24 maggio 2020

DOPO IL DISTANZIAMENTO SOCIALE IL VUOTO DELLE IDEE

Dopo lo spettacolo di un Paese allo sfascio il timore che si perda un’occasione


Lo sguardo disperato di chi vede lo scempio delle città, delle coste, di tutto il territorio, cimitero di un sistema di sviluppo che lascia le sue tracce indelebili. Forse oltre il tempo del costruire sarà anche il tempo di demolire.

pivetta

In questi giorni infelici, tra le notizie tristi e inquietanti, tra le innumerevoli bugie e le considerevoli volgarità, tra le preghiere dei questuanti e le minacce di insurrezioni, mi è capitato di leggere nel sito di un noto quotidiano milanese un titolo che ha riacceso le mie speranze. Solo il titolo, perché la seconda riga del sommarietto già mi riprecipitava nell’umore tetro di questi mesi. Comincio da qui, dal sommario, che annuncia: verrà costruito un centro commerciale.

Siamo alle solite, siamo alla resa: la grande città non sa produrre altro che centri commerciali? Se c’è un buco tra le case, che facciamo? Facciamo un centro commerciale. Abbattiamo lo stadio: ci mettiamo al suo posto un bel centro commerciale, ovvio ! Spariscono i treni: via con un altro centro commerciale, giusto sulle rotaie…

Un toccasana il centro commerciale, chiave di volta del consumismo estremo e inarrestabile, come s’avverte ormai da decenni, secondo uno schema che testimonia il vuoto di pensiero nel nostro tempo, l’incapacità di imboccare una via un filo diversa, di riconsiderare il nostro rapporto con i beni materiali, persino di capire, come la pandemia ha messo a nudo, che qualcosa non funziona in un sistema che sembra potersi realizzare solo nella corsa all’acquisto.

Accantonando il centro commerciale che verrà, risalgo al titolo: “Macchine demolitrici in azione, crolla il palazzo… ”. La mia precedente rassegnazione viene scalfita, almeno, da questa immagine: riammesso al lavoro dopo il decreto governativo, il potente braccio d’acciaio si alza al cielo e orienta le sue tenaglie contro una parete, stritolando un muro divisorio o un pilastro, lasciando di un orrido edificio di qualche presunzione modernista brandelli di uno scheletro e macerie al suolo. Mi sembra di leggere in quel gesto, persino un po’ futurista, lo slancio di una collettività che vuole cambiare e vuole ricominciare: “mai più come prima”, come si disse ai primi passi del coronavirus.

Illusioni. Ma una convinzione mi resta: abbattere si può, spesso si dovrebbe, per un “nuovo inizio”… Anche soltanto per convenienza: pensate a quanto lavoro dalle demolizioni, pensate quante risorse si potrebbero ricavare recuperando un bene ormai raro come la terra.

Sono stato obbligato dal morbo che infuria e dai comprensibili editti del capo del governo a rimanere sfollato in un paesino di una valle piemontese, dove potrei esercitarmi a lungo nelle demolizioni: di condomini, follie architettoniche degli anni sessanta/settanta, occupati sì e no quindici giorni l’anno, di decrepite villette a schiera che intendevano imitare un’immaginaria architettura alpina (o alpinistica, considerando la pendenza dei tetti aguzzi come mai s’era visto in villaggi dove le coperture si sono fatte sempre di pesantissime beole), di capannoni industriali deperiti da tempo immemorabile al primo accenno di globalizzazione, di un ponte soprattutto, uno smisurato e inutile accumulo di cemento armato che sovrasta sciaguratamente un altro ponte, questo ad archi in pietra, solidissima e splendida opera medioevale, in sintonia con il paesaggio intorno, con vista su un ribollente fiume, vista peraltro in parte impedita dal moderno manufatto di calcestruzzo.

Mesi fa, ben lontani dall’epidemia, ho percorso un tratto di costa ligure in treno. Abituati all’auto, il panorama dal finestrino può apparire insolito e insieme assai rivelatore, rivelatore dello stato di degrado di un’edilizia che ha selvaggiamente deturpato nei decenni angoli bellissimi. Quanto non s’affaccia sulle vie principali ma si rivolge alla ferrovia, quel mondo appare grigio, scrostato, arrugginito, penosamente invecchiato, ingombro di rottami: il “retro” delle case rivela il disordine delle costruzioni e una vecchiaia giunta con troppo anticipo.

Lasciare Milano o arrivarci in treno ci mostra lo stesso paesaggio, con l’aggiunta di un’infinità di capannoni e di cortili abbandonati, rimesse, depositi, officine, simboli cimiteriali di una passata dominanza del lavoro e della produzione, ma anche parallelepipedi tutto vetro, ormai opaco per lo sporco, che esprimono la vocazione speculativa, mascherata dall’ansia terziaria.

La natura riprende il proprio posto e i suoi diritti: nel cemento crescono le piante. Lasciamo fare: tutto si coprirà d’erba. Il nostro viaggio costeggia una lunga teoria di immobili deserti, che hanno in passato ospitato e consumato vittime, dietro scrivanie o attorno a macchine, alla luce di finestre e finestroni ormai sventrati e spesso, ai piani bassi, tamponati da file di mattoni cementati per impedire l’accesso di immigrati e senza casa.

Ricordo l’impressione che mi fece entrare negli spogliatoi di una grande azienda siderurgica di Rogoredo dismessa da anni: nel silenzio assoluto, nella polvere, ritrovare scarpe abbandonate davanti alle panche, tute appese negli armadietti aperti, camicie finite a terra, testimonianze di un esodo improvviso, dopo una chiamata al destino della cassa integrazione o del licenziamento.

In questi mesi di clausura, molto si è reclamizzato lo smart working, che semplicemente chiamerei “lavoro a domicilio”. Non so quale futuro possa avere (ed è un futuro che può preoccupare), ma credo che Milano dovrà fare i conti con nuovi spazi vuoti, lasciati dalla crisi e dai cambiamenti a un desolante tramonto.

A Milano, mio malgrado (ma forse per mia fortuna) non cammino più da mesi e le informazioni che mi giungono tra giornali e telegiornali riguardano quasi esclusivamente il numero dei contagiati, quello dei morti, quello dei risanati, o riguardano l’affollamento della darsena, le code al supermercato, la lunga attesa di un caffè in un bicchierino di carta ben distanti dal bancone, per ultimo la pittura di nuove piste ciclabili (peraltro contestate al solito e inspiegabilmente dai negozianti, a dimostrazione che è arduo pensare che “tutto cambierà”).

Non ho letto nulla di nuovi programmi se non a proposito di calcio (grazie ai rendering, cioè alle fantasiose simulazioni dei nuovi ipotetici stadi calcistici) e di un’arena olimpica a Santa Giulia (con relativi spazi commerciali, ovviamente), nulla invece di progetti che esprimano il sentimento di questi mesi, la speranza che tutto debba cambiare: come qualcosa almeno possa cambiare nell’aria contro l’inquinamento, nel sistema sanitario, nella viabilità contro la congestione, nella scuola contro il degrado culturale, nella politica a difesa della democrazia, nella manutenzione del territorio contro lo spreco, nella gestione dei fiumi contro le esondazioni del Seveso o del Lambro, nella difesa di una qualità urbana, nella rivendicazione di una bellezza possibile, una voce dopo le altre di un welfare che non sia solo un’incerta protezione economica, ma significhi prima investimenti e lavoro.

Quel braccio d’acciaio, quel braccio demolitore può essere uno strumento, perché demolire serve per ridare umanità a una città prigioniera da tempo immemorabile della speculazione edilizia, di un’architettura dozzinale, di un costruire insensato e inadeguato. Demolire qualcuna delle fascistissime case popolari di San Siro o del Lorenteggio, i miseri casotti artigianali di Porto di mare, demolire per ridare un corpo a vie e piazze, un disegno che non sia solo di allineamento, cancellare brutture, rimodellare i vuoti perché diventino spazi di vita.

Ma si possono demolire anche le cattive abitudini, i pregiudizi, le procedure, i modelli imperanti, tutti i caratteri di un’epoca gaia che non ci ha però difeso dal Covid e da una serie di altri virus, materiali o mentali che potremmo disordinatamente elencare: precarietà del lavoro, diseguaglianze sociali, decadenza dell’insegnamento scolastico, abbandono universitario, polveri sottili, malattie, criminalità, arretratezza tecnologica, movimenti e tempi dettati dall’auto.

Leggo (e cito un autorevole editoriale) che “si tornerà a crescere, sostenendo il peso del debito pubblico, solo se si rilanceranno investimenti competenze, merito, ricerca, concorrenza”. Certo, ma con un’idea in testa. Se penso a Milano, credo che prima di spendere ci si dovrebbe fare un’idea della città che si vorrebbe costruire, per chi la si vorrebbe costruire, senza cedere alle lusinghe degli interessi particolari, lo sguardo rivolto all’area metropolitana e alla regione, un disegno e un orizzonte per poter cominciare a demolire muri obsoleti e modelli pericolosi, slogan e pubblicità, inefficienze e complicità.

Si capisce benissimo che non si può attendere la fine del coronavirus per immaginare il “dopo coronavirus”, ma non vedo in giro una gran tensione progettuale. Così la probabilità che tutto resti come prima è consistente, lasciandoci con la consolazione dei centri commerciali.

Oreste Pivetta



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  1. walter moniciGrazie a Oreste Pivetta per queste riflessioni. Ne aggiungo di mie: Mi viene da piangere quando vedo abbattere decorosi edifici ottocenteschi per sostituirli con presuntuosi palazzotti modernisti. Piango quando in fondo a via Mascheroni, incrocio Ariosto, il punto di fuga di una via di palazzi e chiese del 7-800 è la oscena, presuntuosa, arrogante, incombente sagoma della torre storta di zaha hadid che ha regalato a Milano anche transatlantici spiaggiati e una lampada totem di Artemide. Mi deprimo quando vedo le piazze trasformate in piste da circo a bolli e strisce con saltimbanchi annessi. Mi intristisco vedendo che i nostri governanti sono ancora fermi alla estetica del dopoguerra, come pio padre che negli anni cinquanta ammirava i nuovi palazzi che crescevano come funghi perchè erano "nuovi". Così mentre le città realmente europee ricostruiscono i centri storici "dove era come era", noi provincia dell'impero imitiamo le peggio brutture di Londra e Hong Kong uguali a quelle di Lagos o Manila. E buttiamo alle ortiche 3000 anni di cultura, estetica, sapienza e sensibilità per l'architettura delle città. Per fortuna mi sono dimesso dall'ordine degli architetti altrimenti mi avrebbero dovuto espellere.
    27 maggio 2020 • 10:41Rispondi
  2. valentino ballabioOttima l'idea del “dietro front” delle ruspe per agglomerare, su più aree dismesse e degradate, nuove e varie “montagnette di San Siro” accumulando le sopra ben descritte macerie civili, meno cruente ma non meno ottuse di quelle belliche trasformate da Piero Bottoni in straordinario verde pubblico ed elevato ammonimento politico e culturale.
    29 maggio 2020 • 14:42Rispondi
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