22 marzo 2022
LA CITTA’ COME MONUMENTO AI VALORI DEL PASSATO
Una relazione da ripensare
Ogni tanto bisogna avere il coraggio di alzare lo sguardo dai travagli del presente, e di cogliere gli effetti che alcuni miti occulti, che si sviluppano lentamente ma costantemente nell’arco non di anni ma di decenni o addirittura di secoli, hanno avuto e hanno sulla realtà in cui siamo immersi. Tanto più quando questa realtà, in questo caso la nostra città, si dimostra sempre più tormentata da problemi di fatto insolubili: inquinamento, crisi climatica, congestione del traffico, squilibrii insediativi e sociali. E di domandarsi se non è questo il momento di abbandonare questi miti occulti, se incompatibili, con i valori che invece è necessario e urgente promuovere.
Il primo di questi miti occulti è quello della durevolezza, conseguenza di quella che Gehlen (1) chiama “la paura della caducità”. E’ comprensibile il desiderio di garantire a ogni intervento sull’ambiente in cui si vive una stabilità nel tempo, garantendoci di far durare finchè viviamo le sue rassicuranti caratteristiche. E siccome le esigenze si evolvono, la civiltà umana opera così da sempre, costruendo e ricostruendo templi, strade, villaggi, appicando tecniche costruttive sempre più efficienti, modificando consistenza e modi d’uso degli edifici, ampliando e demolendo, per adattare i luoghi a nuovi valori.
Ed è vero che ciò ha garantito la sopravvivenza nei secoli di edifici belli e significativi, spesso divenuti caposaldi urbani e che ora costituiscono patrimonio dell’umanità. Ma tutto ciò ha avuto un prezzo, che sta diventando intollerabile: abbiamo a tal punto esasperato la stabilità dell’ambiente costruito, asfaltando e cementando ogni angolo della città, da renderla un unico grande monumento ai valori del passato, quindi riluttante ad adeguarsi a nuovi valori, e risolvere le nuove criticità ambientali citate.
Fino alla fine del diciannovesimo secolo le città, pur conservando in parte forma e struttura del passato, sono rimaste plasmabili. Con le loro case di mattoni e legno e pochissimi impianti, le strade di terra e ciottoli, qualche ponte e qualche linea ferroviaria, un regime di proprietà edilizia più concentrata, coesa con il potere politico o ad esso sottomessa, è stato possibile mettere in atto trasformazioni talvolta anche imponenti (vedi ad esempio la Parigi di Hausmann) secondo i valori emergenti a quel tempo. La plasmabilità della struttura fisica ed economica della città fino ad allora dunque ha permesso di seguire i mutamenti della società e dei suoi valori, abbastanza lenti e progressivi in confronto a quelli odierni.
Che accade durante il ventesimo secolo? Che la rete di infrastrutture ed urbanizzazioni diventa sempre più costosa, complessa e vincolante, definendo in modo irreversibile la fruibilità delle aree, che gli edifici stessi, con l’uso del cemento armato, sono diventati praticamente indistruttibili, che il regime della proprietà e dei diritti sempre più frazionato ha reso di fatto impossibili le grandi trasformazioni, che la logica stessa della zonizzazione e della specializzazione funzionale, acclamata come innovativa dal razionalismo contro la ben più flessibile mixitè del tessuto edilizio spontaneo, ha cristallizzato irreversibilmente la distribuzione delle funzioni nel territorio.
E qui interviene il secondo mito occulto, quella del potere taumaturgico della tecnologia. Perchè preoccuparsi della crescente rigidità del tessuto urbano, vista la mobilità garantita dai mezzi di trasporto meccanici sempre più diffusi ed efficienti? Mezzi che consentono alle città di espandersi, mantenendo la struttura esistente e rendendo comunque accessibile tutto ciò che viene da questa estromesso in quanto non vi trova più collocazione adeguata. Parte così nel ventesimo secolo il mito della mobilità meccanizzata, fondata sull’offerta di mezzi di trasporto e infrastrutture sempre più efficienti e esaltata come “progresso”, anche se ingoia enormi risorse e finisce per creare nuove rigidità questa volta a scala non urbana ma metropolitana.
Ogni elemento della città esistente, strade, infrastrutture, case, servizi, può ormai essere modificato solo localmente e solo sotto la pressione di forti interessi economici. E quando ciò non avviene ogni elemento della città, obbediente ai due miti occulti citati prima, rimane intoccabile ed è destinato a entrare prima o poi in conflitto con la accelerata evoluzione dei valori e delle priorità che caratterizza il nostro tempo.
Oggi a Milano il reticolo delle infrastrutture e dei diritti d’uso e di proprietà è tale che è già una lotta cancellare una fila di parcheggi per fare posto a una pista ciclabile, o fare modesti interventi di cosiddetto “urbanismo tattico”, figurarsi toccare un condominio per allargare o modificare una via, demolire una sopraelevazione abusiva o destinare un edificio abbandonato a funzioni di interesse sociale. Lo stesso progetto di riapertura dei Navigli è del tutto improbabile che si possa attuare, sia per la complessità degli interventi e lo sfavorevole bilancio benefici-costi che ne consegue, che per l’infinità di conflitti che genererebbe con i diritti costituiti.
Se prima, salvaguardando solo edifici e infrastrutture rimasti funzionali e rappresentativi, era l’evolversi dei valori e delle esigenze sociali che continuamente plasmava e modificava la città, oggi la città fisica nel suo insieme si oppone graniticamente ad ogni possibile cambiamento, e costituisce la griglia rigida entro la quale i nuovi valori e le nuove esigenze sociali sono costretti a comprimersi e adattarsi.
Non è quindi un caso se, come rileva Manzini (2) nel suo libro “Abitare la Prossimità”, in questo sistema fisicamente intangibile e cristallizzato, nel quale il valore della prossimità e dell’intreccio di relazioni sociali che essa garantirebbe è stato per almeno un secolo messo da parte e sostituito dal mito disgregativo della mobilità, si finisce poi per esaltare l’unica (apparente) libertà alternativa offerta dalle nuove tecnologie.
E’ grazie ad esse che riusciamo a superare o dimenticare sia i vincoli e le inadeguatezze dell’ambiente, che la dispersione fisica sul territorio generata dal mito della mobilità, facendo home working, ordinando la cena a casa con Glovo anzichè andare al ristorante, e incontrando gli amici su Zoom.
Ma è proprio il mantenimento di quei due miti rende difficile ad esempio contrastare l’effetto “isola di calore” in una città cementificata, asfaltata e impermeabilizzata come la nostra: problema reale e cogente, che non sarà certo risolto nè con il nostro smartphone nè con qualche rado e neonato alberello o qualche improbabile tetto verde.
Dunque condivido le raccomandazioni che fa Andrea Bonessa sul principio della riciclabilità e flessibilità d’uso degli edifici (3), che imporrebbero l’abbandono nell’edilizia civile del calcestruzzo (il materale peggiore da questo punto di vista, ma il più usato) verso l’acciaio e il legno, ma sottolineando anche l’urgenza tutt’altro che secondaria di rendere possibile, frequente e agevole ogni modifica agli edifici, al loro uso e al tessuto urbano stesso.
Cosa che cozza contro la maggior parte dell’edilizia che ci circonda, sia perchè la polverizzazione della proprietà degli edifici rende quasi impossibile modifiche sostanziali, che perchè essi sono stati costruiti in modo tale che quasi nulla è flessibile, nè ecologico, nè riciclabile. Nè potrà diventarlo, essendo anche il più modesto condominio costruito per durare secoli.
Anche per questo appare critico, e da monitorare attentamente, l’approccio avuto finora sul riuso degli ex scali ferroviari di Milano. Uno spazio immenso, un milione di metri quadri di terreno ora in gran parte permeabile e libero da edifici, che circonda la Milano storica di calcestruzzo e asfalto, sul quale si potrebbe sviluppare un progetto d’uso innovativo, che riequilibri la rigidità della città tradizionale mantenendo il più possibile la permeabilità del suolo e intervenendo con strutture rade, leggere, trasformabili, sostituibili.
La flessibilità dovrebbe diventarne il tema in assoluto prioritario, in modo da consentire alle generazioni future di modificarne facilmente l’uso magari tra dieci o vent’anni, secondo i loro valori, che oggi non possiamo prevedere ma che saranno sicuramente diversi dai nostri.
Non sarebbe serio discutere qui i progetti sinora noti, peraltro non definitivi, cosa che richiederebbe ben altro respiro. Comunque da ciò che appare in alcuni progetti (vedi iquello de Villaggio Olimpico allo scalo Rogoredo) vi è già un’attenzione al tema della sostenibilità ambientale, ad esempio prevedendo l’uso di strutture in legno anzichè in calcestruzzo. Mentre è tutto da verificare il modo in cui si garantirà in tutti gli scali la permeabilità del suolo (quando si parla di lasciare il 65% delle aree a verde è prevedibile che ciò includa aree comunque pavimentate o a verde pensile su sottostanti parcheggi interrati). Come pure è da verificare ciò che si vorrà realizzare in adiacenza ad alcuni di essi, vedi ad esempio l’intervento MoLeCoLa di Hines a Bovisa.
Con l’impegno di tutti evitiamo che un progetto che coinvolge alcune delle più grandi aree rimaste finora libere all’interno di Milano, la cui partenza è ormai imminente, alla fine diventi un nuovo immutabile monumento ai valori del passato.
Giorgio Origlia
NOTE
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