9 dicembre 2019
RICORDO DI ANTONIO MONESTIROLI
Un architetto e un docente milanese
Ho un ricordo affermativo, cioè chiaro e privo di contrasti, e positivo (nel senso dei valori che proseguono) di Antonio Monestiroli. Anzitutto ricordo di momenti vivi personali; incontri veneziani e novaresi, oltre che milanesi all’Università. Incontri che significavano per me un punto di equilibrio. Anche il ricordo più oggettivo conserva per me questo senso, se è vero, come credo, che Monestiroli architetto e docente abbia interpretato al meglio un certo mondo – dentro e fuori la Scuola di architettura – che tali doti di equilibrio richiamava e chiedeva.
E’ stato, dal 2000 al 2008 Preside della Facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano: la seconda Facoltà di Architettura che ha trovato luogo e occasioni di scambio alla Bovisa, che oggi non c’è più. Così come non c’è forse più una scuola generalista, che tende a fondare la conoscenza non sulla base di presunte specialità, ma dall’operativo.
E’ chiaro che non c’è più questa scuola anche e soprattutto per le proprie debolezze interne. Non c’è dubbio che Monestiroli, in quegli anni, di quelle debolezze ne sia stato consapevole ed abbia cercato – facendo di necessità virtù – di sorreggerle e superarle con le diverse “aperture” delle quali era capace.
Aperture concettuali anzitutto, cercando di togliere gli steccati che la deformata accademica del sapere cerca di formare attorno al proprio “orto” conoscitivo e operativo. Aperture alle altrui esperienze, alle altre idee, senza dimenticare che queste si concentrano e si fanno chiare in forma sintetica nell’espressione e nell’opera dei maestri. Da qui i suoi lavori su Ignazio Gardella, su Aldo Rossi e altri.
Nello stesso tempo e in modo trasversale – e questa volta anche nel lavoro di progettazione e nella “ragione” o significato dei disegni e degli edifici – il suo discorso, così come la sua didattica, a partire da quei fuochi si facevano inclusivi, lineari ed espliciti in quella semplicità che è conquista: resa pubblica attraverso gli altri suoi scritti. Mentre nei suoi modelli la sua architettura si semplificava impreziosendosi, così definita in una silenziosa eloquenza.
La tensione tra le cose e le forze diventava per lui equilibrio, perché aveva scoperto e scandagliato un mondo che avrebbe potuto accettarlo e comprenderlo. Un mondo difficile peraltro, da pochi interpretato o vissuto, che definirei “un mondo di mezzo”.
Per brevità riduco questo mondo e il sentimento o significato di esso, all’ambito della Facoltà di Architettura milanese a partire dagli anni ’60 del secolo passato: risalendo, per così dire, alle solide basi formative del giovane Antonio.
La Facoltà di architettura di Milano ebbe in quegli anni (e l’onda lunga di questi la si insegue ancora) due decisivi momenti di rinnovamento, legati al contesto culturale più vasto e generale: l’uno all’inizio di quegli anni, inverato dagli studenti, ma trascinato dal valore di personalità come Ernesto Rogers, capaci di coinvolgere giovani risorse; l’altro alla fine di quelli, quando fu il protagonismo degli studenti in grado di trasformare l’assetto produttivo degli studi. E trasformarlo rompendo prima di tutto il codice esistente dei programmi, delle discipline e delle materie nei loro rapporti costituiti nell’ordine degli studi, che rigidamente copriva le reali vocazioni e tendenze, impedendo la libera formazione – nel contraddittorio – della cultura della città. Libertà di insegnamento e libertà di apprendimento.
Antonio visse in pieno e da protagonista il primo di questi momenti e seppe affiancare e sostenere, orami docente, quelli del secondo momento (la cosiddetta Sperimentazione del 1967-68) come i più giovani Giovanni Di Maio e i tanti altri che vi si impegnarono. Sostegno positivo e creativo voglio dire: trasferendo nelle nuove esperienze, e arricchendole, il frutto delle precedenti.
Senza quel “mondo di mezzo” in grado di collegare, mettere a frutto e proiettare tali momenti fondativi, non avremmo potuto tenere la lunga durata di essi e tutto sarebbe stato effimero. Punto di equilibrio e lunga durata.
Certo, diversi errori e molte crisi successive hanno tolto linearità e involuto di contraddizioni un possibile percorso. Ma se quei valori ancora sono vivi e riconoscibili, magari solo come la ginestra nel deserto vesuviano, lo si deve in larga misura ai cultori di quel “mondo di mezzo” che crea collegamenti e prospettive: e ai suoi più attenti interpreti come Antonio Monestiroli.
E’ un mondo che sarà pienamente nel mezzo – cioè decisivo e ineliminabile – anche delle cose che ancora devono venire: e possibilmente avvenire.
Cristoforo Bono