10 luglio 2020

SALA, LA MOVIDA, GRAMSCI E TURATI

(Per non parlare del rinnegato Kautsky)


A dispetto di quel che i pregiudizi popolari potrebbero far pensare, il socialismo ha sempre portato avanti al suo interno una vena proibizionista, con personaggi del calibro di Gramsci apertamente contro il consumo di alcolici. Un viaggio nel proibizionismo italiano con Walter Marossi.

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Il sindaco di Milano come del resto molti altri, in Italia e nel mondo, è passato dall’invitare all’aperitivo con “Milano non si ferma” – ma era il 27 febbraio – al pessimismo di: “Abbiamo davanti uno, due anni di grande sofferenza, ma per il lungo termine non sono preoccupato per Milano”, passando per: “Non è nelle mie intenzioni andare verso un controllo precisino e certosino”. Nel frattempo vuole contribuire a rifondare il socialismo: “Dico che il socialismo non appartiene alla storia, ma all’avvenire. Solo in Italia è considerato una parola morta”. Prima della rinascita del socialismo, deve però porsi la più prosaica questione della movida, con annessi e connessi.

Questione aggravata dal Coronavirus ma che, paradossalmente, da più di un secolo è un problema nella storia della città e della sinistra italiana, europea e milanese. Tutto inizia a Milano nella seconda metà dell’ottocento quando si pubblicano diversi romanzi-inchiesta: Milano in ombra. Abissi plebei di Ludovico Coiro; Scene contemporanee della Milano sotterranea di Francesco Girelli; il Ventre di Milano. Fisiologia della capitale morale di Cleto Arrighi; ma sopratutto La Milano sconosciuta di Paolo Valera.

Sono indagini dai toni forti, ammiccanti e moraleggianti che parlano di fame, di sporcizia, di prostituzione, di abbrutimento ma sopratutto di alcolismo, non diverse da quelle che si pubblicano a Parigi o a Londra dove l’alcol è una delle prime ragioni di morte e la cittadinanza è impaurita da delitti e fatti di sangue legati all’abuso.

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Il proibizionismo nasce negli USA (nel 1874 con la nascita della luterana Women’s Christian Temperance Union) e si sviluppa in Europa nei primi anni del 1900. In Italia i primi movimenti nasceranno in ambito valdese poi a Milano, il primo dicembre 1907, si costituirà la Federazione anti-alcolica italiana cui parteciperanno: la Lega contro l’alcolismo di Venezia, la Lega anti-alcolista fiorentina, la Lega di Brescia e la Lega bergamasca, quella di Val Pellice, di Pavia, di Belluno nonché dalla Lega popolare di Milano.

Tra i protagonisti della lotta all’alcolismo il Partito socialista che nel congresso del 1910 a Milano approva una mozione di Adolfo Zerboglio che così conclude: “raccomanda al proletariato la più scrupolosa astensione da ogni abuso di bevande alcoliche e l’adesione e l’aiuto alla propaganda antialcolista. Impegna il partito a sollecitare una energica legislazione…”.

Contro l'alcoolismo, di Adolfo Zerboglio

Contro l’alcoolismo, di Adolfo Zerboglio

Da tempo i socialisti avevano avviato una campagna d’opinione con opuscoli come quelli di Giulio Casalini, con vignette come quelle pubblicate sull’Asino di Galantara, con conferenze come quella di Edmondo di Amicis sugli effetti psicologici del vino, con mozioni e appelli nei consigli comunali di tutta Italia.

Tuttavia i risultati non furono brillanti, tant’è che la relazione al congresso recita “ma noi deterministi non possiamo troppo ingigantire i risultati della propaganda… Un regime rigoroso sull’apertura e chiusura degli spacci di vini e liquori fu riconosciuto indispensabile per scemare la comodità di avvelenarsi… ognuno di questi spacci , il cui numero è spesso esorbitante, è come un tentacolo di una piovra…”. Allora come oggi il problema era: “l’attuazione del divieto esigerebbe ispezioni frequenti, numerosi agenti che contestino le contravvenzioni e la attività e solidarietà del pubblico verso di essi, anziché verso gli spacciatori”; e siamo nel 1910!!

I dati erano impressionanti: nel 1908 a Milano il 17,3 per cento degli alunni delle scuole elementari beveva fuori dai pasti e frequentava le osterie con i genitori. Realisticamente, Giolitti così spiegava la situazione nel giugno 1909: “quanto al consumo del vino siamo tra due correnti: l’una dei sanitari che affermano che il vino fa male e l’altra degli economisti che raccomandano di bere molto di più, per evitare la crisi vinicola”.

La prima legge antialcolista viene approvata nel 1913, non è quella richiesta da socialisti, cattolici, dalla scuola antropologica lombrosiana dai medici ma è un compromesso ottenuto dopo la forte opposizione degli agrari, dei viticultori, e dei commercianti di vini e alcolici.

Opposizione che a Milano schierava le distillerie Ramazzotti via Canonica 86, lo stabilimento Zucca a Bruzzano, l’azienda liquoristica Bonomelli, la distilleria del Leone in San Babila (quello che sarà poi il Donini), le distillerie Esperia a Sesto San Giovanni, la Bisleri, l’azienda Solaro che distribuiva l’Amaro Galliano, la Fratelli Branca, la Campari (con il bar in Galleria), le distillerie Chavin, le distillerie San Giuseppe dei Reverendi Fratelli Maristi, la distilleria Pastore, le distillerie Pedroni in Piazza Castello, il Birrificio Milano in via Leon Battista Alberti, il birrificio Elisa Maggioni in Corso di P.ta Romana, quello di Adolfo Goyot, il birrificio Italia in Corso Sempione, l’Unione italiana Vini presieduta da Francesco Folonari, che aveva sede nell’attuale Via Verdi e che editava il settimanale “Il commercio Vinicolo”. La città insomma galleggiava sull’alcol.

la Fratelli Branca

la Fratelli Branca

pubblicità del cognac Ramazzotti

pubblicità del cognac Ramazzotti

Il pensiero di Turati sulla legge, che riteneva insufficiente e troppo permissiva, era chiarissimo: “Io credo che l’Italia diverrebbe la prima delle nazioni, se il suo popolo tesoreggiasse l’annua quantità di tempo, di danaro, di forza nervosa, di salute, di moralità che sacrifica all’alcool, all’ozio, alle osterie”. Anni dopo, nella prefazione all’opuscolo edito da Critica Sociale Antialcolismo pratico, scriverà: “Possibile che ancora e sempre dobbiamo concludere col nos canimus surdis dell’antico poeta? Comunque, finchè abbiamo fiato non abbandoneremo la partita”.

L’unico pratico effetto della legge fu la sparizione dell’assenzio che, con l’aiuto dei produttori venditori di vino, venne indicato come il peggio del peggio, mentre gli anatemi turatiani portarono alla chiusura della linea di produzione dell’Amaro Carlo Marx, della distilleria del Cavalier Sansone di Potenza.

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Paradossalmente la legislazione antialcolica aveva connotati anti-socialisti: infatti dove si riunivano gli agitatori? Dove si decidevano gli scioperi e le proteste? Spessissimo, nelle bettole. In pratica, l’osteria era la sede di partito. Scrive Renato Monteleone in Socialisti o “ciucialiter”? il PSI e il destino delle osterie tra socialità e alcoolismo: “L’osteria era un centro di adunata spontanea, per affollarsi non aveva bisogno né di campane né di sirene: la gente vi affluiva perché lì si celebrava, davanti al bicchiere di vino, il rito universale della comunicazione. L’osteria è la famiglia, talvolta la sola disponibile; è il rifugio confidenziale dalla solitudine, una riserva confortevole e quasi inesauribile di parlatori e ascoltatori tra cui circolavano sentimenti e idee, in un fecondo interscambio, spesso altrimenti e altrove impensabile. […]

Nelle osterie o locali consimili, come circoli vinicoli, mescite di vino e di birra, cantine sociali ecc., si fondavano sezioni di partito, si svolgevano riunioni sindacali, avevano sede e recapito le società ricreative operaie; lì gli operai si passavano di mano i fogli di partito, discutevano degli interessi comuni e le idee del socialismo trapassavano nel fitto dei rapporti interpersonali …A Bologna, il Circolo Pisacane si insediò nell’osteria della “Garibaldena” e alla fine del 1871 il Fascio operaio si costituì alle “Tre zucchette”. A Imola Andrea Costa fondò la prima Sezione internazionale nell’osteria “Ed Campett” e il settimanale democratico e socialista “Il moto” fu concepito ai tavoli dell’osteria “Ed Chicon”. In un’altra osteria imolese, “Ed Zelest Bartolotti”, un’assemblea operaia decise di aderire alla locale sezione del Partito dei lavoratori italiani.[…]” in verità l’osteria è il luogo dove il borgo si crea le proprie opinioni. Lì si decide se e quando partire, si discute se vale la pena o no cercare lavoro in un determinato posto, lì si passa il tempo bevendo e giocando […]. L’osteria diventa anche il luogo dove si coagula il dissenso del paese contro la possidenza, dove il dissenso trova un’elaborazione ideologica, se non proprio politica”. La stessa fondazione del PSI nel 1892 avvenne sì alla Sala Sivori, ma la sera prima i delegati si riunirono in trattoria.

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Lo stesso avveniva in Francia in Germania e ovunque in Europa, come dimostra Karl Kautsky, che sul “Die Neue Zeit” scrisse un articolo sostenendo: “Il nemico sono i superalcolici”. Contemporaneamente però sosteneva apertamente i bar e le taverne del movimento dei lavoratori, i Parteikneipe, o “bar di partito”, che erano le vere sezioni della socialdemocrazia tedesca. In pratica: abbasso i superalcolici ma viva la birra! E del resto questo fu, in pratica, il claim della campagna di boicottaggio anti-alcool che fu lanciata dal partito nel 1909.

Anche in Germania esisteva un movimento antialcolista di sinistra, Der abstinente Arbeiter, ma aveva pochi iscritti mentre i proprietari di bar e taverne social-democratici avevano addirittura una loro rivista: Der freie Gastwirt. Nella battaglia anti osterie i socialisti trovarono alleati tra i cattolici per i quali l’osteria è “…Antro il cui ambiente è saturo di gas alcolici e di fumo, e vi echeggia un cicaleccio strano, un vocìo incomposto… luogo che è per l’operaio sorgente di tutte le sventure, e la causa di tutti i suoi malanni. L’operaio va incontro a mille malanni fino alla paralisi o delirium tremens e si procura figli idioti, rachitici, convulsionari… Vogliamo che la polizia vi eserciti la massima sorveglianza, per ritrarli da quei covi di perdizione e di anarchia” .

Ma trovano alleati anche tra gli anarchici: il 23 giugno 1912 un comizio di Meschi fu introdotto dal segretario dell’Unione Cavatori di Carrara, che denunciava la pratica padronale di pagare i dipendenti all’osteria: “l’operaio attende seduto intorno al tavolo chiacchierando con degli sventurati come lui, attende e beve, beve di quel liquore che gli darà la pazzia, che inevitabilmente lo porterà alla tubercolosi, così fino a che gli si annebbierà la vista e avrà perso la coscienza di se stesso, e quando avrà la paga rimane, perché ormai è un essere che più non ragiona, non ha di umano nemmeno più le sembianze, quell’uomo ormai assomiglia alla bestia, capace nella sua incoscienza folle di sciupare nel vino tutta la sua quindicina, lasciando senza pane la sua disgraziata famiglia. Allora i benpensanti grideranno all’abbrutito, diranno magari che vi sono in quantità scuole serali per facilitare l’educazione del lavoratore, e toglierlo alla bettola. Ma perdio, se quell’uomo coi vostri sistemi medioevali lo avete spinto voi all’abbrutimento, al precipizio? Ma se la sua infelice famiglia non può altro che ringraziar voi se è rimasta sprovvista di pane?

Non diverse le posizioni a destra, i nazionalisti ad esempio nel loro congresso nazionale nell’aprile 1920, aperto da Rocco e Corradini, approvarono subito un ordine del giorno di condanna della politica di Nitti e uno sull’alcolismo. I socialisti tramite Critica sociale sostenevano un’unità nazionale contro l’alcolismo: “occorre un largo e fattivo consenso delle grandi organizzazioni delle masse lavoratrici a qualunque principio politico, sociale o religioso si ispirino”, e l’obbiettivo fu raggiunto.

Financo dopo la scissione comunista, uno dei pochi punti comuni tra riformisti e comunisti fu la lotta all’alcolismo, che in Gramsci era pressoché tutt’uno con il proibizionismo. Del resto Lenin aveva vietato il consumo dell’alcol agli iscritti al partito comunista e subito dopo la rivoluzione vietò la vendita di vodka.

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Gramsci ce l’aveva proprio con le osterie e stigmatizzò il fatto che gli italiani preferivano lo scopone al football: “Gli italiani amano poco lo sport; gli italiani allo sport preferiscono lo scopone. All’aria aperta preferiscono la clausura in una bettola-caffè, al movimento la quiete intorno al tavolo… La partita a scopone ha spesso avuto come conclusione un cadavere e qualche cranio ammaccato. Non si è mai letto che in tal modo si sia conchiusa una partita di football” – articolo del 26 agosto 1918 .

I fascisti inasprirono le pene e ospedalizzarono (negli ospedali psichiatrici) l’alcolismo: in pratica mettevano gli alcolisti nei manicomi con un ricovero deciso dalle forze dell’ordine; per molti fu un ricovero semi permanente. Il fascismo fece anche un uso politico della legge: dei 44.540 schedati antifascisti nel Casellario Politico Centrale, alcune centinaia furono internati in reparto psichiatrico e 122 non ne uscirono vivi, mentre i ricoverati in “manicomio” passarono dai 62.000 del 1927 ai 95.000 del 1941. Bisognerà attendere Franco Basaglia per trovare strumenti terapeutici alternativi al “reparto per alcolisti”.

Ancor più proibizionista l’atteggiamento assunto in materia di droghe. La prima legge contro gli stupefacenti, anch’essa di ispirazione socialista fu presentata nel 1921, ma approvata da Mussolini che all’impostazione proibizionista aggiunse solo la convinzione che l’hashish fosse una droga per “negri” e un pericolo per la razza.

Certo oltre ai divieti si cercarono vie alternative, come la fondazione a Milano dell’Unione operai escursionisti italiani, un’associazione alpinistica indipendente e apartitica fondata nel 1911 da Ettore Boschi, con l’idea che l’associazione potesse essere un modo per impiegare il tempo libero degli operai, migliorare la loro formazione morale, culturale e civica e allontanarli dalle osterie.

Boschi, direttore del periodico Socialista “La Brianza” fu sostenuto da Claudio Treves a Leonida Bissolati alla Società Umanitaria. Passato poi al fascismo (fu, oltre che geniale editore per bambini, direttore del giornale “Il Popolo di Monza” e vice segretario del PNF a Milano), continuò il suo impegno antialcolista sempre con la stessa motivazione: “Oggi la bettola è spesso l’unico ambiente nel quale l’operaio può riunirsi con i suoi compagni per cercarvi un’ora di sollazzo. Offriamogli invece conforti e piaceri salubri e lo svoglieremmo dallo spaccio penoso e nauseabondo”. L’associazione fu fatta forzosamente confluire nell’Opera nazionale dopolavoro ma rinacque nel secondo dopoguerra ed è tutt’ora viva e vegeta.

Altre iniziative furono assunte in campo sportivo, vi fu anche una rivista Sport e Proletariato, che ebbe breve vita, perchè nel dicembre 1923 la tipografia in cui veniva stampata venne data alle fiamme da una squadra fascista.

Per farla breve e risparmiandovi un’altra articolessa sul secondo dopoguerra non possiamo che segnalare a Sala che tutti i padri nobili della sinistra (socialista, comunista, cattolica, protestante, anarchica, etc.) di inizio secolo, furono in un modo o nell’altro filo proibizionisti, insomma la movida o la vietavano o la normavano duramente. Noi, seppur astemi convinti, gli suggeriamo di non seguirli: non ebbero grande fortuna.

Walter Marossi



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  1. Luigi CorbaniBellissimo articolo. Complimenti !
    15 luglio 2020 • 13:09Rispondi
  2. marco.romano esteticadellacitta.itIl caffé, sostiene Habermas, e l'osteria, sostiene Marossi, sono stati l'anima della democrazia...io cntinuo a crederci...
    15 luglio 2020 • 16:13Rispondi
  3. StefanoBello...
    18 luglio 2020 • 01:22Rispondi
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