9 novembre 2021

GIOVANI DELINQUENTI ALL’ISOLA. VIETARE I BLUE JEANS E I FLIPPERS

Un pezzo di storia italiana che letta oggi spiega molte cose


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“La città deve essere ripulita dai teppisti scioperati e vili” con questo titolo il Corriere della Sera nell’agosto 1959 chiedeva di porre fine alla delinquenza giovanile che imperversava in città mentre l’ANSA scriveva: “le donne a Milano non possono più uscire sole di sera: i teddy boys sono ovunque all’agguato. Molte famiglie formano convogli per difendersi meglio”.

La criminalità minorile identificata con il termini teddy boys spaventava l’opinione pubblica, l’analisi del più diffuso quotidiano italiano era semplice: “sono quasi tutti ragazzi falliti nella scuola e nel lavoro…giovani scioperati dediti a gesti di violenza gratuita e ad atti di vandalismo improvviso, aggressioni di pacifici cittadini…tra loro ragazze che si aggirano sui 14-16 anni ma già fumano …dilagante piaga della società”, in risposta la questura avvierà una serie di retate notturne (in una sola vengono condotti in questura ben 165 giovani).

Un fatto di cronaca, la famosa goccia che fa traboccare il vaso, scatenerà il dibattito politico culturale.

22914706059 (1)In via Sassetti all’Isola viene arrestato per un furto un ragazzo diciassettenne che confesserà coinvolgendo altri giovani, non solo vari furti ma anche gli abusi su una giovane ragazza tredicenne sottoposta a varie violenze; come riportano gli atti della Camera dei deputati dove il fatto approdò: “i teppisti organizzavano banchetti ed orge cui facevano partecipare anche la giovane, e pare che fra i complici vi fosse il fratello di lei … siamo di fronte alle più preoccupanti e gravi aberrazioni umane, a vere bestialità.”

Quelli del “gruppo dell’isola” saranno oggetto di inchieste giornalistiche quasi sociologiche: “erano orfani di padre e di madre. La famiglia e l’ambiente condizionano e talvolta determinano l’avvenire dei “ragazzi sbagliati” ma non è certamente con la schedatura di polizia che si riuscirà a contenere la delinquenza minorile” (Aldo Lualdi).

Il dibattito arriva ai vertici della politica il 23 agosto quando sulla prima pagina de l’Avanti ! un Pietro Nenni in versione gauchiste scrive un articolo dal titolo Gioventù sradicata: “tutta una serie recente di reati e di delitti, parecchi a sfondo sessuale hanno avuto a protagonisti non i teppisti dei sobborghi, ma figlie e figli di papà…pochi vedono nella delinquenza giovanile un aspetto della crisi sociale e politica dell’intera società e del suo riflesso negativo sulla vita intellettuale e morale…Se si risale dagli effetti alle cause allora non può non vedersi nei bulli romani, nei teppisti milanesi, torinesi o napoletani di qualsiasi estrazione sociale le conseguenze di un determinato ordinamento politico sociale di una determinata concezione e articolazione dei rapporti umani e di classe e della struttura della società…è proprio considerando marxisticamente la vita come lotta che la gioventù può trovare una sua collocazione fuori dalla disperazione in cui tante energie si bruciano e si consumano degenerando nel vizio o nel delitto” e conclude “invitando a portare avanti la critica alla società borghese e l’azione contro le sue strutture fossilizzate”.

All’articolo fanno seguito molti interventi.

C’è chi parlerà di “eredità della guerra” (Piero Caleffi) e con lui Lina Merlin “che cosa ha prodotto l’allentamento dei vincoli familiari se non la guerra?”; chi come il futuro presidente della Corte Costituzionale Lionetto Amedei sottolinea la responsabilità dei rotocalchi nel celebrare l’esibizionismo scandalistico e chiede severi richiami a chi esercita la patria potestà e propone che non si usi il termine teddy boys ma canaglia o deficienti morali; chi sottolineerà che si tratta di un problema del nord assente al sud (il segretario della camera penale di Napoli); chi proporrà soluzioni pratiche “mandiamoli a lavorare” (Luciano Bianciardi); chi come il senatore Arialdo Banfi chiede di non esagerare perché “il fenomeno è circoscritto e ricorrente teppisti e violenza esistono da sempre” mentre il futuro ministro Carlo Arnaudi ricorda che “il viandante milanese che verso le 23 percorre il Gentilino, Santa Marta, via Teuliè o via Daverio si imbatte in frotte vocianti di giovani che frequentano le scuole serali e che si avviano verso casa … spesso in blue jeans… ma non fanno notizia… sono migliaia che si sobbarcano dopo il lavoro ore di studio… il teppismo giovanile e le sue manifestazioni sono state esagerate: i bravi ragazzi non fanno notizia”. 

Non manca chi ricorda che i teppisti attuali sono eredi delle squadracce fasciste e chi sottolinea come il fenomeno sia presente solo nei paesi capitalisti e non esista nei paesi dell’est. 

Guttuso colse l’occasione per parlare d’arte paragonando teppisti e astrattisti: “La connessione di quei borghesi ribelli con l’arte astratta è evidente. Sono due facce della stessa sfiducia, una al livello della truffa intellettuale l’altra al livello della delinquenza gratuita”.

L’Unità minimizza: “Cosa c’e di vero nella psicosi che sembra attanagliare l’animo dei benpensanti? Esiste veramente il problema di un rigurgito di delinquenza minorile? O non si tratta di uno dei tanti aspetti del problema dei giovani d’oggi, che è quello del lavoro, della scuola, di prospettive per il futuro? A Milano – secondo le statistiche del comune – ci sono 110 mila giovani, i giovani rastrellati in questi ultimi mesi nella campagna di prevenzione del teppismo sono 2500 e di questi 400 sono finiti al carcere ma un 20% sono trentenni, delinquenti abituali, quindi la “nuova teppa” è composta al massimo da 300 320 “teddy boys”. 

Le conclusioni sono affidate ad una penna autorevole Ada Marchesini Gobetti: “Un’ondata di panico sembra sconvolgere l’ottimistico conformismo dei benpensanti… non credo si debba mettere sullo stesso piano il caso veramente patologico I’atto specifico di delinquenza, la beffa spavalda, la monelleria più o meno innocente che sono esistiti sempre anche se, col mutar dei tempi sono cambiate le tecniche…il fenomeno nel nostro paese è effettivamente modesto.

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In un convegno dei moderati promosso dalla Fondazione Cini a Venezia nel settembre 1959 alla presenza del ministro di Grazie e Giustizia Gonella, del patriarca e di numerosi studiosi (presiedeva Francesco Carnelutti uno dei grandi della giurisprudenza italiana) si propose nell’ordine: 1) di vietare i blue jeans in quanto uniforme dei teddy boys 2) di non far entrare nei cinema i minorenni e di intensificare la censura sulla stampa 3) di riaprire i bordelli, perché la legge Merlin aveva fallito e portato la prostituzione per le strade 4) di vietare il jazz, perché gli effetti di certi ritmi su persone instabili non si possono negare 5) di vietare il rock n roll definito colluttazione mimata 6) di abbassare l’età imputabile 7) di aprire più doposcuola, campi sportivi ma anche campi di lavoro 8) di proibire l’uso dei motorini 9) di abolire il perdono giudiziale e qualcuno propose anche le pene corporali educative ottenendo un boato di approvazione dal pubblico e meritandosi un articolo sul Corriere dal titolo Qualcuno propone la frusta per la delinquenza giovanile.

Tra i pareri raccolti in sala, illustri professori universitari denunciavano i guasti del montessorismo, altri le responsabilità della televisione, altri proponevano di creare corpi di polizia femminile dediti ai minori. 

Bonaventura Tecchi denunciava la moda femminile (“è un invito al fervore del sangue del giovane”); il giudice costituzionale Biagio Petrocelli chiedeva punizioni esemplari; un altro giudice, Jager, rifiutava di limitare la libertà di stampa e di bastonare (bontà sua) i teddy boys ma proponeva il coprifuoco per i giovani; altri tra cui il ministro in una intervista ad OGGI sottolineavano il rapporto tra maggiore criminalità minorile e lavoro delle donne/madri “costrette ad abbandonare la casa, legittimando così la prassi padronale del licenziamento delle donne lavoratrici quando si sposavano”.

L’intervento più liberal e nettamente contrario al clima del convegno quello della gioventù democristiana (Vladimiro Dorigo).

Michele Serra, il corrispondente del Corriere, peraltro notava che alcune indicazioni erano eccessive e con lungimiranza scriveva: “i jeans stanno per passare di moda e presto si ridurranno alla funzione di abiti infantili.” 

SharedScreenshot3 (1)Pasolini a proposito del convegno scrisse: tanta cecità reazionaria, tanto sciocco paternalismo, tanta superficiale visione dei valori, tanto represso sadismo, non possono che giustificare l’esistenza, in molte città italiane, di una gioventù insofferente e incattivita”.

In difesa del blue jeans (rammento che erano vietati nelle scuole) interverrà l’Unità, ma anche Montanelli che a proposito di un altro fatto di cronaca (l’omicidio di un presunto teddy boys a Bracciano ad opera di una ragazza molestata) si domanda se il morto non sia imputabile “alla preconcetta ostilità che suscitano i blue jeans…se fosse stato vestito in borghese forse non sarebbe morto…ma c’erano ad aggravare le sue iniziative galanti quei benedetti o maledetti pantaloni a tubo che ormai evocano ogni sorta di sopruso dall’omicidio allo stupro”.

In risposta al convegno di Venezia definito di cultura medievalistica, il PSI promuove a Roma un contro convegno dal titolo “Teppismo e realtà giovanile nella società d’oggi” cui partecipa la creme dell’intellighenzia di sinistra, tra gli altri: Cesare Mulatti, Tristano Codignola, Lina Merlin, Giuliano Vassalli, Pier Paolo Pasolini, Mario Monicelli, Alberto Moravia, Tullio Gregory, Ignazio Silone, Carlo Levi, Luigi Squarzina, Pio Baldelli, Guido Calogero, Flora Volpini, Alfredi Reichlin, e financo il compagno Diakev della Pravda.

Il titolo del rendiconto giornalistico è già un programma. “Nella lotta contro il nuovo teppismo guardarsi soprattutto dalla cieca reazione”. Ma lo stesso quotidiano socialista aveva titolato pochi giorni prima “Infuria la nuova teppa a Milano aggredito e denudato un giovane”.

Le relazioni principali, che da sole meriterebbero un articolo, furono quelle di Cesare Musatti, di Nicola Perrotti, di Giovanni Bollea, di Luigi Volpicelli, che diedero al convegno un inusuale taglio molto più psicoanalitico che politico, poco apprezzato sia dai comunisti che dai democristiani.

Forse per la complessità dell’analisi le mozioni conclusive furono invece abbastanza generiche: “trattasi di fenomeno circoscritto, occorre respingere ogni analisi semplicistica ed affrettata…occorre fare un indagine approfondita … vanno respinte le proposte di natura repressiva che cancellerebbero alcune delle conquiste più alte e consolidate della legislazione in materia di minori…vi è l’esigenza di una approfondita opera di profilassi e prevenzione sociale attraverso un attiva propaganda per l’igiene mentale e una assistenza medico-psico-pedagogica diffusa e penetrante fina dalla più tenera infanzia…una politica sportiva moralizzatrice che stronchi lo sfruttamento speculativo ed esalti il senso agonistico e soprattutto attraverso un radicale rinnovamento della scuola”.

Una seconda mozione chiedeva ai giornali di censurare le foto e i dati anagrafici dei teddy boys, fu forse il primo appello per una privacy dei minori.

Luciano della Mea (ricorda Giovanni Scirocco in un suo saggio sui circoli culturali milanesi) traeva conclusioni più ficcanti: “E’ alla alienazione di una società livellata e conculcata dalle esigenze della concentrazione, e che ha elevato la produttività a fine di vita, che vanno riferite le esperienze dei moderni teddy-boys […] A Milano, più che altrove, per particolari caratteristiche, il fenomeno dei teddy-boys, con la sua casistica, fa risaltare la crisi dei due istituti educativi principali: la famiglia e la scuola. Che l’istituto della famiglia possa sopravvivere in una società moderna come prima cellula educativa, è una pia illusione o un sogno di codini. Vi è aperta contraddizione tra concentrazione industriale ed emancipazione della donna da un lato, e istituto familiare come prima scuola dall’altro […] La scuola non educa neppure la gioventù alla realtà in cui essa è avviata a operare, si attarda a nutrirla di valori anacronistici, decaduti, che al primo contatto col mondo cadono a terra come foglie morte”.

L’unica iniziativa su cui tutto l’arco parlamentare era d’accordo era quella di aprire centri sportvi.

Ma la lotta al teppismo giovanile veniva condotta anche attraverso altri interventi: mercoledì 11 maggio 1960, la polizia fa irruzione in un circolo privato di Porta Venezia (Sci club sport invernali Cristiania) dove si danno convegno in modo clandestino diversi giovani, scrive il Corriere: “Droghe? Liquori? Dolce Vita? No flippavano, ovvero giocavano a flipper. 

Dal primo luglio 1959 infatti i flipper erano proibiti su tutto il territorio nazionale perché “esercitavano una “morbosa attrazione” come sosteneva il ministro Gonella (sempre lui) per i giovani. 

152853 (1)A sostenere il divieto era stato il futuro presidente della Repubblica Scalfaro che così aveva risposto ad una interpellanza del missino Servello (che meno baciapile dell’Oscar Luigi ammetteva di passare anche lui qualche mezz’ora al gioco): “I flipper hanno effetti pregiudizievoli sui giovani derivanti dal dilagare nei pubblici esercizi…sono un deprecato fenomeno, offrono ritrovo a persone non dedite al lavoro, portate a frequentare ambienti malsani, a spendere oltre le loro possibilità e che vengono distratte dai loro compiti di lavoro o di studio…costituiscono una spinta al vizio…gran parte dell’opinione pubblica vuole misure restrittive…

La cronaca nera aveva preparato il terreno e abbondava di racconti che coinvolgevano il gioco del flipper, dalla strage di Torino (un giovane sterminò la famiglia madre, fratello e sorella) al processo per la banda di via Osoppo (pianificavano gli incontri nelle sale flipper), dalla “intollerabile e brutale violenza” per le vie di Monza (luglio 1957) allo strangolamento per rapina in via Illirico a Milano, ai meno gravi tentativi di corruzione che gli esercenti esercitavano verso solerti poliziotti per arrivare alle segnalazioni che la questura faceva alle famiglie sulle “bigiate” che gli studenti facevano per giocare a flipper in luoghi di perdizione quali il Cral ATM e il circolo familiare Acli.

Inizialmente i flippers non solo avevano goduto di piena libertà ma erano stati elemento importante anche nelle campagne elettorali per richiamare i giovani nelle sedi di partito come raccontava Alberto Cavallari “Un flipper vale due comizi” e come rivelò l’assassinio del Parco Solari (giugno 58) quando il presunto colpevole portò come alibi che “al momento delle coltellate era in sezione a giocare a flipper”.

La cautela sul divieto era dovuta al fatto che si calcolava che nel paese erano installate ben 13.000 delle perverse macchine e che migliaia fossero i posti di lavoro coinvolti 

Con i teddy boys la questione giovanile aveva fatto irruzione nel dibattito politico, in quello culturale, in quello parlamentare ma già nel luglio 1960 con le magliette a righe in piazza l’attenzione si spostava su contenuti più politici, scrive Luca Benvenga: “Il teddy diviene protagonista di una rottura antropologica nel tessuto popolare italiano degli anni Cinquanta perché espressione di un’alterità culturale: nel 1960 con la rivolta dei giovani con la maglietta a strisce e la cacciata del governo Tambroni, questi nuovi consumatori della classe operaia contribuiranno (assieme con lo studente), alla nascita, a livello politico, della “questione giovanile” portata alla ribalta a partire dal 1968”; ma questa è un’altra storia.

I flippers furono rilegittimati dopo anni di sentenze, ricorsi e dibattiti che arrivarono alla Corte Costituzionale, i blue jeans non sono scomparsi e dei teddy boys rimane qualche fumetto, una sceneggiatura di Pasolini per un film che non si fece come voleva lui, qualche commediola; ma del grave allarme sociale non si ricorda più nessuno.

Walter Marossi

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  1. Cesare MocchiBellissimo, complimenti! Vietare i blue-jeans e i flipper per fermare la criminalità... se qualcuno ogni tanto non lo ricordasse, non ci si crederebbe.
    10 novembre 2021 • 10:37Rispondi
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