento. Salvo il momento dell’incoronazione, in cui paradossalmente ammicca alle odierne comparsate di Putin in televisione, il grande imperatore sembra – con rispetto parlando! – il classico impiegato delle poste.

Non si sa perché Holten non si accontenta di farlo morire divorato dalla sua ossessione – quei rimorsi e quelle crisi da cui è attanagliato e che lo rendono ancora più grande – ma decide di farlo accoltellare da un servo. Anche le scene, che nella prima parte dell’opera alludevano alla storia e nella seconda alla geografia per spiegare agli spettatori i tempi e i luoghi della vicenda, sono apparse di disarmante banalità. Insomma, una rappresentazione scenica molto lontana dal minimo sindacale che ci saremmo aspettati per questo sette dicembre in cui la Scala ha giustamente voluto inaugurare la stagione alla grande, dopo le ristrettezze della pandemia, ed ha aperto il sipario davanti a un parterre straordinario.

Il peggio che abbiamo visto sulla scena – mentre l’orchestra, i cori e i tre loro direttori (dell’Orchestra, del Coro del Teatro e del Coro di Voci Bianche dell’Accademia) davano il meglio di sé – è stato quel povero bambino insanguinato e inebetito, simbolo/fantasma dell’ossessione mentale di Boris, che si aggirava fra gli interpreti senza potersi relazionare ad essi perché ovviamente dovevano far finta di non vederlo. Una vera pena.

Credo, ma potrei sbagliare, di aver individuato il pensiero sotteso dalla regia di Kasper Holten: voler dimostrare che il potere in Russia non è mai cambiato – da Ivan il Terribile a Putin, passando per Boris, per gli Zar e per Stalin – e che da sempre porta con sé le colpe di atroci misfatti. Ma non è questa l’opera di Musorgskij, neppure quella di Puskin alla quale Musorgskij si è ispirato, e tantomeno lo spirito delle opere di Shakespeare che Puskin aveva assunto come riferimento per rappresentare la grandiosità della tragedia di Boris. L’opera è invece il dramma di un uomo che, in un particolare tempo e in precise circostanze, è morto perché non ha retto al rimorso di aver ucciso un innocente e di essersi proditoriamente appropriato del suo destino. Questo racconta la musica, e gli spettatori che amano l’opera e l’ascoltano e la riascoltano vorrebbero approfondirne la complessità senza essere distratti e portati su altri piani dalle fantasie dei registi cosiddetti creativi, che si allargano ed escono dal contesto.

Mi scrive Altea Pivetta – acuta musicista cantante, regista, scenografa, ben nota per le sue “riduzioni” di opere liriche – che il Boris è “la rappresentazione del dolore, incarnata dal coro che mette in scena una lamentazione continua, senza fine, che non ha la funzione di accompagnare l’opera ma ne è le fondamenta sulle quali essa scorre come un fiume, che si dipana tra il mesto, il mistico e il mitologico…. che appartiene al mondo e rispecchia quella cultura russa in cui il dramma singolo e personale viene inghiottito dal divenire della storia e ne diviene parte”.

Sempre la Pivetta osserva che “vi è più di una relazione fra Boris e Don Giovanni, entrambi dominati dal soprannaturale (l’Erede e il Commendatore), entrambi fin dall’inizio dell’opera vicini alla morte…. perché hanno conosciuto il limite dell’umano e qui non hanno più nulla da fare. Uno si abbandona alla morte perché non sopporta più il peso di questo suo ‘sapere’, l’altro spera nella morte, con paura forse ma non con colpa, e l’abbraccia quasi a togliersi di dosso l’umano vissuto”.

Questi sono i temi che avrebbero avuto bisogno di essere rappresentati e approfonditi sulla scena da una regìa capace di cogliere i significati profondi del racconto musicale di Musorgskij, racconto non politico ma psicologico, che ha le sue radici nella Russia profonda dell’ottocento e che non ha nulla a che fare con l’arroganza e la ferocia del potere russo di oggi. Un racconto che non ha alcun bisogno di essere attualizzato per compiacere la stupidità del politically correct, tanto di moda, quasi a volersi far perdonare la scelta, assolutamente ineccepibile, di inaugurare la stagione del nostro teatro con una grandiosa opera russa.

Paolo Viola

 



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