30 agosto 2020
MILANO E L’ACQUA
Le esondazioni del Seveso e la storia di un territorio
I PIEDI NELL’ACQUA – Ogni città importante è attraversata da un fiume. Roma ha il Tevere, Firenze l’Arno, Berlino la Sprea, Parigi la Senna, Londra il Tamigi, Calcutta il Gange e New York l’Hudson. Milano no. Milano non ne ha bisogno: ha i piedi dentro l’acqua. Letteralmente.
Non solo il suo territorio è attraversato da dozzine di corsi d’acqua naturali e artificiali, ma diversi di essi continuano, sottoterra, ad attraversarla: lo sanno bene le centinaia di migliaia di milanesi che abitano nei sei quartieri periodicamente allagati dalle acque mefitiche del Seveso. Ma sembra che negli uffici preposti alla pianificazione urbanistica del territorio, a partire da quelli della Regione, non ne sia ancora informato nessuno. Il problema delle centinaia di migliaia di abitanti che nelle sei zone che si allagano ogni volta che piove non è l’acqua: è che in settant’anni abbiamo impermeabilizzato buona parte dei bacini dei fiumi che ora esondano, e che i tubi in cui quelle luride acque dovrebbero passare sotto la città non erano stati calcolati per le portate richieste.
Hanno ragione a protestare gli abitanti di Bresso: il problema si risolve solo riqualificando l’intero bacino dei fiumi Lambro, Seveso e Olona e dei torrenti secondari che attraversano Milano (1). Molti milanesi sanno che Milano fu fondata in epoca romana sulla cosiddetta linea dei Fontanili, dove si mescolano le acque di falda, che qui pullulano fuori dal terreno, con quelle dei numerosissimi fiumi, fiumiciattoli e torrenti che scendono dalle Alpi e dai laghi prealpini.
Molti meno sanno che Milano è una città d’acque. In una bellissima e importante mostra a Palazzo Morandi di cinque anni fa, accompagnata da una serie di incontri sul tema(2), furono per la prima volta raccolti ed esposti al pubblico centocinquanta documenti che testimoniano che Milano, non meno di Venezia, è una città d’acque; come la città lagunare, Milano è stata fondata ed è cresciuta in mezzo all’acqua. E l’intelligenza dei Milanesi nello sfruttare quello che, a tutta prima, poteva sembrare un grave handicap, ha arricchito la città per secoli.
Se Venezia fece della laguna salmastra il suo bastione difensivo e ne trasse la sua prima ricchezza: il sale, Milano disboscò, scavò, colmò, spianò i terreni e incanalò, regimentò, deviò e distribuì le acque dolci dei fiumi e torrenti che passavano al suo interno e nelle vicinanze. Almeno dai tempi dei Romani, che deviarono l’Olona dal suo letto per rifornire la città d’acqua e alimentare il fossato a difesa della cinta muraria, e usavano la Vettabbia come via navigabile(3).
Nei successivi due millenni generazioni di milanesi della città e del contado hanno inventato mille modi per sfruttare l’enorme abbondanza d’acqua che affiorava dalla falda e ruscellava dappertutto: dapprima la usarono a scopo difensivo, ma ben presto impararono che era un’inesauribile fonte gratuita di energia per alimentare le centinaia di mulini, magli, folle per tessuti, pile da riso, segherie e concerie che operavano in città e nel contado.
Soprattutto, gli abitanti scoprirono come usarla per migliorare l’agricoltura, sottraendola ai capricci della meteorologia grazie alla creazione, durata secoli, di una straordinaria rete di canali, rogge, colatori, chiuse, scale d’acqua e altre meraviglie che impressionarono anche Leonardo da Vinci e perché hanno cambiato gli equilibri “naturali” del luogo, per dare vita a un meraviglioso, nuovo ecosistema gestito dall’uomo: la campagna irrigua milanese.
La campagna irrigua è un ambiente semi-artificiale, che tuttavia conserva una notevole ricchezza biologica, cui il lavoro unisce una grande capacità di produzione agricola. Alcune soluzioni originali inventate dai milanesi, come la marcita, consentivano loro di potenziare l’allevamento bovino, mantenendo un numero maggiore di capi per ettaro, rispetto agli altri territori: i milanesi impararono che l’abbondanza d’acqua, oltre a irrigare prati e campi, permetteva di coltivare nuove specie utili e molto produttive provenienti da altri continenti, come il riso e il granoturco e offriva vie di trasporto per far viaggiare le proprie merci in modo più sicuro, veloce, comodo ed economico, favorendo il ruolo centrale di Milano negli scambi mercantili tra Venezia, Genova, il Mediterraneo e il mondo francofono e germanico attraverso i valichi alpini.
Dopo aver capito che tutta quell’acqua era una benedizione e una possibile fonte di ricchezza, i milanesi inventarono perfino efficaci e originali metodi empirici per misurarla.
È caratteristico delle civilizzazioni umane di modificare a proprio vantaggio gli ecosistemi naturali in cui s’insediano, dando vita a neo-ecosistemi il cui equilibrio è garantito solo dall’alacre attività degli uomini che li hanno creati e sviluppati fino al limite delle loro possibilità, per trarne il massimo vantaggio possibile. Ciò che chiamiamo territorio è esattamente il prodotto di questo fitto sistema di relazioni che legano la comunità umana insediata e il suo contesto ambientale. Normalmente, ogni territorio storico è costituito dalla stratificazione degli interventi umani sulla sua base naturale e, di regola, ogni territorio in ogni data epoca ha raggiunto una sua perfezione, nei limiti dei mezzi tecnici e culturali della comunità allora insediata.
E, come altre comunità fecero fiorire le loro città in contesti ambientali difficilissimi, i milanesi seppero trasformare un’enorme difficoltà: acqua dappertutto, paludi, bestie feroci e foreste igrofite – in un enorme vantaggio, facendone per secoli la principale fonte della propria ricchezza.
LA CRISI DEI TERRITORI – Consideriamo le città come i luoghi più artificiali che homo sapiens abbia creato, e da un secolo le gestiamo come tali. Cent’anni fa, il più influente architetto del Novecento, uno svizzero che si faceva chiamare Le Corbusier, coniò un’espressione che esprimeva esattamente il punto di vista della cultura occidentale sul rapporto che l’uomo avrebbe dovuto intrattenere con i luoghi dell’abitare: machine à habiter.
E per un secolo, noi abbiamo continuato a vedere la città come un insieme ordinato di funzioni e di flussi, che bastava regolare per assicurarne uno sviluppo illimitato. L’internazionalizzazione dei flussi energetici, finanziari, di merci ed esseri umani ha favorito a lungo il mito della città come macchina, e abbiamo di conseguenza trattato il suo territorio come un semplice piano su cui essa, accidentalmente, “appoggia”.
La civiltà moderna ha completamente dimenticato che nessuna città e nessuna comunità umana esiste senza uno stretto, fondamentale e vitale legame col suo contesto ambientale, cosa che i nostri predecessori sapevano benissimo: abbiamo ereditato da loro decine di migliaia di documenti che dimostrano la vastità delle loro conoscenze e la loro consapevolezze delle possibili conseguenze delle loro attività(5).
Ma nell’ultimo secolo i milanesi, abbagliati dal mito dell’onnipotenza della macchina, han creduto di non aver più bisogno di quel patrimonio di conoscenze e saperi che affondavano nei secoli, e hanno semplicemente agito come se Milano-città bastasse a se stessa, ai suoi traffici internazionali, alle sue industrie e ai suoi servizi. Il contado, ovvero quel complesso sistema insieme fisico e biotico, costellato di manufatti e attività umane create da centinaia di generazioni per mantenere viva e migliorare il contesto ambientale che permetteva agli abitanti di vivere e arricchirsi, è semplicemente scomparso dalla consapevolezza e dalle scelte di cittadini, amministratori e tecnici: Puf!
Così, a partire dagli anni ’20, molti Comuni – non solo Milano – hanno fatto a gara a chi più interrava, seppelliva, asfaltava e cancellava tutto il meraviglioso paesaggio agrario che faceva capo alla città e dalla quale essa riceveva la vita. Chilometri quadrati di capannon-palazzine-villette-strade-svincoliautostradali hanno sepolto un paesaggio vivo sotto una lastra di cemento e asfalto che, dalle sponde dei laghi di Como, Maggiore e di Varese, scende a coprire quasi ininterrottamente il suolo lombardo fino alla Barona, dove la città ha ancora i piedi nell’acqua e si specchia nelle risaie.
Il mito della tecnologia sta nel credere di poter sostituire con soluzioni tecnologiche non la “Natura”, ma degli ecosistemi prodotti e artificialmente mantenuti dal lavoro dell’uomo (quali sono i territori) dai quali dipendono la sopravvivenza e la vita delle comunità umane insediate, comprese quelle cittadine. E’ come pretendere di mantenere in vita e attività un cervello umano, separandolo dal suo corpo. Forse è possibile ma: a che prezzo? E soprattutto, ne varrebbe la pena?
Ora, per rimediare a un danno causato da una soluzione tecnologica precedente (l’interramento dei fiumi e l’impermeabilizzazione dei suoli) continuiamo a introdurne di nuove (le vasche di laminazione). Ma se non teniamo conto della complessità del territorio in cui vengono calate, esse possono prima o poi causare danni maggiori e su scala più vasta dei parziali benefici che possono temporaneamente apportare(6). Nessuno immaginò, cinquant’anni fa, che tombare il Seveso e l’Olona avrebbe prodotto inondazioni continue per i decenni e secoli a venire; e che costruire senza criterio impianti industriali su gran parte del bacino dei tre fiumi avrebbe scaricato su Milano valanghe d’acqua avvelenata non più assorbita dai terreni.
Purtroppo, le “magnifiche sorti e progressive” si stanno rivelando tali solo per chi ha distrutto valori collettivi e beni comuni vitali, come i territori, per appropriarsene a danno della comunità, senza immaginare che questo avrebbe avuto pesanti conseguenze per tutti.
A Milano vige un detto pragmatico: piutòst che gnènt, l’è mej piutost. Perciò una vasca di laminazione sarà, forse, meglio dell’inerzia semisecolare che l’ha preceduta. Certo, non basterà a risolvere il problema delle esondazioni e dell’inquinamento delle acque di Lambro, Seveso e Olona. E sostituire le centinaia di alberi adulti abbattuti con migliaia di nuove piantine forestali non restituirà i benefici di quelli ancora per molti anni.
La devastazione del territorio padano causata in settant’anni da una concezione del mondo meccanicistica, ci ha regalato quasi tre gradi in più di temperatura a luglio(7); centinaia di inondazioni; l’aria più inquinata d’Europa; un territorio devastato e sempre meno in grado di garantire la nostra sopravvivenza. Non è “la Natura” in pericolo: siamo noi! Non sono i ricci, i pioppi e i passeri: sono i ragionieri, i bambini e gli impiegati.
Se si vuole migliorare effettivamente la vita degli abitanti dei quartieri che s’inondano, bisogna farlo insieme agli abitanti di Bresso e dell’intera Città metropolitana. E’ urgente costruire un nuovo rapporto tra città e territorio, in grado di rimediare ai danni che ancora vengono prodotti e attenuarne l’impatto, se non annullarlo. E per farlo, abbiamo bisogno dei diretti interessati: i cittadini. Dobbiamo trovare il modo di costruire con loro un nuovo territorio, in cui i fiumi non esondino e gli alberi non vengano abbattuti ma piantati: dobbiamo creare un nuovo territorio che restituisca ai fiumi il loro corso naturale, ai terreni la ricchezza biologica e la permeabilità, agli alberi la loro funzione vitale e agli uomini la consapevolezza che ogni azione sul territorio può produrre conseguenze inaspettate e potenzialmente gravi, e che dobbiamo agire rispettando il principio di precauzione. Non partiamo da zero, e abbiamo anche esempi positivi da imitare e riprodurre(8). Ne riparliamo…
Luca Bergo
1) Non partiremmo da zero: abbiamo fior di esempi realizzati da decenni in altri Paesi, come il bacino della Ruhr in Germania, ma anche le indicazioni contenute dallo studio commissionato dall’IRER a un gruppo di ricerca del Politecnico di Milano, diretto da Alberto Magnaghi, sulla riconversione ecologica del bacino dei fiumi Lambro, Seveso e Olona.
2) Milano Città d’Acque, Palazzo Morando, dicembre 2015 aprile 2016 – http://www.mostramilanoacqua.it
3) Gli storici attribuiscono il primo scavo del modesto canale che, in seguito ampliato e allungato fino a Milano ampliato, divenne il Naviglio Grande, alla necessità di creare una barriera difensiva per ostacolare eventuali attacchi del Barbarossa dal territorio di Pavia, alleata dell’imperatore.
4) presso il Mulino Mora Bassa di Vigevano, appartenuto a Ludovico il Moro, sono stati ricostruiti la dozzina di dispositivi idraulici inventati dai milanesi per misurare il loro bene più prezioso: l’acqua. Misurarla voleva dire sancirne la proprietà comune e poterne tassare l’utilizzo da parte dei singoli a beneficio della comunità: ancor oggi, tutti i terreni della Bassa sono venduti con i loro antichi diritti d’acqua e tutte le famiglie che vi abitano pagano una tassa ai consorzi di bonifica che garantiscono l’equilibrio idraulico nel territorio.
5) Sullo strettissimo rapporto che lega indissolubilmente Milano con il suo territorio e le acque, gli archivi di Stato, degli Enti caritatevoli proprietari di grandi estensioni di terre nel milanese, come la Ca’ Granda, il Pio Albergo Trivulzio, i consorzi di bonifica come il Villoresi conservano centinaia di migliaia di documenti straordinari.
6) L’idea di poter sostituire un ricco ecosistema storicamente formato dal lavoro di centinaia di generazioni umane con una neo-natura artificiale permea molte innovazioni tecnologiche, elaborate per rimediare di continuo ai sempre più gravi danni che questo modo di concepire il mondo produce, trattandolo come se fosse una macchina invece di un ecosistema infinitamente complesso: come sostituire le api in via di estinzione con nano-robot volanti che impollinino i fiori al loro posto.
7) Vedi: https://www.ilmeteo.it/portale/archivio-meteo/Milano/2019/Luglio?
8) Emscher Park, in Germania; il bacino del Tamigi, in Inghilterra; vedi anche lo studio dell’IRER citato: e Progetti di bonifica, risanamento e valorizzazione ambientale del bacino dei fiumi Lambro Seveso Olona (1994-2001)
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