24 aprile 2020

LA REGIONE HA CINQUANT’ANNI ED È DIVENTATA GRANDE

Il Covid-19 ha fatto “scoprire” la Regione. Forse per il tonfo dei suoi leader


La pandemia è una sorta di resa dei conti. L’eccellenza della sanità lombarda stava nell’eccellenza delle sue terapie. Ma per chi? Il territorio è stato abbandonato, e la sanità lombarda si è trasformata in una “industria” non più un servizio al cittadino. Ripassiamo la storia della Regione per vedere chi c’è dietro le quinte.

Cesare-Golfari_Lecco-2La regione Lombardia viene costituita con la legge 16 maggio 1970, n. 281. Compie cioè 50 anni, e fino a tre mesi fa era minorenne. Quando, il 31 gennaio 1947 la seconda sottocommissione della Commissione per la Costituzione, aveva stabilito che le nuove Regioni sarebbero dovute essere 22: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia, Umbria, Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Salento, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, (poi il Salento si perse per strada, il Molise e l’Emilia furono accorpate e la Lucania rinominata) le regioni sembravano destinate ad avere un ruolo fondamentale nella storia della repubblica. Invece passarono decenni prima della loro istituzione e il loro ruolo fece una grande fatica ad affermarsi.

Bisogna attendere il 22 maggio 1971, perché il Presidente della Repubblica promulghi la legge che approva il primo Statuto della Regione elaborato dalla Commissione presieduta da Carlo Ripa di Meana e ancora anni, almeno fino al 1977, perché siano trasferiti dallo stato importanti poteri relativi al territorio, ai servizi sociali, allo sviluppo economico.

unnamedL’istituzione delle regioni era avvenuta sotto la spinta dell’entusiasmo per la “programmazione” che in particolare tra le forze più avanzate del centro sinistra sembrava essere il modo “di ricomporre una diaspora territoriale che frantumava la penisola in una miriade di piattaforme localistiche”. Si era creato un mito della programmazione e del suo ruolo illuministico. Nella realtà le regioni furono percepite dall’opinione pubblica come una generica estensione delle tradizionali esperienze di amministrazione locale.

Se la DC ne aveva ritardato per decenni l’istituzione, timorosa di veder nascere un blocco (come poi avvenne) di regioni rosse nel centro Italia, scarso era anche l’entusiasmo delle leadership nazionali dei partiti di sinistra come diceva De Gasperi nel 1952: “Che cosa importa ai comunisti della Regione? Io che ho lavorato con loro ricordo bene l’antipatia, l’avversione dei socialisti nenniani e dei comunisti per la Regione. Essi pensavano che il decentramento attenua la forza del potere centrale che per essi è di assoluta necessità per preparare il grande rivolgimento, per attuare la grande conversione della struttura sociale e politica dello Stato.”.

In particolare nella sinistra lombarda pesava la convinzione che la regione sarebbe diventata un baluardo democristiano, comprimendo la capacità amministrativa dei comuni e del comune di Milano.

tumblr_nh82xwjBOc1u6zkcoo1_640La destra sulle regioni sarà invece sempre negativamente coerente. Ancora nel 2015 l’allora capogruppo parlamentare di Fratelli d’Italia sosteneva: “‎La nostra proposta si fonda sulla cancellazione delle Regioni e sulla categorica esclusione di un loro accorpamento perché le grandi dimensioni moltiplicano la spesa pubblica e aumentano la distanza con il territorio, i cittadini e i bisogni reali”.

La regione fin dalla nascita è quindi considerata politicamente meno rilevante, meno popolare, meno notiziabile di Palazzo Marino e degli altri sindaci “importanti” e bisognerà attendere l’elezione diretta del presidente (che comunque viene introdotta dopo l’elezione diretta del sindaco) e la riforma costituzionale del 2001 perché la dimensione politica delle regioni aumenti.

Ma non ovunque e sopratutto non in Lombardia dove si è continuato a considerare il sindaco di Milano alla pari di un ministro nazionale di categoria superiore e il presidente della regione un numero 2.

Fin dalle prime elezioni regionali che si tennero con il sistema proporzionale il 7/8 giugno 1970 e furono vinte dalla Democrazia Cristiana con il 40,9% dei voti davanti al PCI 23%, PSI 12%, PSDI 7,2%, il consiglio regionale lombardo fu caratterizzato dal moderatismo e dall’understatement, come conferma anche la storia individuale dei presidenti.

I presidenti della regione sono stati tutti democristiani, con personaggi di peso ma limitatamente alla dimensione locale, fino alla fine della prima repubblica. Democristiana è quindi la cultura fondante la regione.

dc_forzaitaliaBassetti (1970/1974), Golfari (1974/1979), Guzzetti (1979/1987), impersonarono, di là dalla loro dichiarazione e forse della loro volontà una gestione prudentissima dell’autonomismo regionale, una politica del fare, una regione come “ente locale di coordinamento”; sul gonfalone avrebbero potuto scriverci: piutost che nient l’è mei piutost.

La regione a guida DC era un polo amministrativo e un centro di potere dove i presidenti sceglievano di stare un passo indietro vuoi rispetto ai colleghi di partito ministri o capocorrenti, vuoi, non del tutto volontariamente, rispetto ai sindaci e in particolare a quelli socialisti milanesi.

Con Tabacci (1987/1989) e Giovenzana (1989/1992), nonostante le aspirazioni da primattore del primo che ancora ieri rivendicava il suo ruolo in regione: “La sanità lombarda ha cambiato faccia negli anni Novanta, con Roberto Formigoni. Quando la governavamo noi democristiani era tutta pubblica, salvo una piccola parte privata. La Lega ha proseguito il lavoro a tal punto che nel 2015 Roberto Maroni ha addirittura equiparato il pubblico al privato”, si avvia il lento declino della DC, logorata prima dalla concorrenza socialista poi dalle vicende giudiziarie e conclusosi nella nascita della seconda repubblica; impersonata in regione dall’elezione di Fiorella Ghilardotti (a tutt’oggi l’unico presidente di “sinistra” 17 mesi in 50 anni) e ancor più dal meritatamente dimenticato primo presidente leghista Paolo Arrigoni (giugno 1994 aprile 1995).

galleraCon l’elezione diretta inizia il periodo formigoniano che dura 18 anni, dal 22 aprile 1995 al marzo 2013.

Il Celeste sconfigge elettoralmente nel 1995 Diego Masi, Francesco Speroni, Pippo Torri, Marco Pannella, Carlo Fatuzzo; nel 2000 Mino Martinazzoli, Benedetto della Vedova, Nerio Nesi, Giorgio Schulze; nel 2005 Riccardo Sarfatti, Gianmario Invernizzi; nel 2010 Filippo Penati, Savino Pezzotta, Vito Crimi (sì, proprio l’attuale leader del movimento pentastellato), Vittorio Agnoletto.

gori-elezioni-regionali-lombardiaUn periodo lungo, un potere notevole, un protagonismo che gli attira l’ammirazione di molti anche in settori che ritroveremo in anni successivi decisamente più a sinistra, ma col senno di poi un ruolo meno determinante di quello che s’immaginava. L’insistenza sullo stesso territorio del padrone del centrodestra Berlusconi, del leader della Lega Bossi nonché il ruolo forte dei sindaci Albertini e Moratti rende anche all’interno del suo schieramento politico il Celeste una figura che fatica ad avere un peso politico paragonabile al peso di potere.

attilio-fontana-regionali-lombardiaL’insuccesso politico del formigonismo è certificato più ancora che dalle sue disgrazie giudiziarie dal fatto che sia stato protagonista dell’avventura di Angelino Alfano e di essere stato un sostenitore dei governi suoi disant di centrosinistra Letta, Renzi, Gentiloni. Ancor più modesta per chi voleva sostituire Berlusconi, la sua ultima avventura quale supporter minore e trombato delle liste di Maurizio Lupi.

penati-2010L’arrivo di Maroni in regione, che non solo è il primo federalista autonomista indipendentista a sedersi sulla poltrona di presidente ma è anche il primo che fa un percorso politico inverso al tradizionale e cioè non da Milano a Roma ma da Roma a Milano (Roma dove è stato ministro degli Interni, un tempo incarico che coronava una vita politica di primo livello, tra i suoi predecessori Scelba, Taviani, Cossiga, Scalfaro, Gava, Napolitano Amato), sembra dare maggiore peso politico alla presidenza, tanto più che porta la lista con il suo nome al 10%, cosa che non era mai riuscita a Formigoni.

Quando a pochi mesi dal successo nel referendum consultivo autonomista, sostenuto anche da non pochi sindaci di sinistra tra cui quello di Bergamo Giorgio Gori, annuncia che non si ricandiderà, mette in scena uno dei più clamorosi e misteriosi colpi di scena della storia elettorale italiana degli ultimi anni.

maroni_formigoniR400La rinuncia di Maroni nel gennaio 2018 per elezioni che si terranno nel marzo porta alla candidatura di Attilio Fontana, pressoché sconosciuto ai più e sembra sancire che il presidente della Lombardia resterà sempre politicamente un minore.

Fontana appare così sbiadito che neppure quando sbaraglia (rammento che tra i due ci sono 1.160.000 voti di differenza, 49,75% versus 29%) il più brillante e affascinante Gori, gli viene riconosciuto un significativo ruolo politico, al massimo un vassallaggio di rango del leader politico lombardo di turno: Salvini.

Così mentre di Sala si vagheggia un futuro nazionale e di Zaia pure, mentre Giorgetti fa e disfa maggioranze e carriere politiche, Fontana sembrava destinato a ripetere i fasti anonimistici di Arrigoni. E invece…arriva il coronavirus.

poster_140x200_okNell’arco di un paio di settimane i cittadini lombardi si rendono conto o per meglio dire sono obbligati a prendere atto che la loro vita è nelle mani della regione e di questo timido avvocato gaffeur; che tutta la magniloquenza milanese fondata sul modello Milano, la secolare convinzione di superiorità amministrativa che risale a quello che Francesco Crispi chiamava lo “Stato di Milano” sono finite.

Mentre Fontana discetta di scelte epocali per la vita di ogni cittadino, il sindaco al massimo può intervenire sugli orari della metropolitana e l’uso della bici elettrica; mentre le dichiarazioni di Fontana e del suo assessore Gallera hanno ascolti degni del mondiale di calcio, Palazzo Marino non buca nemmeno nelle cronache cittadine dei quotidiani cartacei.

Lo shock nella maggioranza di centrosinistra è stato grande; il sindaco si è affannato a cercare con interviste televisive per la verità un po’ ingessate di parare il colpo e di erigersi a interlocutore di volta in volta della regione, del governo, dei partiti ma i suoi interventi di per se stesso non sciocchi, scomparivano di fronte alla drammaticità delle cifre snocciolate da un Gallera (politico di lungo corso essendo stato eletto per la prima volta in una circoscrizione milanese esattamente 30 anni fa nelle liste del Partito Liberale) e comunicavano un malcelato senso di impotenza.

Il PD, colto anch’esso in contropiede e certo non aiutato dalle performance aperitivistiche zingarettiane, ha oscillato tra un sostegno d’ufficio al governo nazionale e il sostegno alle iniziative movimentiste tendenti a ottenere l’improbabile commissariamento della regione.

Lo stesso centrodestra è rimasto spiazzato dall’improvvisa centralità della regione, gli assessori di Fontana fino a ieri abbastanza ignoti e ignorati, divisisi l’onore di sedere televisivamente accanto al divo Gallera, cominciano a essere riconosciuti per strada, insomma festa grande.

Ovviamente la riconoscibilità non significa consenso, anzi…; tuttavia visto che le elezioni milanesi sono in programma per la prossima primavera e che Sala aveva vinto nel 2016 per 17.238 voti, qualche preoccupazione comincia ad affiorare a gauche e qualche appassionato delle primarie comincia a pensare all’opportunità di cambiare cavallo.

Ma la novità maggiore non va cercata nei sondaggi elettorali o nelle fortune di Fontana o Gallera che possono altrettanto rapidamente esaurirsi per non dire capovolgersi. Il coronavirus ha fatto quello che centinaia, migliaia di dibattiti, di articoli, sull’autonomismo, il federalismo, la Padania non erano riusciti a fare: dare un’identità, una popolarità, una visibilità al governo lombardo, al consiglio e alla giunta regionale, stabilire una nuova gerarchia, concretizzare un sorpasso dell’istituzione regione sull’istituzione comune.

Non so se sia un fatto positivo, certamente seppur a caro prezzo miglior compleanno per l’istituzione regione non poteva esserci. La Regione a cinquant’anni è diventata maggiorenne.

Walter Marossi



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  1. Giancarlo LizzeriOddio, spero non basti andare molto in televisione per diventare maggiorenni. Se c'è una regione che è diventata maggiorenne in questi tre mesi si chiama Veneto. Il cui presidente in televisione c'è andato il minimo indispensabile, e del cui bravissimo assessore alla Sanità nessuno ricorda il nome. Mentre il duo Fontana/Gallera stavano tanto in televisione, nel Veneto facevano quasi altrettanti tamponi quanto la Lombardia, pur avendo avuto un decimo dei morti e un quinto dei contagi. Nel Veneto hanno attivato tutta la rete sanitaria, quella territoriale per prima, mentre in Lombardia la rete territoriale è stata ignorata e si è pensato solo agli ospedali (fino a farli schiantare, e comunque facendone subito uno in più, pronto quando non serviva più). Nel Veneto è stata quasi del tutto evitata la catastrofe delle case di cura per anziani, che in Lombardia è avvenuta in modo indiscriminato, senza alcuna tutela, anzi, con alcune tutele gestite al contrario. Ed in Veneto hanno quasi subito salvaguardato il personale sanitario, sapendo quanto era indispensabile e preziosa l'immunità dal contagio di quel personale. Di Fontana qualcuno dice che porta jella. Io spero di no, perchè ce lo dobbiamo tenere ancora per un bel pò. Di Gallera mi par giusto ricordare quel che racconta con orgoglio il suo curriculum ufficiale. Il suo primo incarico pubblico è stato come Assessore ai servizi funebri e cimiteriali del Comune di Milano. Il personaggio ha tutta l'aria di svolgere attualmente con entusiasmo lo stesso incarico per la Regione Lombardia.
    29 aprile 2020 • 14:47Rispondi
  2. luigi caroliComplimenti vivissimi a Giancarlo Lizzeri. Nessuno che avesse letto i precedenti articoli di Marossi ipotizzerebbe che sia stato lui a firmare l'articolo odierno.
    29 aprile 2020 • 22:21Rispondi
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