16 aprile 2020
IL VIRUS E NOI “ANZIANI”
Un percorso personale ma forse anche di molti altri
16 aprile 2020
Un percorso personale ma forse anche di molti altri
Non è per civetteria che ricordo come nel giugno del 1940, quando l’Italia è entrata in guerra, avevo 4 anni e mezzo e che quindi nell’aprile del 1945, quando per noi finì, ne avevo già 9 e mezzo, abbastanza da aver conservato molti e forti ricordi di tragedie, di stenti, di paure se non di angosce (da queste – se si è stati fortunati e se si è vissuto con adulti maturi e responsabili – si è potuto restare indenni). Anche noi ragazzini sentivamo la prepotente limitazione della libertà, sia personale sia della famiglia e degli amici, con l’Italia divisa in due, la separazione dai parenti, la “guerra civile” che minava la coesione sociale e talvolta persino quella familiare, la paura dei bombardamenti, il coprifuoco, l’assenza di spazio e tempo – anche mentale – per il gioco.
Anche negli anni successivi, fra il ’45 e il ‘48, quando ero ormai alla scuola media, non si parlava d’altro che della guerra e dei disastri che aveva provocato; nella generalità dei casi le condizioni economiche delle famiglie erano molto precarie e difficili e chi, come me, non aveva potuto “sfollare” viveva in una città ancora piena di macerie. Eravamo sì bambini, ma crescevamo con il sentimento di una “tragedia mondiale” che apparteneva ancora alla cronaca più che alla storia.
Non so se ci rendiamo abbastanza conto che la pandemia da Covid-19 sta falcidiando, con noi, la generazione degli ultimi testimoni, autentici e oculari, di quell’epoca e di quell’esperienza. Tra poco nessuno potrà più raccontare la guerra come un vissuto, con i colori vividi dei ricordi personali.
Da allora non è mai più successo nulla che assomigli a quegli anni – ne sono passati “solo” 75 – e per tutti quelli che oggi hanno meno di settant’anni quegli eventi sono solo pezzi di storia, pari alle guerre risorgimentali o alla febbre spagnola. Ne hanno cognizione, ma non “coscienza”.
Per noi “anziani”, dunque, la pandemia di questi giorni è un evento che in qualche modo ci appartiene, la consideriamo parte dei corsi e ricorsi storici, ci fa riaffiorare infiniti ricordi sopiti, ci riporta ai nostri genitori e nonni, ci fa ritrovare le loro parole, i modi e i gesti con cui affrontavano la vita e la rappresentavano a noi bambini; per tutti gli altri, invece, la situazione di questi giorni è praticamente incomprensibile. Inaudita. Inaccettabile. Contronatura. Assurda.
Non è tuttavia questa la sola ragione per cui la mia generazione, al netto del timore di diventare “agnello sacrificale”, sta affrontando la pandemia – e le limitazioni alla libertà ch’essa ci impone – in modo diverso dalla generalità degli umani. Noi “anziani” siamo infatti caratterizzati anche dal sentirci sempre in ritardo, ci affatica la tirannia dell’orologio, ci sembra sempre che le settimane, i mesi e le stagioni volino senza lasciarci il tempo di riflettere, di capire, di approfondire, persino di imparare (quante cose siamo costretti ancora ad apprendere pur non essendone affatto attratti!).
Ed ecco che oggi, almeno a me, non par vero di poter godere la sosta che ci viene imposta e i preziosi momenti di riflessione che ci vengono offerti.
Accade persino di scoprire che la mia naturale pigrizia, incredibilmente, da vizio si trasformi in virtù perché mi fa passare le ore quietamente, senza ansia. Soprattutto accetto la pandemia – il suo fardello di sacrifici, di precauzioni, di paure, di incertezze, la sofferenza per l’isolamento e la solitudine – con spirito molto più lieve di quanto non riescano a fare altri, più giovani, che mi sono vicini. Sono di gran lunga più rassegnato e consapevole dell’ineluttabilità di questo “incidente di percorso”, addirittura sorpreso che sia arrivato solo ora, di essere stato lasciato in pace per tanti anni.
A differenza di chi ha meno di settant’anni, giovani e meno giovani, noi “anziani” ritroviamo in questi giorni di conclamata difficoltà qualcosa di ancestrale, oserei dire di naturale, comunque di ineluttabile, che bene o male appartiene alla nostra natura umana come il terremoto, la cattiva stagione che falcidia il raccolto, il tumore che toglie la vita al nostro prossimo. Non imprechiamo contro l’enormità dell’evento, i sacrifici che ci impone, e nemmeno troppo contro la noia di starcene a casa.
Viviamo queste ore come un’occasione per ricucire la nostra storia, riassumere la nostra vita, metterne insieme l’inizio e la fine – e quindi un percorso – con una bonomia che si allarga agli altri, si distende su tutti, persino sui politici cui tendiamo a perdonare errori ed omissioni. Pur non potendo paragonare la pandemia di oggi alla guerra di ieri, ci sembra che appartengano entrambi alla storia dell’umanità, e dunque alla nostra storia, e siamo in fondo grati alla sorte che – fra l’una e l’altra – ci ha lasciato campare in pace per tre quarti di secolo.
Paolo Viola
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