24 ottobre 2020

MOZIONE RESPINTA: L’ASSESSORE SI SPARA

L’ossessione del pareggio di bilancio


La triste vicenda di un assessore suicida dà a Walter Marossi l’occasione di ricordare vicende legate ai bilanci del Comune di Milano ma anche ricordare tratti della società milanese e dei suoi contrasti di classe. Lettura utile per chi oggi siede sui banchi del Consiglio Comunale.

Al Comune di Milano i dibattiti più accesi, gli scontri più duraturi e feroci tra maggioranza e opposizione, le elezioni anticipate, le richieste di intervento del governo nazionale per cancellare decisioni, delibere, determine del consiglio comunale, il suo stesso formale scioglimento non sono avvenuti su questioni ideologiche e neppure su questioni amministrative rilevanti quali i trasporti o piani regolatori bensì sull’oggetto che nell’immaginario nazionale maggiormente sta a cuore ai milanesi: i danè.

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In più di cento anni di storia vi è una costante: quando si ebbe il culto del pareggio di bilancio nelle casse comunali questo era pagata con il crescere delle diseguaglianze sociali e delle spinte di protesta dei ceti popolari. Quando invece Palazzo Marino cercava di rispondere ai problemi sociali, con giunte di “sinistra” o democratiche, ciò che ne sortiva era di ottima fattura, di modello persino per altre capitali europee, ma a costo di un drammatico sfondamento del bilancio.

Tutto ha inizio con il bilancio presentato il 2 gennaio 1860 nel quale la spesa più rilevante era relativa a ospedali militari, ambulanze, trasporto feriti e solo tre altre voci superavano il tetto dello cento mila lire, quella relativa agli approvvigionamenti alimentari per l’esercito francese (243.401 lire), quella delle feste per l’ingresso di Vittorio Emanuele il 7 agosto (£ 114.166,76) e quelle per il pane distribuito all’esercito sardo.

Il Comune sia pure in seguito a circostanze eccezionali (la Patria non si fonda tutti i giorni!), nasce già fortemente indebitato.

Per sopravvivere chiede della Capitale e nel 1864 riceve dal Ministero l’autorizzazione per imporre il dazio di consumo.

Proprio su questo primo potere “tassatorio” nasce la prima opposizione non individuale in consiglio comunale: i quattro revisori dei conti si rifiutarono di firmare la copertura a nuove spese se il disavanzo del 1860 non fosse stato al più presto coperto, cosa invero impossibile.

Al 31 dicembre 1865 il passivo del Comune ammontava a 18 milioni e mezzo.

Passivo, che cresce progressivamente: 30 milioni nel 1868, 36 milioni nel 1874, 47 milioni nel 1878, 48 milioni nel 1883, 60 milioni nel 1888, 70 milioni nel 1991 quando il consiglio approva un vasto piano finanziario con aumento delle tasse (non realizzato).

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Nell’aprile 1886 la parte periferica a partire da Porta Ticinese della città è in rivolta. Tutto era nato dalla decisione della Giunta di applicare integralmente le norme sul dazio sul pane cancellando la discrezionalità fino ad allora tenuta. In pratica gli operai del suburbio che venivano a lavorare in centro potevano portare con sé, per il pasto, solo mezzo chilo di pane. Il resto sarebbe stato sottoposto a dazio: in altre parole gli operai avrebbero dovuto pagare una tassa all’ingresso della città per consumare il pranzo portato da casa.

Il municipio dovrà fare marcia indietro il giornale “Fascio Operaio” titola: “la piazza ha vinto”, per la consorteria di destra che governa la città (dal 1860 al 1899) uno smacco.

La battaglia sui dazi continuerà però per altri decenni.

Con un intero supplemento del Corriere il 10 novembre 1895 i cittadini milanesi venivano informatidell’esame del fabbisogno finanziario e delle proposte di modificazioni dell’ordinamento tributario del comune di Milano, presentate dall’assessore Domenico Ferrario, che prevede l’allargamento della cinta daziaria. Ferrario era assessore e consigliere da 12 anni, eletto nella lista “contrattata” tra moderati e cattolici che vince su radicali e repubblicani; lo zio decano del consiglio comunale un possidente agricolo del sud Milano. Sarà anche candidato al parlamento ma verrà battuto nel collegio da Malachia de Cristoforis rappresentante dei democratici. Nel 1892 era stato aggredito e ferito nella notte da misteriosi assalitori mentre rientrava nella sua abitazione in via Sant’Andrea.

Il dazio sui consumi era una delle fonti di maggior introito per il Comune, un balzello che in misura diversa toccava alle merci che “entravano” in Milano. La parte di citta delimitata dai bastioni spagnoli era sottoposta al dazio murato; la città che si trovava fuori dai bastioni chiamata i Corpi Santi che era stata incorporata nel comune in anni recenti (il nome ha origine dallo spostamento dei cimiteri fuori dalle mura spagnole ed è sinonimo di fuochi fatui) godeva di un dazio che veniva riscosso presso i suoi confini ed era detto dazio forese, notevolmente più basso del dazio murato.

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In pratica vi erano due città distinte: quella della cerchia interna e quella suburbana; con una composizione sociale diversa e con una diversa rappresentanza politica, da una parte il mondo moderato di proprietari terrieri ed aristocratici che vedeva con sospetto gli effetti della industrializzazione dall’altra i radicali i democratici ed i primi socialisti espressione non solo dei lavoratori ma anche della borghesia industriale (consigliere eletto nei Corpi Santi era Pirelli), che vedeva nei sindaci moderati dei nemici del progresso e dello sviluppo.

La giunta motivava così la richiesta di quattrini: “i lavori pubblici sono contenuti entro limiti al di sotto dei quali sarebbe impossibile discendere senza arrecare un danno gravissimo alla città, perché occorrerebbe interrompere i lavori del piano regolatore, per la fognatura, per l’acqua potabile, per gli edifici scolastici…”

Come nella migliore tradizione nazionale di fronte alle vibranti proteste dei tassandi, si decide di nominare una commissione per studiare l’unificazione tributaria e l’assestamento del bilancio, rinviando le decisioni.

La commissione ci mette un anno per licenziare una proposta che sostituisce al dazio murato l’imposta di famiglia in pratica una un’imposta diretta che come dice il consigliere Ugo Pisa (banchiere rappresentante di quella cultura ebraico progressista cui la città tanto deve), contrario all’allargamento dell’area daziaria” altro non è che una tassa sull’agiatezza…col dazio si aumenta il carico dei meno abbienti, colla tassa di famiglia si colpisce chi già paga di più ma ha anche di più”. Ma a questo punto la giunta si oppone.

Il progetto dell’unificazione delle due aree daziarie sembra archiviato ma quando il Consiglio Comunale alle 14.45 del 24 dicembre si riunisce per deliberare, il sindaco comunica che l’assessore Ferrario si è ucciso con un colpo di pistola nella cappella di famiglia del cimitero monumentale. La scia un biglietto per il sindaco: “Caro Pippo io sono convinto di avere ragione e siccome disgraziatamente una febbre violenta mi impedisce di difendere con l’energia necessaria la mia tesi in consiglio comunale cosi penso di salutarti per sempre…”. In città si diffonde l’idea che il comune sia prossimo al dissesto, del resto pochi mesi dopo, privata dei contributi pubblici chiuderà la Scala.

Sulla prima pagina del Corriere viene pubblicato un articolo tratto da una testata romana:

“(Ferraro) Poteva ragionare come tanti assessori e ministri che si lasciarono disfare studi, proposte, disegni di legge o li hanno disfatti essi stessi pure di conservare il potere e soddisfare una qualsiasi ambizione ed ebbero elogi e in compenso della loro codardia furono chiamati abili…di ciò Ferrario provò orrore…Un tal modo di sentire è certo il suo miglior elogio…ma è anche onorevole ammonitrice e attestazione della serietà dei criteri coi quali si pensa a Milano della vita pubblica, perché molto difficilmente un Domenico Ferrario , un simile fenomeno anormale sarebbe stato possibile altrove. Se ha potuto esserci è perché non soltanto aveva un’anima davvero onesta ma perché viveva a Milano…la prova di una razza diversa …quella razza Lombarda nella educazione che ormai è penetrata fin dentro le ossa, nella fierezza della propria operosità”

Con orgoglio il Corriere commentava “E certo, sia detto ad onore della nostra città che il caso di Ferrario va veramente giudicato come un indice dell’ambiente pubblico milanese … sì l’ambiente politico milanese è sano.”.

Sarà, certo è che nei successivi 123 anni nessun altro assessore o sindaco si è suicidato per aver dovuto ritirare una delibera.

Il giorno dopo la sua commemorazione in consiglio comunale questi approva gran parte delle proposte avanzate dal Ferrario l’anno prima ma con una maggioranza risicata.

Partono cause da parte dei cittadini contro le decisioni del consiglio comunale, il governo che deve autorizzare parte dei provvedimenti tergiversa (molti consiglieri erano anche parlamentari), protestano i proprietari di casa, i costruttori, si raccolgono le firme per un referendum, il sindaco annuncia le sue dimissioni che poi ritira, il passivo sale a 78 milioni.

L’anno dopo a maggio 1898 toccherà a Bava Beccaris con i suoi cannoni sistemare la questione dei dazi.

La popolazione scende in piazza contro l’aumento del prezzo del pane; anche se il comune in questo caso c’entra poco e nulla, la protesta si rivolge anche contro Palazzo Marino.

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Il sindaco Vigoni si domanda: “Perché tanti guai? Da noi è grande lo sviluppo industriale ed economico…il lavoro intenso…la sommossa è opera di malvagi”.

Alle manifestazioni di piazza si rispose con i cannoni: 81 i morti civili, decine i processi e gli esiliati, un solo morto tra i militari (fucilato dai suoi per insubordinazione: si era rifiutato di sparare sulla folla”,

Il consiglio comunale approvò un ordine del giorno presentato dall’ex sindaco Negri: “encomia il contegno ammirabile dell’esercito ed esprime al regio commissario straordinario la viva gratitudine per aver saputo provvedere al pronto ristabilimento della calma con fermo proposito e con elevati intendimenti civili e patriottici”, il mito della borghesia risorgimentale progressista milanese alla guida del comune se mai aveva avuto ragione di essere qui affonda.

La città reagirà: l’anno dopo tutti i protagonisti di questa fase sono bocciati alle elezioni, e il sindaco Vigoni che aveva “tributato parole di viva ammirazione e di sentita riconoscenza ai nostri valorosi soldati e all’illustre generale Bava Beccaris” si dimette.

Nel 1908 il Sindaco Ettore Ponti spostò ulteriormente l’area daziaria all’incirca lungo l’attuale circonvallazione esterna.

Nel gennaio 1910 anche il sindaco Greppi (nessuna parentela con il sindaco socialista nel secondo dopoguerra) si dimette per questioni finanziarie: “L’era dei debiti è aperta in via assoluta, indefinita. Io non ho paura dei debiti, ma ho paura della mancanza di denaro per pagare gli interessi dei debiti. Sento in che mi è diminuita la fiducia nella giunta: e questo sentimento è legittimo…il dovere è uno solo: si interpella il corpo elettorale”.

È sul terreno dei danè che si realizza l’alleanza conservatrice con il mondo cattolico; il Corriere della Sera stigmatizzò la linea oltranzista dei liberali milanesi, “l’entusiasmo degli elementi più moderati milanesi per l’alleanza con i cattolici. Nel loro orrore per le imprese municipalizzate v’è anche un po’ dello stesso sentimento dal quale nasce ‘l’orrore per la tassa di famiglia: sentimento di classe, diciamolo apertamente, che ripugna i tributi diretti e preferisca quelli indiretti”.

Ed era l’opinione di Luigi Albertini mica di Turati!

Nel 1913 il passivo comunale sfiora i 100 milioni.

Con la vittoria socialista in comune nel 1914 (Caldara) e lo scoppio della prima guerra mondiale la situazione peggiorò.

Nel dibattito sul bilancio preventivo del 1915 Ugo Osvaldo Maffioli, operaio tessile che aveva impiantato una fabbrichetta di cravatte, deputato al parlamento, riformista, chiarisce la posizione socialista: “Fin che non sarà risolta in sede di Parlamento, la questione della riforma generale dei tributi con una imposta diretta progressiva, il Comune è costretto a provvedere per suo conto alla propria vita. Per ciò che riguarda i consumi, non potendosi per il momento colpire consumi di lusso, si è dovuto colpire la proprietà perché è quella che dalle opere del Comune ha avuto maggiori vantaggi […] La maggioranza socialista sintetizza il suo programma finanziario socialista. Non la lotta contro le singole categorie, ma portare tutte le energie finanziarie del Comune a vantaggio della classe diseredata. Voi seguite un indirizzo opposto Voi distribuite il peso dei tributi anche sulle classi che non possono dare; noi crediamo invece così agendo di provvedere alla rappresentazione fondamentalmente civile della nostra città. Noi dobbiamo preoccuparci del valore sociale del bilancio; a momenti straordinari, provvedimenti straordinari.”

Nel 1918 il passivo arriva a 144 milioni, nel ‘20 a 289 milioni.

L’opposizione moderata fu feroce contro il deficit: al Senato non passava giorno senza che Albertini non accusasse di malversazione la giunta, mentre i liberali milanesi facevano pressione su deputati e sui ministri perché venissero limitate le distribuzioni di risorse dal centro al Comune e che questi venisse commissariato. Così avvenne per esempio quando la giunta chiese un prestito alla Cassa depositi: “Mi consta in modo concreto – denunciò Caldara – che un’associazione politica cittadina ha scritto alla cassa di risparmio contro ogni eventuale operazione di credito al nostro Comune e che qualche giornalista ha formulato alla stessa cassa minacce e oscuri attacchi nel caso che essa facesse sovvenzione al comune. La cosa è dolorosa e vuol essere denunciata…”

La Giunta fu costretta, nel ‘22, a presentare un piano di ristrutturazione dei bilanci comunali. Solo che il programma fu pesantemente attaccato questa volta dai comunisti come Giuseppe Nardelli (che accusò la giunta di voler ridurre le paghe ai dipendenti e di non colpire le sacche di sfruttamento borghese) e Alfredo Interlenghi, per il quale Filippetti, difendendo il bilancio, aveva acquisito la mentalità delle amministrazioni borghesi.

Capofila dei contestatori delle politiche comunali il prefetto Lusignoli (bisognerà un giorno fare una storia del nefasto ruolo dei prefetti).

Sciolto il comune dai fascisti nell’agosto del 1922 anche la nuova amministrazioni Mangiagalli, il cui primo atto fu quello di chiedere e ottenere un prestito da Cassa depositi e prestiti, quello non consentito alle amministrazioni socialiste, si incaglia sul bilancio, ma questa volta sono i fascisti a protestare per la politica di lesina.

Nel 1924 nuovo spostamento dei confini daziari con 60 nuove postazioni di riscossione, nuove pese pubbliche per camion e carri, e decine di chilometri di reti metalliche.

Nell’agosto del 1926 il comune viene commissariato, nel dicembre inizia il periodo dei podestà nominati con regio decreto

Porta Garibaldi nell'ultimo decennio del secolo XIXIl primo podestà Belloni che era un chimico e docente universitario, partì veloce; inaugurò svariate opere pubbliche e altre ne programmò, proseguì il programma di costruzione di alloggi pubblici che prevedeva la realizzazione di 20 nuovi quartieri, firmò la convenzione tra il Comune e lo Stato che prevedeva la cessione al Comune delle vecchie caserme, decise la copertura dei navigli; il tutto grazie ad un consistente aumento del deficit.

Violare il tabù del pareggio di bilancio non gli portò fortuna: accusato di affarismo (a ragione) fu destituito, espulso dal partito e mandato al confino.

Il suo successore De Capitani il podestà che più di tutti rappresentò l’alleanza tra il mondo conservatore e il fascismo non abbandonò la concezione notarile e ragionieristica della politica e privilegiò il risanamento del bilancio rispetto alla “grande Milano” di Mussolini, che voleva progetti grandi e immediati, per dimostrare il carattere rivoluzionario e moderno” del fascismo.

In pratica nella resistenza a contrarre prestiti e ad aumentare il deficit comunale si manifestò un “antifascismo involontario” del liberalismo conservatore che fu una delle ragioni unitamente alla pochezza dei fascisti milanesi per cui il duce perse interesse verso il progetto della “grande Milano”.

Nel 1930 perché i dazi interni furono sostituiti con le Imposte Comunali di Consumo.

1886-citta-di-milano-prestito-unificato-4-cartella-al-portatore-100-lire-milanoL’ultimo prestito a sostegno del comune fu il prestito “Città di Milano 4%”, (ma alla storia è passato come “Prestito Parini” dal nome del podestà Piero Parini che nel dopoguerra tornerà in consiglio comunale a rappresentare l’MSI), lanciato nella primavera del 1944. Il CLN Alta Italia avverti subito che finita la guerra, il prestito in pratica un sostegno alla Repubblica di Salò, non sarebbe stato onorato ed ammonì “gli istituti finanziari operanti a Milano affinché si astengano da qualsiasi atteggiamento favorevole al prestito in questione, da fare propaganda per la riuscita dello stesso”. Il prestito ebbe successo e un miliardo di lire venne raccolto in pochi giorni con una larga partecipazione di cittadini. Parte di quella somma fu subito spesa per smaltire le macerie, il punto di conferimento, una cava periferiche vicino a San Siro, così nacque il Monte Stella.

Il dopoguerra si apre con la contrastata e obbligata decisione di Greppi su suggerimento anche di Merzagora nel 1946, di rimborsare il “Prestito Parini”.

Ma dei debiti del dopoguerra a palazzo Marino parleremo un’altra volta.

Walter Marossi

Chi volesse saperne di più:
http://storiedimilano.blogspot.com/2019/05/le-guardie-daziarie-di-milano.html
http://www.storiadimilano.it/citta/corpisanti/corpi_santi.htm
Franco Nasi quarant’anni di amministrazione comunale



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  1. silvanoComplimenti vivissimi al dottor Marossi, uno storiografo che non finisce di stupirmi!
    12 novembre 2020 • 12:28Rispondi
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