7 dicembre 2021

MARIA JOÃO PIRES

Una “Gran Signora” del pianoforte al Conservatorio


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Sono cinque anni che non suonavo a Milano, e Milano mi mancava molto. Così, quando il Quartetto mi ha chiesto di sostituire al volo Daniil Trivonov indisposto, ho accettato con gioia”. Con queste parole Giuseppina Manin iniziava l’intervista alla grande pianista portoghese Maria João Pires e l’annuncio del concerto che la sera del 23 novembre scorso avrebbe tenuto al Conservatorio di Milano.

In quell’incipit c’è tutto il carattere della Pires, donna, pianista e musicista di grande serietà e di forte personalità, che a 77 anni ama ancora chiudersi nella sua casa, isolata nella campagna portoghese al confine con la Spagna, per preparare i suoi ormai rari ma preziosi concerti. Grande signora del pianoforte, insieme alla quasi coetanea Marta Argerich, ci ha regalato negli anni indimenticabili interpretazioni, in particolare di Beethoven (come dimenticarla, a Vienna e a Roma, con i Berliner e Claudio Abbado, nei mitici cicli delle 9 sinfonie e dei 5 concerti?) e l’altra sera, in questo suo ritorno a Milano, ha riempito fino all’inverosimile la grande sala Verdi del nostro Conservatorio. 

Ha eseguito la Sonata in la maggiore op.120 di Schubert, poi la Suite bergamasque di Debussy, e infine la Sonata in do minore op. 111 di Beethoven. Messo insieme probabilmente all’ultimo momento, il programma è risultato un po’ stravagante, ci ha condotto da uno Schubert ventiquattrenne (estate 1819) al Beethoven già ultracinquantenne (gennaio 1822) passando attraverso un Debussy ventottenne (1890) costringendo gli ascoltatori – e immagino anche sé stessa – a veri e propri salti mortali.

Non posso dire di essere rimasto incantato da questo concerto, e non solo a causa del programma, perché se è vero che la giovanile opera di Schubert, opera non particolarmente ispirata, ci è stata raccontata con sublime delicatezza, sfiorando i tasti e costringendoci a una grande concentrazione, il passaggio a Debussy è risultato non poco estraniante. 

La Suite bergamasque è universalmente nota ed apprezzata per l’incantevole pagina del Clair de lune che occupa la terza parte dell’opera ed è espressamente ispirata a una lirica del suo amico Paul Verlaine. Ma il Prélude e il Menuet che la precedono, e il Passepied che la segue e conclude, si richiamano a danze settecentesche e a maschere (“bergamasche”, appunto) che nulla hanno a che vedere con l’ispirazione di quella pagina, alta e rarefatta, con la quale il giovane Debussy inizia a costruire le basi della sua poetica. 

Succede dunque che queste due opere giovanili, con ispirazioni tanto diverse e distanti più di settant’anni una dall’altra, messe a confronto una dopo l’altra risultino totalmente estranee, prive di riferimenti, analogie, allusioni, per cui – anche senza esserne perfettamente consapevoli – gli ascoltatori finiscono per non immedesimarsi nella scrittura musicale e restino alla superficie di ciò che viene loro proposto. 

Un breve intervallo e poi eccoci al pezzo forte della serata, all’ultima Sonata di Beethoven che fra pochi giorni compirà duecento anni, e che da molti viene considerata una sorta di testamento del grande tedesco. Qui, mi sbaglierò, ma la magnifica Maria João Pires o era stanca, o straniata dalle due precedenti esecuzioni, o forse ha dovuto lasciare troppo repentinamente il suo fatato eremo portoghese per infilarsi in un aereo per Milano …. chissà, forse tutte queste cose messe insieme, ha dato l’impressione di esser poco ispirata e di aver perso la lucidità e la sicurezza dimostrata nella prima parte del concerto.

Il Maestoso, allegro con brio e appassionato, non era così maestoso e, se c’erano il brio e la passione, mancavano la nitidezza e il rigore, sembrava appannata, non abbastanza assertiva quanto richiede quello straordinario movimento. Era ancora nelle braccia delicate di Schubert e di Debussy. Ma è nella celeberrima Arietta, adagio molto semplice e cantabile, con cui si conclude l’intero ciclo beethoveniano, che i nodi sono venuti al pettine.

In un programma di sala di qualche anno fa a Roma, Arrigo Quattrocchi scriveva che l’opera 111 “ci porta all’estremo periodo creativo dell’autore, periodo i cui frutti furono spesso giudicati dai contemporanei incomprensibili e ineseguibili, per l’astrusità del contenuto e le difficoltà tecniche; d’altra parte lo stesso autore non concepiva più la Sonata per pianoforte in prospettiva della pubblica esecuzione, ma piuttosto per la lettura, per la meditazione privata. Non senza motivo le ultime Sonate e gli ultimi Quartetti sono stati pienamente compresi solamente nel nostro secolo; essi rappresentano l’espressione di un progressivo isolamento del compositore dalla sua epoca, per seguire le tracce di una fantasia e di una logica compositiva del tutto indipendenti dai meccanismi della contemporanea produzione e fruizione musicale”.

Mentre Thomas Mann, nel Doktor Faustus, a proposito dell’ultima variazione dell’Arietta in cui Beethoven introduce una piccola alterazione nella prima delle tre note del tema principale (un “do diesis sol sol” al posto di “do naturale sol sol”) scrive che «Questo do diesis aggiunto è l’atto più commovente, più consolatore, più malinconico e conciliante che si possa dare. È come una carezza dolorosamente amorosa sui capelli, su una guancia, un ultimo sguardo negli occhi, quieto e profondo. È la benedizione dell’oggetto, è la frase terribilmente inseguita e umanizzata in modo che travolge e scende nel cuore di chi ascolta come un addio, un addio per sempre, così dolce che gli occhi si riempiono di lacrime»

Ho avuto l’impressione che in quel momento la Pires, più che dal doloroso e rarefatto addio di Beethoven, fosse presa da un pathos diverso, dal romanticismo che stava già montando e che ci avrebbe presto portato al pianoforte di Chopin.

Paolo Viola

Caro Direttore 

mentre il giornale “andava in macchina”, come si diceva una volta, ho visto alla televisione il Macbeth con cui si è inaugurata la Scala (ormai l’opera lirica è pensata molto più per la televisione che per il teatro!).

Non posso trattenermi dal dirti che cosa mi è frullato in testa durante lo spettacolo.

Ho immaginato una grande manifestazione di popolo, musicofili e musicomani, da tenersi in contemporanea nelle piazze delle città italiane o almeno quelle che hanno un teatro d’opera, per protestare contro l’orripilante controcultura delle regìe che stravolgono le opere liriche “rendendole contemporanee”.

Non ne possiamo più.

Non ci importa nulla delle scenografie fantastiche e degli effetti speciali, vogliamo entrare nell’atmosfera autentica in cui le opere sono nate, penetrandola il più possibile, come si è fatto per decenni e decenni.

Registi e scenografi, per piacere, si scrivano le loro opere oppure si occupino di quelle loro contemporanee ma lascino in pace il nostro patrimonio culturale, che va rispettato come tutti gli altri lasciti d’arte delle generazioni passate.

Grazie se mi aiuti ad urlarlo il più forte possibile.

P:V.

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  1. Vittoria MoloneIncominciando dal fondo, dico subito che sono completamente d’accordo con Paolo Viola. Insopportabili e presuntuosi questi registi, che cosa credono di fare. Molto meglio piuttosto usare i vecchi allestimenti come fanno molti teatri stranieri e tutto sarà più piacevole e più economico. Quanto al concerto della Pires, trovo che il giudizio sia troppo severo, ma certo il nostro commentatore ne sa più di me
    8 dicembre 2021 • 15:04Rispondi
  2. Margaret Bailey BiniSono completamente d'accordo con quanto scrive Paolo Viola, voce e musica eslusi è stato una messa in scena incomprensibile e la regia televisiva, sotto tanti aspetti deludente, qualche volta comica...
    8 dicembre 2021 • 19:18Rispondi
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