12 marzo 2020
1917 – 14000 POSTI IN PIÙ NEGLI OSPEDALI MILANESI
L'è el di di Mort, alegher!
12 marzo 2020
L'è el di di Mort, alegher!
Non è la prima volta che Milano si trova in emergenza sanitaria. Dichiarata zona di guerra il 1 dicembre 1917, Milano ha una posizione strategica ed è dotata sin dall’inizio del conflitto di strutture fondamentali per l’assistenza ai feriti e ai mutilati.
La città dispone infatti di una rete capillare di ospedali di riserva e, oltre alle strutture già esistenti ma non sono sufficienti e sin dall’inizio del conflitto viene censita la disponibilità di ogni ospedale, contemplando la possibilità di aumentare i posti letto per fronteggiare eventuali criticità, come accadrà all’indomani di Caporetto quando sulla città si riverserà un incalcolabile numero di feriti militari e di profughi civili. Molte strutture vengono create occupando spesso gli edifici scolastici o, nei momenti di massima emergenza, utilizzando spazi come il Teatro del Popolo e l’Albergo Popolare, a cui si affiancano gli ospedali della Croce Rossa.
Il Corriere del 26 luglio 1915 enumera tra gli altri: Collegio reale delle fanciulle, Collegio Marcelline in via Quadronno e Piazza Tommaseo, Istituto Mantellate, Collegio Leone XIII, Dormitorio popolare, Case popolari Niguarda, Istituto Canossiane, Collegio della Guastalle, Stabilimento Bisleri, Collegio Calchi, Stabilimento Brioschi, Collegio San Celso, Istituto Carlo Cattaneo, Istituto Bassini.
Due anni dopo (Il Corriere della Sera del 20 12 1917) vengono censiti 58 ospedali militari cittadini e 15 in provincia; 9 ospedali territoriali della Croce rossa e 3 in provincia; 43 furono gli ospedali completamente nuovi per circa 10.492 posti letto, da destinare ai feriti trasportati con i treni ospedale dal vicino fronte di guerra.
Una stima approssimativa indica un totale di circa 14.000 posti letto per militari.
L’assistenza sanitaria non riguarda solo i feriti che arrivano dal fronte, ma significa anche riabilitazione e rieducazione dei mutilati: sono fondamentali la ricerca e lo studio sulle protesi e la specializzazione di alcuni ospedali come l’Istituto dei Rachitici, che diventerà uno dei poli più attrezzati per l’ortopedia e la cura degli invalidi; vengono inoltre istituiti alcuni laboratori di riabilitazione lavorativa, con l’intento di garantire ai menomati una discreta autosufficienza
La città registrò un aumento consistente della popolazione residente; dai pochi più dei 600.000 abitanti del 1911 si passò negli anni di guerra a oltre 700.000. Evidentemente le possibilità di impiego nell’industria e nei servizi legati alla mobilitazione bellica avevano attirato molti lombardi (e non solo) nel capoluogo meneghino, enorme impatto sociale prodotto sulla città dall’arrivo di oltre 100.000 persone.
Tra emigrati italiani rimpatriati nell’estate del 1914 dagli stati europei in guerra e i profughi provenienti dalle zone del fronte soprattutto dopo Caporetto, Milano ospitò una numero di migranti pari o superiore a un settimo della sua popolazione. Una prova dunque difficilissima che rimarrà quasi un unicum nella storia milanese. Naturalmente, il costo fu anche di carattere economico. Le spese effettive sostenute dal solo Comune di Milano aumentarono costantemente in termini assoluti passando da 61 milioni di lire nel 1914 a quasi 94 milioni a fine guerra, tra l’altro la lira perse in quegli anni l’80% del suo valore. La fame fu evitata grazie al grano americano ma non mancarono rivolte di piazza con l’assalto a negozi, scioperi e proteste varie che a Torino nel 17 fecero 35 morti. Per avere idea dei numeri nazionali si parla di 651000 militari morti, 589000 feriti, 500000 invalidi riconosciuti.
Snodo principale dell’assistenza sanitaria milanese è l’Ospedale militare di Sant’Ambrogio entrato in funzione fin dai tempi della repubblica Cisalpina per iniziativa dei francesi, fu dismesso nel 1932 per lasciare spazio alla Università Cattolica e venne trasferito a Baggio. Durante la guerra, fu creato un servizio di tram-ambulanze, i quali si dirigevano ai numerosi ospedali militari allestiti per l’occasione, per Sant’Ambrogio fu creato un apposito binario di raccordo che si dipartiva dalla linea tranviaria.
Ma l’esigenza di creare posti letto si sbizzarrì: in Darsena erano operativi i barconi ospedale voluti (per le popolazioni lungo il fiume difficilmente raggiungibili), nel 1897 dalla contessa Eugenia Litta Bolognini Attendolo Sforza, quattro natanti, destinati a funzionare da ospedale da campo galleggiante, nel dicembre del 1915 permetteva di raggiungere Grado collegando direttamente Milano al fronte isontino.
Ovviamente anche in quegli anni si verificò una carenza di personale infermieristico che venne garantita dal personale religioso affiancato dalle infermiere volontarie della Croce Rossa, delle dame della Croce Bianca.
Il personale infermieristico laico salariato era normalmente di basso livello con una formazione che durava poche ore, in condizioni di lavoro pessime (molte infermiere si ammalavano di TBC, o di altre malattie contagiose). Si deve a Ersilia Bronzini Majno, prima donna tra l’altro a essere ammessa nel Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale Maggiore, la proposta per l’istituzione di una Scuola per infermiere, che non senza polemiche tra laici e religiosi venne istituita con sede presso l’Ospedale Ciceri detto Fatebenesorelle (attuale sede dell’A.O. Fatebenefratelli e Oftalmico), che apparteneva al complesso di strutture facenti capo all’Ospedale Maggiore.
Al Prof. Baldo Rossi dell’Ospedale Maggiore di Milano e Maggiore medico della CRI, si deve l‘invenzione degli ospedali da campo.
Il medico dopo aver visitato nei primi mesi del 1915 il fronte si era reso conto delle difficoltà e spesso dell’inutilità di trasferire i feriti dal fronte a Milano e progettò unità mobili chirurgiche dotata del materiale sanitario necessario ad ospedalizzare fino a 100 feriti e completa di tutta la strumentazione chirurgica. L’ospedale poteva contare sulla dotazione di tende e baracche trasportate su sei autocarri (un furgone automobile Fiat 15 ter e 5 camions), cui si poteva aggiungere quello con l’attrezzatura radiologica (autocarro radiografico) e 2 automobili e un carro trainato tipo Gianoli per la sterilizzazione.
Anche i paesi amici vennero in aiuto sanitario alla città, a poche centinaia di metri da piazza del Duomo, all’angolo tra via Cantù e via Armorari, venne istituito l’ospedale della Croce Rossa Americana con pochi posti letto (il terzo piano del palazzo riservato alle infermiere e il quarto alle sedici stanze dei degenti) ma reso famoso dalla degenza di Ernest Hemingway. Oggi una targa lo ricorda.
Grande attenzione venne posta inoltre all’assistenza morale dei soldati e vanno in questo senso le innumerevoli iniziative di “conforto ai feriti”, dove l’azione dei comitati cittadini, per lo più composti da volontari, intesse una rete di attività che spaziano dalla distribuzione del gelato domenicale, ai gruppi di lettrici che operano nelle corsie degli ospedali, ai corsi di alfabetizzazione per i soldati ricoverati.
Ma l’attenzione ai soldati presenti in città non è rivolta esclusivamente ai feriti: posti di ristoro nelle stazioni di passaggio delle truppe in transito, luoghi di incontro come le “sale del soldato” (presenti anche in zone periferiche della città) dove i militari possono trascorrere parte del tempo libero, iniziative speciali rivolte ai soldati in licenza le cui famiglie si trovano nelle zone invase e quindi impossibilitati a far ritorno nei luoghi d’origine fanno parte di quella fittissima rete di iniziative che si avvale dell’attività volontaria di un gran numero di comitati e di semplici cittadini.
La guerra e l’emergenza sanitaria non attenuarono le polemiche politiche. Esemplare la vicenda di Alessandro Schiavi presidente del Consiglio Ospitaliero, braccio destro del sindaco Caldara, il teorico del welfare milanese e del socialismo municipale alla cui azione si devono molte delle istituzioni ancora attive (ma ne parleremo un’altra volta) che nel marzo 1918 fu oggetto di una dura contestazione da parte dei medici dell’Ospedale Maggiore, che scesero persino in sciopero (ma parlavano di disservizio organizzato) per ottenere le sue dimissioni, accusandolo di aver votato a favore di una mozione neutralista alla conferenza socialista di Londra e quindi di essere un disfattista. Il 26 marzo 1918 il Consiglio comunale dedicò una apposita seduta alla questione votando un ordine del giorno a sostegno di Schiavi grazie anche ad una mediazione per cui Schiavi dichiarava (a ragione) “Nulla ho fatto per menomare la resistenza del paese”.
Del resto le polemiche politico culturali erano all’ordine del giorno fin dal 1910 quando erano stati istituiti gli Ordini provinciali dei medici e a Milano aveva trionfato la corrente che Cosmacini definisce dl “socialismo medico” e cioè Luigi Veratti, Paolo Pini, Edoardo Bonardi, Giuseppe Forlanini, Giovanni Allievi, Luigi Carozzi, Francesco Ferrarie capeggiata da Filippetti che divenne poi sindaco della città nel 1920 e duramente contrastata da Luigi Mangiagalli che non a caso sarà il suo successore a palazzo Marino. Nell’agosto 1917 l’intero consiglio dell’ordine è costretto a dimettersi perché accusato di neutralismo “incompatibile con le aspirazioni patriottiche dei medici milanesi”. (G. Cosmacini Salute e medicina a Milano L’Ornitorinco edizioni)
Ma l’emergenza non fu solo per feriti e invalidi militari, già nell’estate/autunno del 1914 la città aveva dovuto fronteggiare una prima emergenza: il ritorno dei moltissimi rimpatriati. Dai paesi belligeranti rientrano infatti i lavoratori italiani, ai quali vengono forniti assistenza e aiuti da due istituzioni che tradizionalmente si occupano di emigranti, la Società Umanitaria (con la Casa degli Emigranti) e l’Opera Pia Bonomelli. Secondo un rapporto proprio dell’Umanitaria, venne fornita assistenza a 100.000 persone in fuga dall’Europa già in guerra.
Nel 1915, era nato il Comitato Lombardo di preparazione alla guerra, per iniziativa dell’ex sindaco liberale Ettore Ponti e di Luigi Mangiagalli con sede in piazza San Sepolcro 9 nel quale confluirono circa una cinquantina di associazioni cittadine. Mettendosi a disposizione della città e dell’amministrazione comunale, forte tra l’altro di una consistente e qualificata partecipazione femminile, l’azione del Comitato si articola soprattutto in soccorsi alle famiglie dei richiamati attraverso la ricerca di un impiego per le donne, assistenza ai bambini, cucine economiche, distribuzione di latte, cure ai soldati mutilati e malati, accoglienza dei profughi.
La Giunta del sindaco Caldara che si era dotata dal maggio 1915 di un’apposita struttura, il Comitato Centrale di assistenza per la guerra, articolato in sette Uffici. La varietà e il gran numero di iniziative messe in campo dai due comitati (spesso in collaborazione tra di loro) contribuisce a costruire una fittissima rete di assistenza ai cittadini che pone Milano all’avanguardia per quantità e qualità dei servizi erogati, tenendo conto che con la rotta di Caporetto, nel giro di quattro settimane, l’amministrazione pubblica e le associazioni cittadine dovettero assistere 75.000 cittadini arrivati in città dalle terre invase.
L’epidemia di spagnola del 1918-1919, che fece in città 10000 morti si inserisce in questo contesto.
Anche allora non mancarono polemiche sull’atteggiamento scanzonato di parte della popolazione la cui migliore descrizione è un poemetto in versi (410): “torno da viale Certosa, torno dal Cimitero in mezzo a un semenzaio di avvinazzati che vociano, di fracassoni che cantano e scherzano in santa pace a braccetto con la ragazza…sotto le pergole si balla, si ride e si tracanna; passano i tram neri di quelli che tornano a casa a mangiare e sbevazzare… allegri ragazzi, che siam fottuti”. La poesia dal titolo Caporetto 1917 è più nota per il sottotitolo: L’è el di di Mort, alegher!
Walter Marossi
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