24 aprile 2020

IN DIFESA DELLA LIBERTÀ DI EMPATIA

Un invito a rimescolare le priorità


Il comunicato stampa del Presidente Conte ha scatenato violente polemiche sulla presunta violazione di libertà di culto, libertà di movimento e altre libertà varie e svariate. Ne è emerso che molti italiani sono più concentrati sul poter vedere o no l’amante che su dove vengano spesi i soldi delle loro tasse.

Foto di Elisa Tremolada

Foto di Elisa Tremolada

Premesso che anch’io ho attraversato diciotto stati emotivi, dalla disperazione al riso convulso, durante la conferenza stampa del Presidente Conte. Premesso che sono così esasperata dalla reclusione che mi metto a urlare almeno due volte al giorno per rilasciare la tensione. Premesso che sono contraria a una politica che si focalizza sulla responsabilità individuale al posto che responsabilizzare le istituzioni – a livello sia nazionale che regionale – che sono i reali, seppur indiretti, colpevoli per la situazione in cui versa il nostro Paese e per i 26mila morti che stiamo piangendo.

Premesso tutto questo, c’è un gigantesco “ma”. In questi giorni in cui siamo privati di tante libertà, mi è venuto inevitabilmente da chiedermi: che cos’è mai, questa libertà? Per alcuni, è la libertà assoluta, garantita, pubblicizzata e glorificata da anni di neoliberismo, di poter fare ciò che si vuole – e tale libertà è tanto più difendibile quanto più vantaggio economico se ne trae (o, ai giorni nostri, se ne potrebbe trarre). Per altri, molti dei quali impegnati da sempre in attività sociali e politiche, “libertà è partecipazione”, è possibilità di manifestare, di scendere per le strade a gridare il proprio dissenso. Anche quando sia la legge che il buonsenso lo vietano.

Per me, almeno per la me ventiduenne, idealista e un po’ svampita che sono ora, libertà è soprattutto possibilità – di esprimersi, di pensare, di (de)ridere, di muoversi. Questa possibilità può essere temporaneamente sospesa, certo – basti pensare oggi alla libertà di muoversi -, per tutti o per alcuni. Ma rimane in noi la coscienza che il libero movimento (inteso all’interno dei confini nazionali) è una possibilità, realizzata e realizzabile.

Se assumessimo più spesso questo punto di vista, forse riusciremmo a renderci conto di quante libertà, quante possibilità ci sono state tolte ben prima che la pandemia mettesse in bella vista i panni sporchi dei vari governi che amministrano il globo.

Abbiamo da tempo rinunciato all’idea che tutti, in città, in campagna o dove diavolo vi pare, abbiano la possibilità di aver soddisfatti i loro diritti fondamentali: casa e salute, per citarne giusto due. Ci dicono che è così, che non può essere altrimenti. Non è possibile neppure rinunciare ai pregiudizi sessisti e razzisti che hanno sostenuto il primato dell’uomo bianco per secoli: “siamo fatti così”, “siete fatte cosà”, non c’è nulla da fare. Mentre mi tolgono la possibilità di pensare, di credere in quella che sì, sarà pure una società utopica ma non è certo una società materialmente “impossibile”, sento le catene che si sovrappongono, e la mia libertà che soffoca.

Non siamo neppure liberi di pensare un mondo senza guerre: anni di indottrinamento militarista1 hanno assimilato il “buonismo”, il qualunquismo al pacifismo, cosicché oggi credere in un mondo dove i conflitti non si risolvono a colpi di droni-sgancia-bombe è, né più né meno, come credere a Babbo Natale.

A tutta quella borghesia – che ho appena offeso chiamandola così – che s’indigna per le restrizioni che ha dovuto e deve osservare, chiedo solo di mettersi nei panni di chi quelle restrizioni (materiali, fisiche, mentali…) le affrontava e le affronta ogni giorno, nella “normalità” e nella pandemia: perché donna, perché di una certa etnia, perché disabile, perché sotto la soglia di povertà, perché immigrato irregolare… Datevi la possibilità, pardon, la libertà di provare se con quei panni addosso non cambia un po’ anche la vostra prospettiva.

Ridimensionatevi, anzi ridimensioniamoci. E poi continuiamo a lottare per la libertà di tutt*: ogni giorno, e non solo quando ci fa comodo, fa notizia o ci fa sentire più “furbi” degli altri.

Elisa Tremolada

1 Il militarismo – più correttamente “militarizzazione” dall’inglese militarization – è stato definito dalla studiosa Cynthia Enloe come un procedimento step-by-step tramite il quale una persona o una cosa finisce gradualmente per essere controllata dall’esercito o finisce per dipendere, per il suo benessere, da idee militaristiche. Fonte: Cynthia Enloe, lezione pubblica alla Westminster University (2016), consultabile cliccando qui.

 



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