8 marzo 2022

PROFUGHI DI IERI

Una vicenda da ricordare oggi


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L’invasione della Ucraina ha fatto ipotizzare al presidente della regione l’arrivo di 50/100.000 profughi in Lombardia. Non è la prima volta. I primi profughi di guerra a Milano sono arrivati nel 1914, erano italiani emigrati per lavoro all’estero che rientravano in patria essendo scoppiata la guerra in Europa.

Il totale fu quantificato in 470.866 di cui 62787 donne, in Lombardia ne arrivarono circa 80.000 senza contare quelli di passaggio, si legge nel rendiconto della Società Umanitaria a cura di Fausto Pagliari: “migliaia e migliaia di operai emigranti, costretti  improvvisamente ad abbandonare le località della Francia della Svizzera, della Germani e del Lussemburgo…tra l’agosto e il settembre più di 100.000 persone transitarono dalla nostra Casa degli emigranti, e tutte ebbero assistenza e conforto…i Comuni provvidero a dare loro l’assistenza immediata, ricoverandoli, dando loro vitto e indumenti, disponendo per il cambio della moneta”.  

Ai profughi per lavoro si aggiunsero i fuoriusciti trentini tra i primi il deputato e leader del socialismo trentino Cesare Battisti, che in città fondò la “Commissione dell’emigrazione trentina”.

L’intervento del Comune a favore dei profughi, con un significativo aumento delle spese, provocò forti polemiche con liberali e moderati in particolare in materia di calmieramento  degli affitti e dei prezzi avendo il consiglio comunale votato il 6 agosto “vari articoli aggiuntivi al vigente regolamento di polizia urbana coi quali si dava facoltà al sindaco di fissare settimanalmente ove le circostanze lo richiedano, il prezzo massimo per la vendita all’ingrosso e al minuto di diversi generi annonari di prima necessità o di uso più comune”.

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Con l’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio del 1915 e soprattutto dopo Caporetto il numero di profughi in città aumentò a dismisura, si calcola che furono assistiti più di 110.000 persone ed un censimento a guerra finita calcolò attorno ai 50.000 i profughi ancora in città e provincia, su un totale di 701.000 abitanti al censimento del 1911.

I profughi arrivarono in una città profondamente divisa tra interventisti e neutralisti, tra questi in primis il sindaco Caldara che aveva vinto le elezioni nel giugno 1914 con una maggioranza di 64 consiglieri contro i 16 dell’opposizione liberal moderata. 

Nei dieci mesi della neutralità italiana, tra l’estate del 1914 e la primavera del 1915, Milano diviene una piazza politica di primaria importanza anche per stabilire gli equilibri a livello di governo nazionale, dove un parlamento a maggioranza contrario all’ingresso in guerra non seppe resistere alle manifestazioni di piazza.

Come oggi la questione degli aiuti militari alla Ucraina invasa e il conseguente parere negativo espresso da sindacati, movimenti, pacifisti con lo slogan “né con Putin né con la Nato” divide l’opinione pubblica in particolare a sinistra, allora il dilemma era tra interventisti vuoi nazionalisti vuoi democratici e neutralisti e tra questi ultimi tra diversi gradi di pacifismo. Manifestazioni pro e contro l’intervento si alternavano in città, lasciando una scia di feriti e di scontri. 

Nella sola giornata del 12 maggio 1915, ad esempio,  in via Silvio Pellico tre socialisti neutralisti che gridano viva l’Austria vengono assaliti dagli interventisti, poco dopo stessa sorte toccò a tal Sebastiano Gizzi sottratto a stento al linciaggio, mentre la questura arrestava gruppi di interventisti che davano l’assalto a negozi presumibilmente di proprietà tedesca, agli uffici della Siemens in Corso Venezia, alla birreria Munster in Galleria, a una pensione gestita da stranieri e veniva chiuso l’istituto Schimmelpfeg. 

Contro la guerra pochi giorni dopo i socialisti proclamano un “quasi” sciopero generale nazionale che in pratica riuscì, sia pur tra morti e feriti, solo a Torino.

Milano nonostante probabilmente una maggioranza contro la guerra, diede l’immagine di una città decisamente interventista come riconobbe anche Anna Kuliscioff scrivendo a Turati: “Voi là, in contatto coi giolittiani, attribuite le dimostrazioni ad istigazione dei fidi di Salandra-Sonnino, ma se dovessi giudicare da Milano, nessun governo, anche colla massima profusione di agenti provocatori, potrebbe mettere in piedi dimostrazioni della portata di quelle di ieri e di tutta la giornata d’oggi. I dimostranti dominano Milano”.

Il 15 maggio 1915, all’Arena si svolge un’imponente manifestazione interventista alla quale accorrono più di 100.000 persone e che vede la partecipazione di Alceste De Ambris, Filippo Corridoni e Benito Mussolini.

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Il clima politico in città non migliorò dopo l’entrata in guerra quando ogni forma di dissenso divenne sabotaggio e tradimento, sfiorando talvolta il ridicolo come nel caso dell’assalto e della devastazione dell’hotel Metropole, all’angolo tra via Rastrelli e via Cappellari, da cui sarebbero partite misteriose segnalazioni luminose indirizzate verso non meglio precisate spie tedesche. 

Diversi consiglieri comunali e assessori finirono sotto processo per disfattismo, in particolare Virgilio Brocchi romanziere famoso e assessore accusato per  un romanzo uscito a puntate  sul Mondo o Alessandro Schiavi denunciato dai medici dell’Ospedale Maggiore che presiedeva e processato  per il reato di istigazione a delinquere in relazione alla diffusione clandestina dei manifesti della conferenza di Zimmerwald e del convegno di Kienthal, a loro volta i socialisti diffusero in città la fake news di un treno pronto in stazione Centrale per evacuare ricchi industriali che era stato bloccato dall’intervento diretto del sindaco.

Confusa fu  l’azione dei leader socialisti massimalisti che con la parola d’ordine di Lazzari, né aderire né sabotare, cercarono senza riuscirvi una faticosa mediazione tra l’anima internazionalista e quella patriottica del partito, mentre gli amministratori socialisti dei Comuni, “adoperandosi per far sì che tutti coloro che soffrivano le conseguenze della guerra, i combattenti e le loro famiglie, i feriti e i mutilati, i lavoratori colpiti dall’inflazione e dalla penuria dei generi di prima necessità fossero tutelati, promossero attivamente la collaborazione tra tutti i ceti e tutti i partiti” venivano accusati di “socialpatriottismo”. 

Le difficoltà della posizione socialista si evidenziarono soprattutto dopo la sconfitta di Caporetto dell’ottobre 1917, quando la questione della difesa della nazione prese il sopravvento sulle ragioni della guerra e della pace obbligando i riformisti a definire più chiaramente la loro posizione: Prampolini dichiarò “parte della dottrina socialista” la difesa della Patria e Turati alla Camera chiamò il proletariato “alla difesa della Patria invasa”. 

18-febbraio_media (1)In città nell’arco di sole 4 settimane arrivarono decine di miglia di profughi, secondo alcune stime oltre 70.000, la presenza dei profughi che rendeva evidente la disfatta militare al fronte imbarazzava il governo che avrebbe preferito che restassero nei territori occupati scaricando “bocche da sfamare” sull’occupante.

Caldara cercò di restare leale alle posizioni neutraliste del partito e contemporaneamente dispiegò lo sforzo maggiore in difesa della popolazione civile colpita dalla guerra.

Il comune si era dotato dal maggio 1915 di un’apposita struttura, il Comitato Centrale di assistenza per la guerra, articolato in sette Uffici: l’Ufficio Primo si occupa di sussidi alle famiglie di militari, il Secondo di assistenza alla fanciullezza, il Terzo del collocamento dei disoccupati e dell’assistenza ai profughi, il Quarto della tutela degli interessi economici e personali dei militari, il Quinto dell’assistenza morale ai feriti e ai convalescenti, il Sesto di opere sussidiarie di assistenza sanitaria e infine il Settimo dei “soccorsi in via straordinaria a chi pel fatto della guerra si trovasse in condizioni di bisogno”. 

Importante anche il lavoro dell’Ufficio Notizie che raccoglieva le informazioni relative ai militari morti, feriti o prigionieri per trasmetterle alle famiglie rifugiate in città. 

Ingenti le risorse impiegate che provocarono un importante aumento del debito comunale.

Tutto ciò mentre la città deve far fronte anche all’arrivo dei feriti e mutilati dal fronte creando in pochi mesi 14.000 posti letto e attrezzando 58 ospedali militari cittadini e 9 ospedali territoriali della Croce Rossa; dal 1° dicembre 1917 è iniziato il razionamento del pane e il comune ha stabilito razioni quotidiane di 200 grammi al giorno ma 400 per gli operai che devono sostenere lo sforzo bellico.

Il sindaco in una lettera indirizzata alla Lega dei Comuni nel novembre del 1917 spiega la sua posizione: “A me e ai miei colleghi di questa Giunta Municipale è parso che di fronte all’invasione nemica il dovere dei magistrati eletti al Comune sia quello di rimanere sul posto – maggior ragione se maggiore è il pericolo – per proteggere fino all’ultimo i loro amministrati. Fino a che un vecchio o un malato rimanga nel Comune il sindaco dovrebbe essere vicino a quell’uno. Questa doverosa linea di condotta servirebbe anche a conservare tutto quel poco che è possibile della vita civile e limitare l’esodo delle popolazioni, il quale, se continuerà ad essere generale, potrebbe indebolire per intuitive ragioni di carattere fisico e di carattere morale la resistenza del paese”. 

Per tutta risposta fu censurato da l’Avanti! e contemporaneamente dal prefetto e dalle opposizioni in consiglio che chiesero, con il consenso del Corriere della Sera, il commissariamento del comune (che avvenne per esempio a Monza); ma non vi è da stupirsi: Leonida Bissolati il leader storico del riformismo socialista disse che non avrebbe esitato a far sparare contro i suoi ex compagni neutralisti se la patria fosse stata in pericolo.

1918-piccoliprofughi (1)L’emergenza non terminò con la fine della guerra, a livello nazionale 200.000 furono le vedove e 300.000 gli orfani di guerra e la società civile milanese e la Giunta socialista cercarono anche dopo il 4 novembre 1918 di offrire adeguata assistenza sia direttamente sia attraverso iniziative private.

Nel secondo dopoguerra un’altra ondata di profughi arrivò in regione: i dalmati di origine italiana, gli istriani, i giuliani che dir si voglia, i cittadini italiani ma anche sloveni e croati che fuggivano dal comunismo titoista, 

Il numero di questi profughi oscilla secondo le fonti tra i 200.000 e i 350.000, dalla sola Fiume emigrò il 70% della popolazione, difficile il calcolo di quanti si fermarono in città e in regione certamente non meno di 12.000; il campo di accoglienza più grosso fu a Monza, nelle ex scuderie della Villa Reale, “Ogni famiglia aveva una specie di box fatto con assi di legno, tre metri per quattro. Le assi arrivavano fino a due metri di altezza, una specie di scatola aperta…” i profughi vi restarono alcuni anni (La Repubblica 8/11/2016).

L’accoglienza, tuttavia, non fu la stessa del 1914/17, in molti casi i comunisti italiani accolsero i profughi non come rifugiati ma come fascisti in fuga. A Venezia, i portuali si rifiutarono di scaricare i bagagli, ad Ancona i profughi del piroscafo Toscana furono sbarcati tra fischi, urla e insulti e i ferrovieri in più occasioni boicottarono i trasporti anzi il treno che da Ancona organizzato dalla Pontificia Opera Assistenza e dalla Croce Rossa portava a Bologna profughi, in particolare anziani e bambini, venne definito il treno dei fascisti e la CGIL locale minacciò uno sciopero se fosse stato distribuito latte caldo ai “fascisti” sul treno, coerentemente con quanto scritto da l’Unità il 30 novembre 1946: “si parla di “profughi”‘: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi…”.

1441878909-esulegiuliana (1)Neppure l’istituzione con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 del Giorno del Ricorda ha chiuso definitivamente le polemiche. 

Nulla a che vedere con quanto successo alla fine della Prima guerra mondiale quando per sottolineare ancora la sua coerenza pacifista la giunta socialista milanese ospitò (emulando l’organizzazione inglese Save the children nata proprio nel 1919), 2.224 bambini viennesi denutriti.

Questo il commento della città di Vienna “E questo è un segno che ci rallegra in quanto dimostra che, dopo una guerra spietata, ora la solidarietà umana riconquista finalmente diritto di cittadinanza”.

Speriamo sia così anche questa volta.

Walter Marossi

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