4 gennaio 2021
IL NOSTRO FUTURO E’ GIA’ ASFALTATO, O NO?
La città in 15 minuti, difficile realizzarla ma si può cominciare
4 gennaio 2021
La città in 15 minuti, difficile realizzarla ma si può cominciare
Il tema della “città dei 15 minuti”, un’idea per la rigenerazione degli spazi urbani in corso di sperimentazione in alcune città europee, è già stato trattato su ArcipelagoMilano, ed è stato accolto con più perplessità che adesioni.
Riprendiamone l’idea di base, che è quella di intervenire sull’organizzazione degli usi di insediamenti residenziali esistenti al duplice fine di rigenerare i legami di prossimità sia sociali che economici al loro interno, soddisfacendo quanto più possibile le esigenze quotidiane della popolazione residente, e riducendo nel contempo lo spreco di tempo e risorse in spostamenti per soddisfare tali esigenze altrove.
Alcuni ci hanno visto una voglia nostalgica di ritorno alla dimensione sociale ed economica del villaggio, altri lo considerano un tema “da ricchi” perchè si suppone applicabile esclusivamente alla città di Milano già di fatto privilegiata per densità di funzioni disponibili, e non all’hinterland, altri ancora temono che ciò limiti la libertà individuale, identificata con la facoltà di muoversi liberamente sul territorio con la propria auto.
Vorrei mettere da parte queste letture superficiali dell’idea che sta dietro allo slogan perchè essa nasconde motivazioni e modalità di intervento sul territorio che sono più complesse e interessanti, tanto da indurre le amministrazioni locali di numerose metropoli ad adottarla o sperimentarla.
La motivazione di fondo, in estrema sintesi, è che l’ambiente costruito in cui viviamo è la rappresentazione di un sistema di valori che non è più attuale, e sempre meno lo sarà in futuro, quindi dobbiamo incominciare a rigenerarlo ora. E non potendo attendere i tempi lunghi delle riforme strutturali, la sua messa in pratica dovrà iniziare dal basso,intervenendo su porzioni dell’ambiente urbano con la collaborazione dei portatori di interesse locali, residenti, aziende, associazioni.
L’ambiente costruito, risorsa e zavorra
Perchè l’ambiente costruito in cui viviamo è al tempo stesso risorsa e zavorra? Perchè è costituito per almeno l’80% da edifici e relative reti di urbanizzazione, dalle strade alle fognature, ai servizi connessi, progettati e costruiti nel secolo passato o ancora prima.
Cioè ha caratteristiche che sono state decise quando nessuno si preoccupava del consumo del suolo, della qualità dell’aria, del clima, delle risorse naturali. E quando di sostenibilità, inquinamento, rigenerazione urbana e economia circolare erano in pochissimi a parlarne seriamente.
Il problema è che il mito di un progresso tutto basato sul consumo di risorse ritenute illimitate, comune a tutte le nazioni e intrinseco al capitalismo, ha di fatto configurato il paesaggio materiale in cui viviamo. E la forma e distribuzione degli insediamenti è sì il prodotto del’iniziativa immobiliare, ma anche delle forze che avrebbero avuto il compito di indirizzarla e arginarla quando sconfinava in forme speculative.
Il primo argine mancante è stato proprio quello delle amministrazioni locali: esse (di qualsiasi colore politico fossero), pur esercitando il controllo previsto da regolamenti edilizi e piani urbanistici, hanno accolto a braccia aperte ogni nuova costruzione perchè intanto portava nuovi abitanti, tasse e soldi in cassa.
Il secondo argine mancante è rappresentato dalla cultura urbanistica razionalista. Illudendosi di essere moderna e appunto razionale, ha prodotto piani regolatori basati sul principio della zonizzazione e separazione delle funzioni, contro la mixitè (orrore orrore) del tessuto urbano storico, stimolando così di fatto la diffusione insediativa in totale connivenza con gli interessi economici forti: ordinatamente organizzata per quartieri residenziali, distretti produttivi, centri direzionali, centri commerciali, ma di fatto guidata dal principio che la terra vale qualcosa solo se edificata, dovunque.
E’ quasi ovunque mancato il buon senso, ben rappresentato ad esempio sin dagli anni ’50 dalla politica insediativa in Svezia: che prima ha pianficato la rete delle metropolitane di Stoccolma e poi ha stimolato intorno alle sue stazioni l’insediamento di nuclei residenziali, commerciali, produttivi distinti ma anche ben collegati tra loro, per garantire ovunque una mobilità pubblica comoda e rapida.
Si è invece dato corso allo sviluppo tutt’attorno ai centri principali di un ambiente costruito per episodi isolati caoticamente distribuiti sul territorio di ogni comune, spesso praticamente inaccessibili senza l’automobile.
Appunto l’automobile, la libertà di muoversi senza dipendere da mezzi pubblici, è stato il mito del secolo scorso. Assieme all’altro mito: possedere la villetta con giardino e tavernetta più auto nel garage, e per chi proprio non poteva permetterselo almeno l’appartamento nel condominio fuori città con un pò di verde intorno: non importa dove, tanto l’automobile rendeva ogni ubicazione appetibile.
Due miti universali, potentissimi, collegati tra loro, che andavano purtroppo nella direzione opposta di tutto ciò che oggi possiamo considerare sostenibile. Miti che hanno promosso e sdoganato proprio la dispersione insediativa, già poco arginata dalle amministrazioni locali.
Questo è il cuore del problema. L’ambiente artificiale in cui viviamo, sia esso la città storica, le sue periferie, o la galassia insediativa dell’hinterland di cui stiamo parlando, è nato quando a nessuno, imprenditore o abitante che fosse, dava importanza alla sostenibilità, all’ecologia, al clima. E nella frenesia ipercinetica prodotta dal consumismo e dalla dilatazione dei mercati delle meci e del lavoro a scala interurbana, il traffico, l’inquinamento, il tempo sprecato nei trasporti erano considerati inevitabili e tollerabili effetti collaterali del progresso. E spostarsi a piedi o in bici era una condizione da poveracci.
Ebbene, il problema è che i luoghi in cui viviamo oggi, le città, le espansioni residenziali fuori città, con la loro viabilità e i servizi connessi, costituiscono un sistema abitativo complesso stratificatosi nel tempo, fatto di cemento, ferro, asfalto, non solo fisicamente ma anche organizzativamente resistentissimo ai cambiamenti, al quale ci si deve adattare perchè estremamente difficile e costoso da modificare.
Certo, molto di ciò che abbiamo ereditato sembra rispondere ancora bene alle nostre esigenze individuali, ma non alle istanze di cambiamento economico-sociali che riguardano il futuro.
Soprattutto ci siamo resi conto che l’apparente libertà di movimento offerta ai cittadini dalla motorizzazione diffusa, in particolare quella privata, si realizza a costo di enormi sprechi del loro tempo individuale, della difficoltà di oganizzazione del tempo quotidiano, dello spreco di risorse, e i vantaggi vanno soprattutto a chi l’ha promossa per logica impenditoriale.
Solo chi si è lasciato abbagliare dal Ballo Excelsior del Progresso e dalla pubblicità delle industrie automobilistiche può coltivare ancora l’idea che la mobilità privata diventerà presto sostenibile, basta convertirla all’elettrico.
A parte le risorse, solo in parte rinnovabili, divorate dalla produzione e manutenzione dei mezzi di trasporto privati, ricordiamoci che l’elettricità per far marciare le auto non piove dal cielo ma bisogna produrla. E visto che ora a produrre l’80% dell’energia elettrica sono le centrali a combustibili fossili o paesi stranieri (vedi diagramma allegato), ci vorranno decenni prima che gli impianti fotovoltaici o eolici nostrani riescano a coprire anche solo la metà della crescita di domanda che proverrà dalla mobilità a energia elettrica, il resto sarà sempre prodotto bruciando combustibili.
In altre parole, proprio la motorizzazione privata, sulla base della quale è stato costruito tutto ciò in cui siamo costretti a vivere, non è la soluzione, è invece diventata la parte più rilevante del problema. E, aprendo una parentesi, chi amministra il territorio di questo problema poteva accorgersene molto prima, se solo avesse voluto.
Dalla “Carta delle città europee per uno sviluppo durevole e sostenibile” approvata nel corso della Conferenza europea sulle città sostenibili tenutasi ad Aaalborg nel 1994, ispirata al TOD (Transit Oriented Development), al POD (Pedestrian Oriented Development) sviluppati in studi precedenti, al SUTP, Sustainable Transport Plan, prodotto dalla Commisione Europea nel 2006, sono numerosi gli studi concordi sulla constatazione che una mobilità quasi totalmente dipendente dalla motorizzazione privata genera costi reali e sociali enormi e un consumo di risorse ormai del tutto privo del requisito della sostenibilità, generando inquinamento, congestione, spreco del suolo e abuso dello spazio pubblico, oltre a creare disparità sociale e indebolire il senso della comunità.
Pur rispettando il ruolo indispensabile e ineliminabile della mobilità privata su gomma nel nostro sistema economico, tutti convergono sulla necessità di contenerla alle effettive necessità potenziando il sistema dei trasporti pubblici soprattutto per le persone, sistema i cui nodi devono diventare i poli di riferimento per gli insediamenti, e non viceversa, nonchè rivalutando e stimolando ogni forma di mobilità leggera e pedonale.
Consapevolezza già dimostrata dagli amministratori di numerose città che più di noi e molto prima di noi hanno investito nel rinnovo del proprio sistema di infrastrutture: Karlsruhe, Montpellier, Barcellona e altre.
Che fare?
Uno degli obiettivi prioritari dell’idea della “città dei 15 minuti” è ora più chiaro e tutt’altro che nostalgico: è quello di recuperare tempo e qualità di vita per chi spreca ambedue in trasferte pendolari quotidiane a media e lunga distanza tra luogo di lavoro e residenza, riducendo anche le risorse consumate in ciò, aumentando i servizi e le opzioni di lavoro e svago in ambito locale, agevolando il telelavoro e l’economia di prossimità. E cercando di farlo nell’immediato futuro, non forse e fra vent’anni. E di farlo dove ciò sarà possibile, ovvero dove l’antiquata mixitè funzionale è ancora e per fortuna una realtà.
Come già detto l’ambiente costruito rappresenta un sistema estremamente rigido che detta le proprie regole su che uso farne per decenni: se è stato costruito basandosi soprattutto sulla mobilità privata, essa resterà la condizione per abitarlo finchè non verrà demolito.
I numerosi quartieri di villette-dormitorio sparsi nell’hinterland milanese, costruiti badando solo distrattamente allo sviluppo di una rete di infrastrutture pubbliche, e dove ha imperato la logica del “prima si costruisce dove si può, poi le infrastrutture seguiranno” una logica opposta a quella del SUTP citato prima, dove non si può fare a meno della macchina per andare al lavoro o a comprare un chilo di pane, resteranno tali per diverse generazioni.
Tuttavia la distinzione tra la “Milano dei ricchi“, già quasi “città dei 15 minuti” essendo dotata di una fitta rete infrastrutturale pubblica e di servizi ben distribuiti, e “l’hinterland dei poveri”, dove tutto ciò scarseggia, è superficiale.
In primo luogo perchè tutta l’area urbana centrale di Milano, per intenderci all’interno della ex cinta ferroviaria, pur ben dotata di servizi, non sfugge alla logica dominante della motorizzazione privata e subisce anche la congestione generata dal milione e più di persone che vi si riversano quotidianamente e con ogni mezzo.
Inoltre il nostro hinterland non è fatto solo di quartieri di villette sperduti in campagna ma ha una natura estremamente variegata, con molte città medie e piccole dotate di servizi ben distribuiti, che, anche se lo sviluppo scriteriato di centri commerciali extraurbani minaccia le loro economie di prossimità (più fragili di quelle di Milano) e consolida il modello di mobilità basato sull’automobile, sono ancora ricchi di potenzialità evolutive.
Ed è proprio alla scala minore, circoscritta, dei piccoli centri o dei quartieri che è più facile intervenire con interventi leggeri, veloci, che offrano soluzioni molto semplici ma importanti per le persone che ci abitano: rendere più vivibili gli spazi pubblici o condivisi nell’arco della giornata, sviluppare iniziative socialmente aggreganti e di servizi di sollievo, portare più servizi di uso frequente vicino a dove si abita, raggiungibili a piedi o in bicicletta. Ad esempio si sta già sperimentando la formazione di spazi di co-working di quartere per gestire il lavoro terziario in remoto. In altre parole, sfruttando le nove tecnologie per promuovere valori più sostenibili dell’abitare.
Ritorniamo al nodo centrale del discorso. Chi può o deve fare cosa? Chi ha gli strumenti e le risorse per cambiare l’ambiente fisico che abbiamo ereditato dal passato adattandolo ai nuovi valori?
L’iniziativa pubblica, ma solo se ha le idee chiare e risorse sufficienti per farlo, assieme all’iniziativa privata, ma solo se ha interesse a farlo.
L’iniziativa privata è oggi più che mai il motore della “modernizzazione” dell’ambiente costruito, in base alle proprie esigenze, ai propri diritti e ai limiti imposti dalle norme. Ma lo fa ovviamente senza alcun intento etico. Quindi è indifferente ad esempio ai problemi generati dal traffico o dell’inquinamento, o dal consumo del suolo, a meno che un’azione in tal senso non generi un beneficio dietto o indiretto, come la pedonalizzazione di aree limitate e commerciali, o di immagine, come il “greenwashing” .
Ma laddove l’amministrazione pubblica, anzichè trovare convergenza con gli obiettivi del l’iniziativa privata, intendesse agire autonomamente sull’ambiente costruito deve mettere in conto conflitti con la rete dei diritti acquisiti e costi tali da limitare nei fatti la sua iniziativa.
Basti notare quanto è difficile avviare processi di rigenerazione urbana senza l’alleanza, cioè lo scambio di favori, con il capitale privato (vedi la legge Regionale lombarda che dovrebbe appunto disciplinare la rigenerazione urbana e il contenimento di uso del suolo e per farlo “deve” regalare volumetria), e quanto poco peso reale abbiano avuto sulla politica del territorio negli ultimi vent’anni le raccomandazioni delle Commissioni e Conferenze europee citate prima.
Non è un caso che operazioni complesse come il recupero funzionale degli scali ferroviari a Milano sia condizionato al massiccio intervento del capitale finanziario (che ovviamente persegue come obiettivo statutario il profitto, al massimo temperato appunto da un po’ di socialwashing e greenwashing a beneficio della propria immagine).
Ad esempio anche il recupero forse troppo ambizioso del quartiere milanese di Ponte Lambro, iniziato 18 anni fa su iniziativa di Renzo Piano, pur toccando proprietà pubbliche si è completamente arenato nell’attesa che qualcuno ci mettesse i soldi necessari per portarlo avanti.
Dunque se la città in cui viviamo negli ultimi anni si è adeguata a nuovi valori civili non è un caso che, tolte alcune opere infrastrutturali prioritarie e gli interventi attivati da interessi privati, e tolte le opere di urbanizzazione da questi finanziate, dell’intervento attivo esclusivamente pubblico resta poco: la sistemazione di aree verdi, di incroci e strisce verniciate sull’asfalto.
Con queste premesse invocare l’azione dell’amministrazione pubblica per ribaltare un modello insediativo fondato sul consumo del suolo e sulla motorizzazione privata consolidatosi in un secolo di attività edificatoria, senza risorse sufficienti per farlo e considerando che tutto ciò è avvenuto proprio con la connivenza della stessa amministrazione pubblica, è un’ingenuità.
Se l’ente che amministra il territorio può fare qualcosa in tempi non biblici è solo essendo consapevole di operare con poteri deboli e risorse scarse in una realtà irrimediabilmente compromessa, sulla quale si può ancora intervenire ma per aree circoscritte operando rammendi sulle situazioni locali.
Ma soprattutto lo potrà fare solo avviando un’altro tipo di alleanza: non più, o non solo con chi ha il capitale, ma anche e soprattutto con la popolazione locale.
Che è proprio ciò che è stato fatto, e vorrei tirarla qui in ballo per l’ultima volta, con l’idea della “città dei 15 minuti” in tutte le sue accezioni e varianti (ad esempio dei 20 minuti a Melbourne) e in tutte le esperienze di applicazione dei principi ai quali si ispira all’estero già concluse (a Barcellona) o in corso (a Parigi, Rennes, Bordeaux, Ottawa e moltissime altre).
A identificarle e collegarle tutte non è certo uno slogan: sono gli obiettivi detti all’inizio, ma anche la scala dell’intervento, all’interno di un perimetro urbano ben definito, i tempi brevi di realizzazione degli obiettivi, e il processo decisionale condiviso.
Questo processo decisionale, promosso, attivato e controllato dall’amministrazione locale, è indispensabile che sia portato avanti con la partecipazione attiva della popolazione residente e di altri stakeholders, riunita in assemblee, con potere di orientare il progetto e di decidere cosa fare o non fare.
A quel punto l’obiettivo non è più ridisegnare il territorio secondo ideali raggiungibili forse in decenni, è invece, partendo dal basso, riconoscere i vincoli che ogni contesto costruito comporta e ciò che di esso si può modificare in tempi ragionevoli e con risorse limitate, partendo dalle esigenze quotidiane, reali, minute ma vitali delle persone che lo abitano oggi e ci dovranno vivere domani e dopodomani non tra trent’anni quando i bei sogni forse si avvereranno, facendo tesoro della loro conoscenza diretta dei luoghi, semmai aiutandole a riconoscere il quadro di sostenibilità entro il quale le loro decisioni dovranno inserirsi.
Quando ciò potrà avvenire e dove nell’Arcipelago di Milano, non lo so, dipende da troppe variabili territoriali, politiche e sociali. Comunque i processi decisionali che coinvolgono i portatori di interesse, siano cittadini, ONG, o altre organizzazioni del teritorio e i relativi strumenti a disposizione degli enti pubblici e dei cittadini stessi per attivarli ormai ci sono: dai bilanci partecipativi, ai patti di collaborazione, all’istituzione di community hub, fino agli interventi di urbanismo tattico. O altre forme di iniziative locali portate avanti in alcuni quartieri periferici milanesi, mi vengono in mente il Giambellino o il quartiere Adriano, due tra i tanti..
Dunque chiamiamola come vi pare se lo slogan “la città dei 15 minuti” non vi piace, ma se vogliamo cambiare qualcosa nel rispetto delle esigenze reali delle persone dovunque esse abitino, quella è la strada.
Giorgio Origlia
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