16 dicembre 2019

“Q” COME RIVOLUZIONE

Tante verità in un solo romanzo


“Q”, libro firmato con lo pseudonimo Luther Blissett dal collettivo Wu Ming, è uscito vent’anni fa, nel 1999. Questo romanzo storico ambientato nel 1500, secolo di grandi rivoluzioni come quella luterana, spinge a riflessioni che vanno oltre la materia trattata: cos’è una rivoluzione? In un altro secolo di presunte rivoluzioni come il nostro, pare il momento di fermarsi a pensarci.

Tremolada_17.12Sono molti gli eventi storici che portano, per merito o per convenienza, il nome di rivoluzioni. Forse anche le ultime elezioni nel Regno Unito – 12 dicembre, landslide victory dei Tories di Boris Johnson con risultati che non si vedevano dal 1987 – saranno annoverate tra queste “date chiave” tra una trentina d’anni.

Di rivoluzioni si parla spesso, troppo spesso, praticamente ogni volta che a questo o quel politico fa comodo alludere ad un imminente “stacco” con quel passato imperfetto che le attuali istituzioni incarnano, un passato contro il quale si vuole scatenare la furia cieca di una popolazione frustrata dall’inefficienza del suo Stato. Penso a tutti i partiti transitati al governo in quest’anno che ormai volge al termine.

Non si parla altrettanto spesso del concetto di rivoluzione, di cosa significhi in sè, al di là delle date e degli eventi memorizzati sui banchi di scuola ad evocarne, “di pancia”, il contenuto.

È l’ormai lontano 1999; un collettivo che si firma con un nome inglese (Luther Blissett), ma ne sceglierà poi uno cinese (Wu Ming, letteralmente anonimato), pubblica il suo primo libro, un romanzo intitolato “Q”. Con questo libro tenta l’ardua impresa di spogliare il concetto di “rivoluzione” di tutto il suo abbigliamento storico-sociale. A mio modo di vedere ci riesce, e con una finezza, nella ricostruzione storica come nell’interpretazione sociologica, quasi altrove introvabile.

Chi avesse già sentito parlare di questo romanzo potrebbe ora essere un tantino perplesso: Q non è forse un romanzo storico? Certo, ma racconta una storia particolare (nel senso letterale di questo termine, che indica il “piccolo”) calata nel contesto di quelle rivoluzioni generali – nell’ordine, luterana, anabattista e la reazione della Santa Inquisizione a queste ultime –, “grandi” che tutti già conosciamo, almeno di nome.

È la storia, intrigante fino all’ultima riga, dello scontro tra chi vuol fare le rivoluzioni dal basso (il protagonista dai mille nomi) e chi le porta avanti dall’alto, cioè Q, Qoèlet, il delatore o, come suggerisce il suo nome, il disilluso. Un rivoltoso e una spia. Un susseguirsi di colpi di scena, forse aiutati ad emergere dalla scrittura “a più mani” ma non per questo meno riusciti, di rivolgimenti di fortuna, di tradimenti e nuove alleanze che non ha nulla da invidiare ad altri pilastri del genere.

Ma “Q” non è solo trama; anzi. Leggendolo, si ha la netta sensazione che sia stato scritto e composto con un intento divulgativo che va ben al di là della semplice informazione storica (pure tanto curata da meritarsi una mostra dedicata nella storica sede dell’Università di Bologna, purtroppo già terminata).

L’intento è di rianimare uno spirito critico annoiato, sopito, spento dall’apparente benessere delle società occidentali. Vent’anni fa, questo spirito critico era dagli autori considerato così importante (o così addormentato) che gli furono dedicate circa 650 pagine; oggi, questo tomo pare una risorsa fondamentale per tenere testa alla mole di informazioni e opinioni che ci viene quotidianamente data da digerire nell’era digitale. Soprattutto quando si usa, a sproposito, la parola “rivoluzione”.

Un mio vecchio professore di filosofia (con cui la pagina Wikipedia “rivoluzione”, a quanto pare, è d’accordo) mi aveva spiegato che la differenza tra una rivolta e una rivoluzione sta in questo: se la rivolta è un’insurrezione spontanea, senza capi e programmi, la rivoluzione è un processo guidato da un’idea, che si cristallizza poi in nuove norme sociali e culturali.

Ho affermato che gli autori di “Q” sono stati in grado di comunicare efficacemente una delle possibili (a dire il vero, per me, l’unica) definizioni di rivoluzione che è questa: il concetto di rivoluzione, la rivoluzione “pura”, non esiste. Una non-definizione, se vogliamo, un sollevamento del velo di Maya che ci convince sia possibile creare cambiamento senza conflitto. Le rivoluzioni non esistono se non in retrospettiva, guardando ad un passato idealizzato e incasellato; i rivoluzionari, che vengano dall’alto o dal basso, non possono agire solo per un’idea né del tutto senza di essa. Sbagliano, torturano, uccidono, censurano e a chi viene dopo resta da giudicare se ne è valsa la pena.

Ovunque nel mondo le popolazioni insorgono rivendicando il diritto di non avere bandiera, di rifiutare il sistema tout court. Riflettere su cosa sia una rivoluzione, se questi anni potranno definirsi tali, non significa assumere un atteggiamento di passiva osservazione. Al contrario, significa chiedersi perché, in alcune istanze storiche, ciò che era visto come “buono” (esempio a caso: la comunanza dei beni dei francescani, dell’anabattismo etc.) sia poi diventato “cattivo” (il comunismo dell’Unione Sovietica); come sia stato possibile questo rivolgimento di coscienze; e che ruolo possa avere un simile fenomeno quando ci troviamo a giudicare il nostro presente. Vuol dire capire le regole del gioco, prima di alzarsi dal tavolo.

Rivoluzioni e spirito critico si creano e si nutrono a vicenda: senza chi critica, chi contesta, non avremmo cambiamento ma senza i cambiamenti, gran parte di chi viene travolto dai risultati di tali “rivoluzioni” non svilupperebbe delle opinioni sull’ordine presente e passato delle cose. In parole povere: finché non verrai convinta a farti bionda, non avrai la certezza che sia meglio essere bruna.

Comprendere che i messaggi semplici (“Brexit means Brexit”, “L’Italia agli Italiani”, “Make America Great Again” e così via…), che inneggiano a un futuro incontaminato dalle imperfezioni del presente, sono falsi per definizione e non solo in casi isolati – Boris e Donald – è il grande risultato a cui porta la lettura di questo libro.

Il suo grande difetto è che, come il Qoèlet del titolo, anche il lettore si senta un po’ perso alla fine di questo magnum opus: se le rivoluzioni non sono mai tali, se il sistema resta lo stesso, se le gerarchie si rinnovano ma non crollano: perché lottare?

We’ve come full circle, direbbero gli inglesi: torniamo all’inizio. Bisogna lottare perché siamo, anche se “piccoli”, dotati di spirito critico ed è doveroso, almeno quando se ne ha la possibilità (c’è chi vive sotto regimi che quest’opportunità l’hanno da tempo eliminata), esercitarlo.

Perché dietro le svolte storiche, quelle riassunte nella data di una “rivoluzione”, ci sono tanti piccoli uomini che fanno delle scelte. Scelte che non sono tutte uguali: “Tu hai combattuto la guerra di un altro, hai obbedito agli ordini, hai svolto una parte nel suo piano. Hai servito tutta la vita, per un fine di cui non ti è nemmeno concesso di vedere il compimento: questa è la tua sconfitta1.

Elisa Tremolada

1Q, Luther Blissett, ed. Feltrinelli, pag. 622

 

Credits:
Q, Luther Blissett, ed. Feltrinelli
Scaricabile gratuitamente dal sito del collettivo Wu Ming: https://www.wumingfoundation.com/giap/



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  1. GiovanniSì, il punto è uomini che fanno scelte, pure quelli che le fanno nella consapevolezza che ‘rivoluzione’ è parola presa dal moto dei pianeti, rivoluzione, un corpo celeste che fa un giro e torna esattamente nello stesso punto di partenza: rivoluzione.
    18 dicembre 2019 • 10:09Rispondi
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