23 gennaio 2020

UNA INTENSA SETTIMANA DI MUSICA

Roberto Abbado al Conservatorio e Beethoven su un campo da tennis


Viola

L’evento più significativo di questa settimana milanese è stata la presenza di Roberto Abbado sul podio della Sala Verdi del Conservatorio – di cui fu allievo e di cui fu direttore per più di vent’anni suo padre Marcello – alla guida dell’Orchestra Sinfonica costituita dai migliori allievi di quella scuola, per un concerto a sostegno della benemerita associazione “Diamo il la” di cui abbiamo riferito più volte in questa rubrica. Un concerto molto speciale, non solo per l’alta qualità delle esecuzioni, di cui diremo, ma per lo straordinario flusso di energia positiva, di freschezza e di entusiasmo che avvolgeva tutti, musicisti e pubblico, in una sala affollata soprattutto da giovani; sopraffatti da un’ondata di energia che non aveva nulla da invidiare alle sardine bolognesi!

Un grande direttore non lo si riconosce tanto quando è sul podio di orchestre celebri e consolidate da anni ed anni di esperienza ma – al contrario – quando riesce ad ottenere prestazioni di grande livello da orchestre di formazione recente, composte da giovani con ancora scarsa esperienza.

Dirigere un’orchestra di diplomandi o di neo diplomati, con età media intorno ai vent’anni, che si riuniscono solo per cinque o sei concerti all’anno, ed ottenere da questi ragazzi una prestazione che diremmo perfetta – non solo per la preparazione e la disciplina degli strumentisti ma per come aderiscono ai suggerimenti provenienti dal podio, mettendoci una quantità di passione commovente – questa è grandissima professionalità e capacità direttoriale.

Iniziato con una lettura possente e appassionata della ouverture dell’Egmont opera 84, il concerto aveva come pezzo centrale, sempre di Beethoven, il Concerto numero 3 per pianoforte e orchestra in do minore opera 37, eseguito al pianoforte da Federico Gad Crema, pianista ventenne anch’egli allievo del Conservatorio milanese. Lucidissimo, dalle idee molto chiare e fortemente determinato, ha saputo dialogare elegantemente con Abbado, che lo ha sostenuto con grande e generosa attenzione, peccando solo (ma aiutato da una partitura che premia decisamente il solista rispetto all’orchestra) di un lieve eccesso di protagonismo. Superata brillantemente e con invidiabile disinvoltura l’esecuzione della lunga e difficile cadenza prossima alla conclusione del primo movimento, il giovane pianista si è rilevato particolarmente profondo ed incisivo nel poetico incipit dell’Andante sostenuto che Beethoven vuole eseguito dal solo strumento solista, per poi portare a termine il concerto con ammirevole sicurezza. Bravo, applausi intensi e meritatissimi.

Abbado però doveva ancora dare il meglio di sé e infatti, dopo l’intervallo, ci ha apparecchiato una sontuosa Sinfonia – la numero 1 in do minore opera 68 di Brahms – da togliere il fiato. Quando, nel quarto movimento, finalmente compare il tema cantabile in Allegro affidato agli archi (Rostand dice “quel largo affluire dell’Allegro, simile a un inno, che proclama il trionfo su ogni paura ed ogni pena”), Abbado abbandona la bacchetta sul leggío e – come se passasse da un’orchestra a un coro – a mani nude incoraggia il canto a dispiegarsi e ad esprimere tutta la commozione da cui è intriso.

Esecuzione magica, attentissima, senza una sbavatura, in cui si percepiva come tutti in orchestra dessero il massimo, con una concentrazione ed una passione che raramente si riscontrano nelle orchestre più consumate; alla fine avremmo voluto riascoltarla daccapo. Un vero miracolo che da una parte ci rende orgogliosi di avere direttori italiani e milanesi di tanta grandezza, dall’altra ci fa pentire delle banali generalizzazioni sulle qualità dei giovani di oggi e sulla loro capacità di dialogare intimamente con maestri di un’altra generazione. Quanti pregiudizi…

***

Dicevamo che la settimana musicale è stata intensa anche perché nel tennis di Villa Necchi Campiglio, ormai ben noto ai musicomani milanesi, è iniziata l’esecuzione integrale delle Sonate per pianoforte di Beethoven. Il 2020, come abbiamo detto la settimana scorsa, è l’anno del 250° anniversario della sua nascita, e il caro Ludwig ce lo ritroveremo anche nel letto!

Questa integrale, chiamata graziosamente “Beethovenmania”, si sviluppa in 7 concerti pomeridiani del sabato (saranno 8 con quello di Filippo Gorini dedicato alle “Variazioni Diabelli”, l’opera 120) affidati dal direttore artistico Paolo Arcà a tre eccellenti pianisti – Andrea Lucchesini, Gabriele Carcano e Pietro De Maria – che si alterneranno dopo essersi divisi le 32 Sonate in gruppi di 3/4/5 per volta ma in maniera del tutto inusuale: nessun ordine cronologico, nessuna relazione fra le tonalità, in ogni concerto si trovano Sonate di tutti i periodi beethoveniani, forse si è tentato di distribuire in modo equilibrato i “pesi” delle singole Sonate per avere concerti tutti di “peso” analogo. Il risultato, almeno dalle due prime tornate, affidate a Lucchesini e a Carcano, è sembrato ottimo.

Più discutibile, invece, ancorché apparentemente fascinosa, l’idea di sistemare il pianoforte su un alto praticabile al centro della sala-campo-da-tennis, in modo da permettere a tutto il pubblico di ascoltare e vedere bene il pianista. Il quale però, ha l’aria di essere un po’ a disagio in quella collocazione, anche perché l’aver allontanato lo strumento dal grande pannello che si trova a fondo sala penalizza non poco l’acustica già traballante di quel luogo, peraltro delizioso da molti altri punti di vista.

I primi concerti li abbiamo ascoltati negli ultimi due weekend, gli altri si terranno alle ore 17 dei sabati 8, 22 e 29 febbraio, 14 e 21 marzo, e si concluderanno con la meravigliosa, ultima opera 111, il 4 aprile. Il 19 abbiamo sentito Lucchesini eseguire cinque Sonate fra cui la “Quasi una Fantasia”, opera 27 numero 2, impropriamente chiamata “Chiaro di luna”, e la prima della triade finale, l’opera 109 in mi maggiore. Il 25 è stata la volta di Carcano con 4 Sonate fra cui l’opera 26 (la famosa “Marcia funebre”) e la ancor più famosa opera 57 soprannominata “Appassionata”.

Che dire di questi due concerti? Spiace dirlo ma, fermo restando l’innegabile alto magistero dei due interpreti, c’è stato qualcosa che non ha funzionato bene. Tempi smodatamente veloci negli Allegri (vedi l’ultimo tempo dell’opera 27), spesso eccessivi i forti e i fortissimi (sarà stata l’acustica?), poco ispirato il magico incipit dell’opera 31 numero 2, scarsa pietas nella Marcia Funebre, un virtuosismo troppo esibito nell’Appassionata e così via. Lo sappiamo, ogni concerto è una scommessa, non tutti riescono come si vorrebbe, a prescindere dalla grandezza degli interpreti. C’è solo da domandarsi se, come dicevamo, c’è un problema nella disposizione del pianoforte in quella sala. Lo capiremo nei prossimi concerti. Come si fa, comunque, a perdere una integrale delle Sonate di Beethoven?

Paolo Viola



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  1. Andrea silipouna recensione che fa rimpiangere di non aver potuto esserci...
    29 gennaio 2020 • 09:56Rispondi
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