2 marzo 2020

CORONAVIRUS A MILANO. LE CONDIZIONI DELLA REATTIVITÀ

Come rimettere in piedi una città


PER COMINCIARE: L'autore affronta un tema di stringente attualità: il ruolo della comunicazione in situazioni eccezionali come quella della epidemia da Coronavirus. Milano ha nella sua società civile le risorse per reagire.

rolando

Una premessa sul ruolo della comunicazione L’aspetto della comunicazione di crisi e di emergenza rappresenta un buon terzo dei problemi aperti attorno alla grave vicenda in corso determinata nel mondo intero da Coronavirus. Gli altri due terzi essendo ovviamente da un lato la battaglia tecnico-scientifica, con tutte le implicazioni organizzative e decisionali (enormi ma forse governate da protocolli più chiari); e dall’altro lato il fronteggiamento altrettanto complesso delle infinite crisi economiche che stanno mordendo il PIL e le borse di tutto il mondo.

La comunicazione è trasversale. E da essa dipende la convergenza oppure la conflittualità tra decisori e cittadini. Cioè il rapporto tra comportamenti ed evoluzione della crisi. Lo abbiamo visto in tutti i casi esemplari che si sono susseguiti negli anni per infinite cause (sanitarie, alimentari, alluvionali, telluriche, finanziarie, militari, terroristiche, eccetera). E il tema è diventato preponderante negli ultimi vent’anni, soprattutto in epoca di connessioni di massa velocissime e non tutte intermediate.

Nel quadro di un’assoluta ed evidente necessità di fasatura tra istituzioni e cittadini, conta sempre di più il segmento di questa disciplina che si chiama “comunicazione di reattività”. Cioè quella “di ritorno”, rispetto ai messaggi istituzionali e in generale generati da poteri decisionali (che molte volte non pensano nemmeno che ci sia “un ritorno”).

Se in essa prevale la confusa connotazione di paura e di panico, vuol dire che c’è molto da lavorare per ridurre la portata di incertezza. Se in essa prevalgono “guide”, cioè riconosciuti esponenti della società civile che si fanno carico di interpretare sentimenti diffusi ma anche di sollecitare i decisori a mantenere coerenza e proporre speranza al tempo stesso (ardua impresa, si dirà, ma anche necessaria), la sutura arriva prima. Da qui il grande tema del ruolo dei media in cui agiscono sia guide di questo genere, preparate e responsabili; sia professionisti dell’allarmismo fine a se stesso.

Grazie a questa “sponda terza”, propria di un sistema sociale che contiene solide radici nel civismo, la sutura tra la comunicazione top down (che in casi come quello in atto non ha mancato di conflittualità) e quella, inevitabilmente sparsa e conflittuale che si definisce bottom up, avviene con una facile riprova. Quella del costituirsi – oppure no – di voci ispirate a responsabilità, ma espressione anche di generosità sociale, verso gli altri, verso l’abbassamento della polemica gratuita, soprattutto verso l’accoglienza al formarsi di vecchi e nuovi bisogni.

A poco a poco (viene in mente il Polesine nel ’51, Firenze e l’alluvione del ’67, il Friuli nel terremoto del ’76 e si potrebbe continuare a lungo) il fenomeno reattivo può diventare di massa, verbalizzato, promosso, incanalato, come in certi momenti della storia le masse sanno e possono fare. Questa appare come la condizione generale preliminare per una uscita di sistema anche dalla crisi in corso.

Reazioni ragionevoliNel caso di Milano, sulle prime avevo segnalato lo stordimento della città per una sorta di “violenza” comunicativa delle primissime notizie epidemiologiche. Poi rapidamente avevo anche avvertito che il crescere di un sistema di voci capaci di esprimere reazione ragionevole e soprattutto altruismo generoso, avrebbe anche prodotto una certa neutralizzazione dei rischi di attacchi al brand della città.

Rischi inevitabilmente prodotti dalla notorietà internazionale di certi provvedimenti, come il rinvio del Salone del Mobile e come il prolungamento della chiusura di sport, educazione e spettacoli. A Milano (e non solo) questo fenomeno ha spunti interessanti da segnalare, ma con ipotesi di successo condizionate.

Nell’intervallo tra le due settimane chiave del fronteggiamento al virus – quella trascorsa e quella che comincia oggi – scandito dalle parole inequivoche del presidente Mattarella (“paure irrazionali e immotivate”, “comportamenti senza ragione e senza beneficio”, “propagarsi di teorie antiscientifiche”, “diffondersi di ansie che si sono tramutate in comportamenti autolesionisti”) – si è ora a un momento cruciale di questo passaggio. Probabilmente le misure resteranno in atto e tuttavia molte voci si vanno esprimendo per segnalare la mobilitazione contro la rassegnazione (Sergio Escobar piuttosto che Andrèe Ruth Shammah non hanno solo posto il tema del mancato incasso, ma anche e soprattutto del restituire alla cultura l’emozionalità critica che essa produce).

Ciò è importante ma non sufficiente, circa il tema del ribaltamento di immagine della città nel suo complesso.

Ci aiutano allora una dopo l’altra le interviste di esponenti della vecchia guardia “milanese e lombarda” diverse per personalità ma assai simili per culture ed esperienze, come Piero Bassetti e Giuseppe Guzzetti. Entrambi raccontano storie rivolte ad un serio passato di resilienza della città, entrambi conoscono la radice ben piantata del “senso del dovere”, entrambi hanno visto in faccia momenti di grave crisi superati prima e bene da questo nord che non primeggia solo per i soldi ma anche per valori civili (loro stessi lanciano questa distinzione).

Che la Milano di oggi sia ancora quella dell’Umanitaria originaria, dei Martinitt che non ci sono più o del Trivulzio che è forse altra cosa, non lo pensiamo più. A volte si fatica a vedere davvero la solidarietà. Ma resta ancora ragionevole pensare che la nuova industria della conoscenza sa sommarsi all’accoglienza del turn over del lavoro gestita senza padrini e assistenzialismi per riconoscere tratti di quelle vecchie storie.

Infatti nei manuali di comunicazione di crisi, il rischio viene sempre considerato anche un produttore di opportunità. Non solo di lucro, ma soprattutto di metodo, di reingegnerizzazione, di ripensamento.

Non solo per interesse economicoQui sta il punto. Come rimettere in piedi non solo la reattività degli interessi economici – che è argomento pienamente legittimo, che lo stesso sindaco Beppe Sala ha sposato presto e che non è argomento secondario – ma anche quel vecchio sentimento che ha preso forma nello stereotipo milanese del “coeur in man”.

Esso non è solo stereotipo e non è sola immagine. Ma deve declinarsi presto nella riorganizzazione di un sociale laico, pubblico e privato, che fedele a se stesso e non strettamente agli interessi, si esprima attorno ad alcune modernità valoriali. Al moderno modo di concepire la beneficienza (non alibi ma leva). Al moderno modo di svolgere spiegazione pubblica della complessità degli eventi (qui al più presto coinvolgendo sistema educativo, cultura e università). Al moderno modo di intercettare l’ampliamento della fascia delle difficoltà e non pensare che gli aiuti verranno dall’alto. Al moderno modo di trarne esperienze di innovazione. Al moderno modo comunicativo e sociale di valorizzare il lavoro straordinario e rischioso che medici e infermieri stanno svolgendo. Aggiungo: al moderno modo di ergere barriere contro le speculazioni politiche e affaristiche che si vanno affacciando dall’inizio di questa crisi con la necessità di essere riconosciute come tali e segnalate per una presa di distanza netta.

Ci sono moltissimi luoghi a Milano, in Lombardia e in tutta Italia, in cui queste culture sono vita vissuta al presente. Esse vanno ascoltate così come si sta ascoltando la comunità scientifica. Tavoli di pari importanza. Vanno tenute in rete in tempo reale. E’ l’unico modo serio per avere l’intermediazione necessaria a modulare i comportamenti sociali verso questa tendenza alla reattività ragionevole.

Ciò detto, servirà anche tenere a mente le storie. Si è parlato (anch’io ne ho parlato) dell’illuminante racconto della peste che il Manzoni fa nei Promessi Sposi e nella Storia della colonna infame. Non ci fu solo la durezza drastica dei tribunali e il furore contro gli appestati. Ci fu anche (si veda il meno citato capitolo XXXII dei Promessi Sposi) la visione generosa e altruista del cardinal Federigo che impose al clero milanese di dare assistenza diretta agli appestati. Non ci furono defezioni. I don Abbondio furono la minoranza.

Ciò costò l’80% di decessi nel clero stesso in quella vicenda che in tre anni sterminò un quarto dei milanesi e un quarto della popolazione settentrionale. Parliamoci chiaro, il coeur in man non è mai gratuito. Ma oggi viviamo un tempo in cui la sicurezza è enormemente più protetta dalle leggi e dalle tecnologie. E in cui la necessità di dar vita ad un civismo di relazione finisce per essere un investimento.

Stefano Rolando



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