8 luglio 2020

CONSIGLI PER L’ESTATE: HISTORY 101

Per quel pomeriggio che avresti comunque passato davanti a Netflix


L’estate è una stagione meravigliosa. Si viaggia, si esplora, si nuota… Ma, nel post-Covid, l’estate 2020 per molti di noi sarà (anzi, già è) la stagione in cui si suda, chiusi in casa, a Milano, impossibilitati a partire da questo o quel motivo, e ci si annoia. Così abbiamo deciso di farci un regalo: abbiamo recensito i dieci episodi della serie-documentario di Netflix “History 101”. Venti minuti a episodio, poco più di tre ore in tutto, una mezz’ora per leggere questo pezzo ed esser d’accordo o no: un pomeriggio di questa strana estate riempito dalle riflessioni dei giovani di ArcipelagoMilano.

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1. FAST FOOD – Non finirà mai?

L’episodio inizia in modo piuttosto inquietante, con la dichiarazione di un classico americano col cappellino da baseball in testa: “Ho intenzione di mangiare Big Mac finché non morirò“. In generale, l’impressione è che il capitolo fast food di questa miniserie storica di Netflix parli un po’ troppo di come siamo arrivati alla situazione attuale – si ripercorrono i primi tempi dei ristoranti drive-in negli USA, l’apertura del primo McDonald’s a Mosca… – e molto poco di come ne usciremo.

La scelta di “posticipare” alla seconda metà del video la descrizione dei rischi per la salute e per l’ambiente legati ad un eccessivo consumo di fast food è un’arma a doppio taglio: da una parte, la prima metà di questo mini-documentario sembra un’ode al Big Mac, una sorta di Super Size Me al contrario (di Morgan Spurlock, un documentario coi fiocchi per chi è interessato all’argomento), che parla di fast food revolution e che sostiene che l’unico paese dove le catene in stile McDonald’s sono malviste siano le isole Bermuda (anche a ristringerla solo ai paesi che hanno “bandito” McDonald’s, la lista è un filo più lunga); dall’altra, finire l’episodio con scenari catastrofici di un’umanità obesa che cerca di sottrarsi ai devastanti effetti del cambiamento climatico, simboleggiato da mucche che emettono peti, è sicuramente istruttivo e divertente, un binomio raro da incrociare.

Peccato per due cadute di stile: la scelta di Bill Clinton come “faccia” della svolta salutista del fast food USA e, sempre a questo proposito, il totale silenzio sul fatto che sia stato proprio il fast food a rendere più costose le alternative salutari, creando un circolo vizioso che dura ancora oggi. Per finire, gli autori ci lasciano con una frase più inquietante di quella iniziale: Una cosa è certa: il fast food non scomparirà mai.“. Non so a voi, ma a me sembra una minaccia. (Elisa Tremolada)

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2. THE SPACE RACE – La corsa allo spazio

Netflix, come dice la sinossi di History 101, ci offre brevi lezioni di storia contemporanea. In questo caso ci racconta la storia di due superpotenze, gli Stati Uniti e la Russia, che vogliono dominare una sull’altra e che, durante la guerra fredda, hanno investito capitali inauditi per sviluppare (per prime) tecnologie sufficientemente avanzate per raggiungere il cosmo, o per tenerselo tutto per loro (e per venderselo a caro prezzo) o per influenzare un’opinione pubblica instabile.

Netflix ci propone perciò, della corsa allo spazio, un’analisi storica da un punto di vista politico-bellico. Niente di così errato. E non perché sia errato dire che la guerra tra questi due colossi mondiali abbia influito sulla creazione, negli anni ’90, della stazione orbitante internazionale (SSI) costruita da russi, canadesi, americani, europei e giapponesi. È errato, o perlomeno fuorviante, il “moralone” finale : far coincidere la costruzione della SSI con la risoluzione del conflitto tra Stati Uniti e Ex-Unione Sovietica.

La guerra per la creazione di una vita extraterrestre è ancora, e forse più di prima, aspra e spietata. Nel panorama di oggi possiamo trovare non solo molte più nazioni coinvolte (come Cina, Europa, Iran), ma la presenza di grossi privati che affittano i cantieri della Nasa per sviluppare i loro progetti megamiliardari per un “nuovo turismo spaziale” come Elon Musk, Jeff Bezos, il gruppo Virgin e altri. La guerra non è finita dunque, ci sono solo più shuttles e più giocatori. (Rocco Manfredi)

3. THE RISE OF CHINA – L’angosciante ascesa della Cina.

La Cina è un regime comunista”, si sente in giro. “Si sa che in Cina mangiano i topi vivi”, si dice qui vicino. “La Cina ci sta colonizzando”, dicono al bar. “La Cina ha creato la pandemia”, dice l’idiota. La distanza geografica mentalmente percepita dall’immaginario collettivo si è dimezzata. Ma in che modo?

L’ascesa della Cina, terzo episodio della serie Netflix History 101, lo mostra nitidamente. Con una retorica visiva di stampo occidentale-anglosassone, che ricorda vagamente l’odore stantio di propaganda americana contro l’U.R.S.S., contribuisce ad alimentare incomplete, fuorvianti e pretenziose certezze, già presenti sulle lingue inconsapevoli e puzzolenti dell’opinione pubblica. L’analisi sull’ascesa cinese proposta dal documentario è legata a dati riferiti unicamente alla crescita del PIL, paragonato a quello della divorante economia americana, che, assieme all’epicità del montaggio e delle musiche, vestono la Cina di minaccia al sistema capitalistico occidentale. 

Ma è veramente solo una questione di prodotto interno lordo? È sufficiente concludere il documentario soffermandosi sul futuro e imminente  momento in cui l’economia cinese supererà quella americana? Quali sono i fattori culturali che hanno permesso tale ascesa? Quale ideologia politica e filosofica è alle fondamenta del sistema economico cinese? Quali sono le tecniche capitalistiche applicate a teorie comuniste? Qual è il ruolo dell’occidente nelle tensioni ad Hong Kong? Queste sono poche delle infinite domande che navigano nella mia corteccia cerebrale, domande che vorrei alla base di un maturo dibattito multi-direzionale.

Il rischio che l’economia sia l’unico universo valoriale a cui affidare ogni lettura storica, compromette la capacità critica dell’opinione pubblica, depistando così l’immaginario collettivo. La pretesa di fornire risposte esaustive appartiene a una serie di rifiuti informativi che alimentano reazioni conservatrici, ritardando l’inevitabile accettazione del crollo economico, culturale, fisiologico e psichico del capitalismo; come ricorda Giuseppe Didino:

Tuttavia gli esseri umani non vedono il mondo nella sua interezza ma solo negli elementi che gli forniscono un senso[…]. La nostra mente seleziona alcuni elementi per «costruire» un mondo più o meno nello stesso modo in cui un bambino per disegnare un paesaggio seleziona alcuni elementi base (le colline, le nuvole, il sole e l’immancabile casa). Solo in rari momenti, dice Heidegger, il mondo si «schiude» completamente allo sguardo umano, perdendo all’improvviso i propri connotati familiari. Il mondo che abbiamo costruito ritorna a essere quello che era originariamente, un panorama alieno: in altre parole si demondifica. Questi momenti in cui la visione si fa più ampia e profonda corrispondono alla dimensione dell’angoscia, quella paura senza oggetto nella quale vacilliamo e arriviamo a un passo dall’essere perduti ma nella quale, anche, ci viene offerta la rara opportunità di trovare una dimensione più autentica dell’esistenza“.

Demondificare il nostro mondo è complesso, ma necessario. La storia non è fatta di pillole, ma di complessità. Fino a che esisteranno contenuti informativi poveri di quesiti, quel sognato mondo fatto di angosciante autentica esistenza sarà sempre più lontano. (KAKKAK)

4. PLASTICS – Maledetta, benedetta plastica.

Maledetta, benedetta plastica. Nell’ultimo secolo ci ha permesso di migliorare significativamente le condizioni di vita, eppure sappiamo tutti che così non si può andare avanti. A titolo d’esempio, ogni minuto vengono prodotti un milione di sacchetti di plastica e scaricato in mare un volume di plastica pari ad un camion della nettezza urbana. Ogni minuto.

Che sia già troppo tardi? Di certo non sarà questo episodio della docuserie History 101 a darci una risposta. Può essere però un buon punto di partenza per scoprire qualcosa di più su questa utile risorsa che, grazie al nostro utilizzo, ha distrutto l’ecosistema in cui viviamo e migliorato parecchio le nostre condizioni di vita.

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In poco meno di venti minuti viene esplorato il mondo della plastica in maniera estensiva e, a tratti, superficiale. Nomenclature scientifiche e cenni storici (narrati da un punto di vista statunitense) fanno il paio con dati che in alcuni casi non sono aggiornati (l’infografica ferma agli anni Settanta),  oppure usano riferimenti un poco sensazionalisti (nel 2015 abbiamo prodotto un volume di plastica pari a quello di tutti i grattacieli di New York).

Malgrado questi appunti, le informazioni fornite sono tante, interessanti e giustamente inquietanti: sapevate che ogni settimana ingerite la quantità di plastica contenuta in una carta di credito? Oppure che negli anni Quaranta il signor Ford stava già lavorando alla prima bioplastica? Qualcosa dev’essere andato storto.

Oggi, le alternative sono concrete e vengono sperimentate, più o meno timidamente. Restano alcune variabili incerte come il tempo che abbiamo a disposizione per portare un vero cambiamento e se ci sia o meno l’effettiva volontà di farlo. (Francesco Cibati)

5. OIL AND THE MIDDLE EAST – Un documentario davvero mal fatto.

Partiamo dalla fine. Ossia dal fatto che, di questo piccolo documentario, l’unica cosa che ho apprezzato sono state le grafiche e le sequenze video in cui, con grande maestria digitale, gli autori “visualizzano” percentuali e prezzi in modo visivamente assai piacevole.

Quanto al lato storico, ossia al lato di cui questa serie dovrebbe occuparsi (almeno a quanto sembrava dal titolo), sarà difficile commentarlo dato che su ArcipelagoMilano non è concesso l’uso del turpiloquio.

Chiunque abbia scritto il voice-over (la voce narrante, ndr) di questo episodio mostra un’evidente simpatia per gli Stati Uniti e gli altri “alleati occidentali” del Medio Oriente, i quali “non possono stare a guardare mentre i produttori del Medio Oriente si fanno a pezzi a vicenda“, poverini! Nulla sulle effettive popolazioni che abitano i territori citati, anzi per abbreviare sono tutte mescolate nella fantastica definizione “popolo mediorientale” – che poi se iniziamo a distinguere tra Siria e Iraq finisce che ci affezioniamo, eh.

Insomma, io questo episodio lo salterei. E mi (ri)leggerei invece “Il fondamentalista riluttante” di Mohsin Hamid, un libro meraviglioso che, a differenza di questi 20 minuti di banalità, regala uno sguardo diverso sulle complesse vicende del Medio Oriente. (Elisa Tremolada)

6. ROBOTS – 20 minuti di pesudo-propaganda del terrore sul futuro della robotica.

Sedetevi, rilassatevi, guardatevi questo episodio e innervositevi all’idea delle vostre magre prospettive lavorative o di vostro marito che scappa con una donna olografica. Come si è già capito, iniziamo dalle critiche. L’uso costante del Giappone come paragone è indice di poca lungimiranza: il Giappone non è certo rappresentativo del mondo intero.

Sì, i robots pongono un problema di responsabilità, o meglio di mancanza di essa, ma questo è proprio quello che ci salvaguarda dall’essere rimpiazzati. Sì, ci saranno ingenti perdite di impiego dovute all’avanzamento dei robots, a causa delle ancor oggi sconosciute capacità dell’intelligenza artificiale (AI). Ma, per il momento, ci sono ancora elementi culturali che pongono un freno alla “avanzata dei robots” che l’episodio predice. La personificazione dei robots è stata, in questo episodio, estremamente esagerata per instillare paura, provocare una reazione. 

L’episodio esprime anche una certa preoccupazione per reddito e obiettivi nel futuro. Con un adattamento dei sistemi di tassazione, che imponga lo share maggiore di tasse a chi possiede tecnologie strategiche, e tramite una “ristrutturazione culturale” della settimana lavorativa da 40 ore, ci sarà lavoro: sarà certo un lavoro di natura diversa, per il quale saranno necessari programmi di riqualificazione professionale in modo da evitare che molti, particolarmente chi non ha risparmi, rimangano senza reddito. 

Meno tempo dedicato al lavoro significa più tempo per concentrarsi su attività fisica, lavoro umanitario e la distruzione dello stato capitalista (se è quello che uno vuol fare). Trovo questa riflessione sull’avanzamento della robotica problematica, perché rende le persone diffidenti nei confronti dell’utilizzo dei robots, impedendo così alle loro economie una potenziale competizione sul piano globale: è una prospettiva pessimista che non porta a nessuna soluzione positiva. Con una strategia di governo proattiva possiamo invece  evitare una massiccia disoccupazione e, forse, arrivare a godere una vita con meno ore lavorative per lo stesso reddito. (Lillian Higgs)

7. FEMINISM – Il problema senza nome

Il settimo episodio di History 101 si propone di approfondire il tema del femminismo e di rispondere alla seguente domanda: perché ancora oggi ne abbiamo bisogno? Nel farlo ripercorre il succedersi degli eventi chiave che hanno contrassegnato la storia del femminismo – limitatamente agli Stati Uniti e a partire dagli anni 60.

In venti minuti ci viene raccontata la linea del tempo delle progressive conquiste del femminismo, citando i nomi e le opere che passo dopo passo hanno consentito di arrivare faticosamente ai traguardi di oggi, senza dimenticare i passi indietro e il fatto che tutt’ora abbiamo a che fare con un divario salariale di genere e un glass ceiling da rompere per tutte quante.

Sicuramente utile per coloro che hanno vissuto sotto un sasso fino a questo momento oppure per un legittimo ripasso di storia (con un paio di inesattezze, a dir la verità), al termine di questo tripudio di percentuali e date rimaniamo però con una visione per lo più parziale, quella delle donne bianche cis-gender americane eterosessuali ed appartenenti alla classe media.

Arrivati al presente della linea temporale, l’episodio accenna all’esistenza di un femminismo più inclusivo che considera anche diverse etnie e identità culturali, ma in modo talmente veloce che a mala pena ci si fa caso, mentre proprio si dimentica della comunità LGBTQ+: come si fa a parlare di femminismo oggi senza affiancarvi la parola intersezionale?

Segue poi una breve panoramica mondiale sulle condizioni attuali dei diritti delle donne, che si sofferma sulle disparità di genere in paesi in via di sviluppo, e accenna solo al gender pay gap e al numero limitato di donne in posizioni di potere in patria e in Europa, dimenticandosi delle numerose altre problematiche come le molestie, i femminicidi, le discriminazioni in ambito sanitario e di ricerca, etc… e della deriva sociale e politica particolarmente inquietante e misogina degli ultimissimi anni, con l’elezione tra l’altro di un presidente che afferma impunito “grab them by the pussy”.

In italiano il titolo della serie diventa Storia contemporanea in pillole e in effetti conferma la volontà di comprimere la storia e gli esiti odierni di un tema vasto e complesso come il femminismo in una pillola di venti minuti che tutto sommato, se si riesce a mandarla giù, è un primissimo e superficiale approccio storico- informativo al problema senza nome. (Anna Laura Battezzati)

8. NUCLEAR POWER – Più domande che risposte

Gli autori di Netflix sono vittime di una malsana ossessione per il Giappone. Tanto che, anche se la Francia produce il 70% della propria elettricità dal nucleare,il più alto share di energia nucleare al mondo“, anche se USA e Cina sono i più grandi produttori di energia, e di energia nucleare al mondo, comunque gli autori si concentrano sul Giappone – che almeno è lontano, far far away e non ci riguarda. Però bisogna ammettere che dedicano ben venti secondi a “citare” i più grandi produttori mondiali di energia nucleare (oltre a Francia, USA e Cina, anche Russia e Regno Unito).

Se si riesce a chiudere un occhio, o anche due, sul punto di vista unilaterale, bianco e colonialista, che Netflix non riesce a scrollarsi di dosso, l’episodio offre spunti interessanti per riflettere su un tema che sembrava essere scomparso dal dibattito pubblico. Il problema – o il punto di forza, vedete voi – dell’episodio è che se ne esce con più domande che risposte, particolarmente sulle implicazioni etiche di questo metodo di produzione d’energia.

Un po’ frettoloso il “glissando” sulle immagini dei corpi martoriati delle vittime dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki; un po’ troppo evidente la pubblicità occulta alla popolarissima serie “Chernobyl” prodotta da Sky UK e HBO. Rispetto ad altri episodi della serie risulta però decisamente meno stucchevole e più interessante – non nascondo che l’aver avuto zero conoscenze pregresse in argomento potrebbe aver aiutato non poco.

Ironico il finale (tranquilli, non è uno spoiler): mentre il voice-over declama Forse la risposta è che non abbiamo scelta – l’energia atomica potrebbe rappresentare l’unica via di salvezza per l’umanità e per la Terra stessa, vediamo un modellino di una centrale eolica – letteralmente, l’alternativa non menzionata di quest’episodio dal sapore di TINA (There is No Alternative, slogan coniato da Margaret Thatcher); le energie rinnovabili. Inevitabile notare l’assenza di queste anche dalla “miniserie” in questione… (Elisa Tremolada)

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10. GENETICS – È la vita!

Abbiamo sentito tutti giustificare quello che ci accade attorno con l’espressione “È la vita”. È affascinante pensare come forse tra qualche tempo questa espressione perderà significato, visti i progressi che stiamo silenziosamente facendo nel comprendere come la vita funzioni e nell’imparare a manipolarla. Dalla scoperta della struttura del DNA sessant’anni fa, stiamo imparando sempre meglio a decifrare e a modificare questa molecola così apparentemente semplice eppure capace di contenere tutte le informazioni per costituire un qualsiasi organismo, da un fiore a un elefante.

Come in un computer, l’insieme di tutto il DNA contenuto in una nostra cellula, il genoma, contiene sequenze date dalla combinazione di 4 cifre (le basi azotate) che codificano specifiche informazioni per il funzionamento del nostro organismo. Queste sequenze, i geni, racchiudono informazioni che stiamo già riuscendo a sfruttare a nostro vantaggio.

Un primo esempio è la reale possibilità di sapere quale rischio una persona ha di sviluppare una malattia e dunque agire in modo da prevenirla; un altro è invece la tecnica di modificare i geni dei vegetali per renderli più ricchi di nutrienti o resistenti a pesticidi (gli organismi geneticamente modificati o OGM) e un altro ancora è la cosiddetta impronta digitale genetica, basata sulle sequenze del genoma che ci rendono unici al mondo, largamente utilizzata in medicina forense.

Queste scoperte possono aumentare di gran lunga il nostro benessere e permetterebbero di risolvere numerosi problemi, ma cosa succederebbe se la sete di conoscenza dell’essere umano non si fermasse qui? Se progredendo scoprissimo nel nostro DNA indizi su possibili futuri comportamenti? Se queste informazioni divenissero di dominio pubblico? Se non analizzassimo i possibili effetti dannosi degli OGM? E se non ponessimo un veto alla possibilità di modificare i nostri figli prima della nascita o addirittura clonare organismi umani? La vita è ancora un grande mistero, dovremmo forse chiederci se siamo in grado di sopportare ciò che ancora non conosciamo e se non stiamo facendo il passo più lungo della gamba. (Giovanni Carosio)



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