25 maggio 2020

NEL LESSICO “AL TAGLIANDO” C’È ANCHE LA PAROLA ATTRATTIVITÀ

Tema cruciale, per l’Italia, per la Lombardia e per Milano


Cosa ne è stato di quelle parole che pochi mesi fa popolavano, anzi spopolavano nel contesto del “modello Milano”? Perché non si parla più (o non più così tanto) di attrattività, di brand, di sostenibilità? Ce lo spiega, grazie alla sua esperienza, Stefano Rolando.

rolando

Diciamolo francamente, alcune parole che andavano per la maggiore sono rimaste nascoste in cantina durante l’invasione e l’occupazione di Coronavirus. Nella certezza che, se avessero messo il becco fuori, il velocissimo, astuto e reazionario virus (reazionario nel senso di fustigatore di ogni modernizzazione, salvo la sua stessa modernità rispetto ai suoi predecessori) le avrebbe messe nel sacco e consegnate al lungo oblio.

Una di queste è la parola “attrattività”. Una parola amata dal marketing, amata dai pubblicitari, amata da albergatori e ristoratori, amata da vecchi e nuovi milanesi. Non siamo tra i dispregiatori, sia ben chiaro. Ma abituati a prendere strade distinte da quelle battute con impeto dal marketing, sulla parola “attrattività” prendiamo di solito qualche misura.

  • Attrattività sostenibile” è già una prima misura. No al “destino Venezia”, per esempio, dove ogni limite è stato varcato.
  • Attrattività qualificata” è una seconda misura. Dove, non arrivando a dichiarare che si vogliono turisti ricchi e spendaccioni e non un esercito di pellegrini polacchi con il cestino (non è il problema di Milano), si cerca di mettere la leva del turismo funzionale a un’offerta culturale e ambientale che non deve stravolgere la qualità sociale e le qualità tradizionali di un territorio.
  • Attrattività non occasionale” è una terza misura. Costruendo quella relazionalità che non solo produce i fondamentali “ritorni” ma – come è stata storicamente l’esperienza milanese per i grandi viaggiatori del passato (Stendhal in testa), per i maggiori intellettuali italiani del ‘900 (tutti finiti nella “terza” del Corriere), per gli inventori e i costruttori di impresa divenuti adottivi milanesi e co-fondatori di una delle più lunghe rivoluzioni industriali d’Europa – produce il doppio fenomeno del “radicamento”, ovvero quello del sentirsi “a casa” comunque al ritorno.

Piccole note per dire che nella disputa tra la cultura di brand e la cultura di vendita – che rende una parte dei cambiamenti del fenomeno della mobilità un rischio rispetto alla parte che li vede invece come un’opportunità – il lockdown ha costretto il confronto e anche la polemica al silenzio. Mentre ora – non si sa con quale Dpcm (il 2? il 3? il 10?) – sta per essere rimessa sul tavolo quella parolina il cui suono può apparire diverso per anime delle città italiane che hanno fin qui convissuto, anche se non sempre condividendo tutto.

Per ora vince il presentismo. Siamo ancora in pieno sviluppo della pandemia. Dunque non sono tirate conclusioni né sanitarie, né economiche, né socio-culturali. Tuttavia tutto il mondo sta facendo prove di “ripartenza”, a fronte di curve più in declino dei contagi. Coloro che allungano un po’ lo sguardo oltre al “presentismo” che ha dominato il quadro decisionale della crisi, concorrono a immaginare equilibri di comportamenti collettivi che possano conciliare questa ripresa con il contrasto all’azione del virus.

Probabilmente nel 2020 sarà possibile fare solo manovre di contenimento, soprattutto in settori che prevedono molta mobilità, molti eventi, molti assembramenti. Settori cosi configurati sono certamente il turismo, lo spettacolo dal vivo, la fruizione di spazi culturali chiusi, una piena mobilità attraverso trasporti pubblici che hanno difficile distanziamento. La preliminare apertura della città al pendolarismo strutturale (per Milano quasi una quota di raddoppio della popolazione attiva, a regime) porterà poi via per un pezzo una fetta importante del principio di “sostenibilità” prima accennato.

In ogni caso si tratta di componenti che costituiscono l’ossatura di una politica di attrattività che resta e resterà una componente centrale di politiche economiche ormai strutturali. Le quali, proprio in questo necessario gradualismo della ripartenza, non solo possono ma in realtà anche debbono ragionare su un adattamento al rapporto tra identità e qualità della vita. Che non è fatto solo di fatturati ma anche di equilibri.

Milano non è Taranto, si capisce – nel senso di drammi della polarizzazione. Ma nella capacità ragionativa della sua classe dirigente la pluralità degli indirizzi economici della città e gli stessi suoi punti di partenza (reddito pro-capite, valori patrimoniali, risparmio, adesione al modello storico di sviluppo, eccetera) rendono molto possibile non subire solo i conflitti, cercando per lo più soluzioni migliorative.

Molto dipenderà dalla stessa capacità della politica di comprendere il valore rigenerativo di una simile riflessione e aiutarne il nuovo radicamento. Il dibattito pubblico non è vincolato a legittimazioni istituzionali. Ma se esso vuole concorrere non solo a prassi, ma anche a decisioni, questa interlocuzione è necessaria.

È immaginabile che dappertutto, ma soprattutto nel concentrato tessuto urbano, si dovrà operare, sotto questo profilo, attraverso distinte fasi. Si comincerà con il mantenere soglie minime di iniziativa applicando tutte le misure di distanziamento possibile, consentendo una soglia minimale di funzionamento. Poi si svolgeranno correttivi metodologici e organizzativi per rendere la fruibilità compatibile con il citato distanziamento. Intanto sarà possibile progettare trasformazioni che riguardano la riorganizzazione, anche sociale, delle misure previste. E ancora certamente sarà più diffuso puntare su impiego delle tecnologie innovative per creare stabili modalità di fruizioni alternative.

Il cambio di reputazione trascina a guardare oltre. La pandemia mette in moto conseguenze e impatti che non riguardano solo il volto “economico” di un territorio. Ma anche ineliminabili pre-condizioni. Una delle quali – non ci vuole grande scienza per riconoscerla – è la qualità, la stabilità e l’importanza di una componente identitaria che mantiene un suo rilievo essenziale destinato a sviluppi futuri: la reputazione. Cioè non solo la reputazione esterna, ma anche e prioritariamente la reputazione interna.

Da questo punto di vista la lezione già acquisibile da questi tre mesi di lockdown ci offre una mappa mondiale, nazionale e territoriale che va assumendo caratteri diversi in relazione a molte cose: l’incidenza attuale dell’epidemia; i modi di contrasto che si sono messi in atto; le forme di fronteggiamento sanitario, organizzativo e sociale adottato; le qualità collettive che si sono espresse. Un insieme di fatti e di cose che confezionano un’idea di noi stessi alle prese con le partite forse più dure della mobilità, della relazionalità, della comodità, della redditività. A “guerra finita” questi valori torneranno tutti in primo piano e noi li affronteremo con lo spirito che ci ritroveremo e con il giudizio degli altri che ci saremo meritati.

Non è un’opzione casuale quella per cui i contesti asiatici abbiano messo in luce un modello “rigido” di controllo e prevenzione che viene da lontano. O che gli Stati Uniti abbiano scontato (senza più un governo capace di mediare) conflitti tra stati e poteri federali e tra condizioni sanitarie protette e non protette che hanno prodotto inaspettate conseguenze.

Noi assistiamo, in Italia e in Europa, a un tentativo di superare i modelli del castello medioevale a ponti levatoi alzati in cui – tra nuove autarchie e nuovi nazionalismi – qualcuno si stava infilando. Insomma vediamo prove di coordinamento che presentano resistenze ma anche risultati. Per l’Europa ciò comincia ad avere anche spunti di concretezza che non sempre i commenti correnti concedono a “questa” Europa. Restano alcuni stereotipi a guidare le scelte, ma si esprimono anche coraggi nel cambiare il punto di vista. E l’Italia è al tempo stesso un oggetto e un soggetto di questi giudizi. In cui il nodo reputazionale conta come il peso del PIL o del debito pubblico. Il presidio dato dagli italiani (alcuni italiani) a queste ultime vicende per fortuna ha contribuito a questa regola. Queste esperienze incidono appunto anche sui profili reputazionali in cambiamento. Abbiamo rischiato la gogna, ritrovandoci in equilibrio in cabina di regia.

E non è detto che ciò che appare oggi una criticità (le gravi disfunzioni socio-sanitarie in certi contesti della Lombardia per esempio) non trovi forse, alla fine, un giusto riequilibrio di immagine in quella prodigalità, umanità, solidarietà che, messe a dura prova, hanno anche fatto esprimere tradizioni forti dei lombardi. E a ben vedere di tutti gli italiani. Insomma i conti si devono ancora fare attorno alle dinamiche tra paure e solidarietà, conti che possono modificare non poco giudizi e pregiudizi. Bisogna lavorare di più a consolidare le buone storie che abbiamo e che siamo assolutamente autorizzati a raccontare.

La rigenerazione è una cosa concreta. La potenzialità rigenerativa non è un’invenzione di qualche filosofo e di qualche giornale che ha dato spazio all’argomento. La crisi in atto contiene elementi di rigenerabilità che hanno sicura incidenza su quanto abbiamo fino ad ora accennato. Prevedere, progettare, narrare i nuovi adattamenti riguarda molte cose anche concrete, non solo “filosofiche”:

  • il rapporto con i temi ambientali e della sostenibilità, che hanno forse davvero conquistato la prima pagina;
  • il rapporto con la sicurezza nelle condizioni di lavoro, che passano attraverso una proceduralizzazione nemmeno immaginabile qualche mese fa;
  • l’applicazione di nuove forme di produzione, studio e lavoro determinate da applicazioni tecnologiche allo smart-working che costituiscono già ora un nuovo percorso cognitivo, esperienziale ed anche economico;
  • l’organizzazione dei trasporti e della mobilità in cui si vanno esprimendo progettualità produttive e nei servizi.

Poi esistono partite sospese. Per esempio quella del rapporto reale con le migrazioni che aspetta un saldo etico che finora nemmeno la dura discussione sulla regolarizzazione ha permesso di fare emergere a fondo.

Questo allungamento di sguardo al domani e al dopodomani è un passaggio importante rispetto all’attonita preoccupazione di questi cento giorni per i bollettini quotidiani, per i decessi quotidiani, per le sofferenze quotidiane, per le risorse finanziarie quotidianamente bruciate.

Quando è in gioco la invisibile, ma a volte anche impietosa, modifica di reputazione, ogni risposta deve contenere strategia e visione. Qui ripeto: l’impressione è che sia l’Europa (non tutta, ma quella “comunitaria” sì) ad avere avuto un certo coraggio in questo senso, dal bazooka finanziario (che, è stato scritto, “ha disarmato i sovranisti”) all’impegno per tenere in piedi la priorità sul Green New Deal.

Le nostre istituzioni – nazionali, regionali e urbane – sono, comprensibilmente ma non del tutto giustificatamente, rimaste finora nel fronteggiamento a breve. Per Milano questo è quasi un tic. Dai tempi dell’Esposizione Universale del 1906 la città dice di essere “pronta a ripartire” ad ogni catastrofe che il destino le ha messo tra i piedi (in quel caso fu l’arrivo della guerra mondiale violentemente negatrice del progetto di interconnessione europea di quell’Expo).

Il “tic” corrisponde a un sentimento molto identitario. Non è la forma infatti ad essere in discussione. È la sottintesa realtà delle classi dirigenti, della rete dell’alta formazione, della progettazione innovativa delle imprese, di una parte della politica che non ha perso il nesso con il pensiero economico e sociale, dei soggetti culturali e della conoscenza a non rispolverare solo parole d’ordine auto-rassicurative ma a mettere idee sul tavolo. Infatti quando in campo arrivano veri cambiamenti di sistema la chirurgia terapeutica ha pari valore che l’ascolto dei veggenti. Sono entrambe metafore, ma la competizione globale che ci aspetta rende entrambe le cose scelte di metodo.

Milano-Lombardia-Italia. Potrebbe ora apparire ingenuo chiedersi se il nesso tra Milano, Lombardia e Italia – una delle dorsali ineludibili della forza dell’Occidente euro-mediterraneo – proprio riguardo alla questione di superare il “presentismo” goda o no di buona salute. Sia a seguito dei disastri (anche polemici) della pandemia, sia a seguito dei sottintesi conflitti che fanno di questi tre soggetti realtà oggi più distanti e in contenzioso rispetto ad altre epoche storiche.

Non mi dilungo sulle stagioni di coesione. Esse hanno prodotto cose scritte in capitoli di spinta della storia italiana. La “non buona salute” di oggi appartiene ovviamente a comprensibili conflitti politici. Ma corrisponde anche ad antichi irrisolti. In chiusura d’articolo non è corretto dilungarsi su questi irrisolti, che per altro su questo giornale sono stati variamente trattati. Spesso i modelli di riferimento sono stati usati come fattore di relazione, ma anche come fattore di scontro. I separatismi nascano sia quando pensi di essere una valle protetta “a scudo” da fiumi e montagne; sia quando pensi di essere una evaporazione globale senza barriere.

Il filo del nostro ragionamento riguarda i nessi reputazionali da ricollegare alla fine di una pandemia che strema per definizione un paese che oggi esprime il 10% dei morti del mondo e che domani deve mettere insieme, convincentemente per tutto il mondo, Europa in testa, una capacità di investimenti superiore a quelli del Piano Marshall. Se la politica vuol tenere in mano le sue carte perché prevale la ragione di frammentarsi, si assumerà questa responsabilità. Che lo facciano l’impresa e la rete universitaria sembrerebbe francamente una cosa autolesiva.

I più comprendono che si tratta ora di aggiornare le convergenze sulle priorità globali (nutrimento/ambiente) che hanno costruito il successo dell’Expo; di complementarizzare i ruoli rispetto alle Olimpiadi del 2016 (che daranno una risposta a questioni di cambiamento radicale di sport e turismo nel mondo); di comprendere la dorsale Nord-Sud del Paese in un contesto in cui la questione del fronteggiamento dei rischi prioritari sulla salute si mescola a una visione demograficamente di lunga portata del problema migratorio.

Un laboratorio di questo genere l’Europa avrebbe tutto l’interesse a tenerselo caro. E gli italiani tutto l’interesse ad esserne fieri.

Stefano Rolando1

1 Chi scrive – al di là del lungo impegno come professore universitario di ruolo (IULM) – è stato per dieci anni direttore generale dello Stato, per cinque anni direttore generale del Consiglio regionale della Lombardia e per altri più recenti cinque anni (dal 2012 al 2016) presidente del Comitato Brand Milano, a riporto del Comune. Tanto è bastato per percepire i “nessi” di interesse reciproco a cui fa cenno questo articolo.



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