18 maggio 2021

TRANSIZIONE ECOLOGICA: UMANA O DISUMANA?

Nuovi spazi e architetture milanesi


Gli esseri umani non sono i soli abitanti del mondo, coabitano con altre creature, di cui occorre riconoscere i diritti, pena la scomparsa degli uni e degli altri. Per questo, come rivendica giustamente un largo movimento d’opinione, è fondamentale lasciarci alle spalle l’opposizione, prevalente nel pensiero occidentale, tra società e ambiente naturale, tra cultura e natura, tra la persona umana e gli altri enti, che ha giustificato il dominio e lo sfruttamento degli esseri umani su tutti gli altri, terra compresa. Sacrosanto, quindi, rivolgere lo sguardo all’ecologia, a patto però che quest’ultima non dimentichi che l’essere umano fa parte dell’ecosistema terrestre quanto le piante, gli animali, il suolo, l’acqua e l’aria.

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LA VERDOLATRIA: UNA DISTOPIA DISURBANA

Se occorre prendere le distanze dall’antropocentrismo della cultura occidentale, allo stesso tempo bisogna evitare i fondamentalismi dell’ecologismo, a cominciare dalla sua verdolatria.

In nome della difesa ecologica dello spazio terrestre, una indiscriminata diffusione del verde può contribuire a snaturare quell’incredibile invenzione umana, che si chiama spazio urbano: «lo spazio civile», unità inscindibile di civitas e urbs, «spazio sui generis nuovissimo – come lo ha definito Josè Ortega y Gasset – in cui l’uomo si affranca da ogni comunione con la pianta e l’animale, li lascia fuori e crea un ambito a parte puramente umano»(1). Un patrimonio imperdibile a cui è legata la costruzione di tanta parte del nostro migliore umanesimo.

Gli alberi – è vero – sono il mezzo più semplice che abbiamo a disposizione per sottrarre CO2 all’atmosfera e frenare il riscaldamento del pianeta con i suoi devastanti effetti. Difendere gli alberi dove esistono e aumentarne il numero è sicuramente un’azione da perseguire senza indugi. Ma dove diffonderli? Non basta rispondere «dove scarseggiano». In città per esempio scarseggiano, ma non per questo possono essere piantumati ovunque, dimenticando che la specifica natura della città richiede che essa sia sostenibile socialmente e umanamente oltre che ecologicamente.

Sconnettere il tessuto compatto della tradizione urbana demolendo edifici giudicati insostenibili per aprire varchi da piantumare e insieme poterli ricostruire con volumetrie più alte rispetto al contesto con la scusa di essere ecologici, non solo rischierebbe di compromettere l’integrità organica propria del corpo fisico della città e il suo essere un «impareggiabile serbatoio di sapienza e di esperienza»(2)per la civiltà dell’abitare, ma contribuirebbe a dissolvere anche l’immagine del paesaggio urbano che si è storicamente radicata nell’esperienza di mondo di tantissimi esseri umani: un bene comune – non certo solo del mondo occidentale – da difendere al pari di tante altri beni, culturali e naturali, divenendo fonte, se violentato, di regressione civile oltre che di disorientamento e sofferenza.

Lo stesso disagio si produrrebbe quando ci si mettesse a costruire le nuove case e a rigenerare le vecchie con «tetti e pareti verdi», come da più parti viene auspicato, compreso il nuovo Piano di governo del territorio per Milano 2030. Se la vegetazione si impossessasse del volto degli edifici, si creerebbero infatti paradossalmente ambienti capaci di evocare i paesaggi di rovine tipici dei luoghi abbandonati, inselvatichiti: ambienti inquietanti da day after, non certo adatti per degli spazi urbani.

L’effetto spaesante per l’umano non si ridurrebbe se l’edilizia optasse per l’ibrida sintassi dei boschi verticali, così lontani dalle forme tipiche delle case cittadine, così refrattari, nel loro individualistico disporsi, a tessere dialoghi civili capaci di reinventare il sistema di quegli spazi aperti pubblici – essenzialmente internità a cielo aperto – su cui ancora si fonda gran parte dell’identità e della bellezza delle città, senza contare la loro insostenibilità sociale, inaccessibili come sono a chi non dispone di redditi milionari capaci di reggere gli altissimi costi che li caratterizza.

Dove dunque distribuire gli alberi in città? Limitandoci a Milano: sicuramente dove già esistono, nei parchi, nei giardini, nei viali e nei grandi spazi liberati dagli scali ferroviari, oltre che nelle aree di margine non ancora edificate a sostegno dell’agricoltura periurbana. Potrebbero essere piantumati anche in molti cortili, ma non in tutte le strade e non in tutte le piazze. Andrebbero infatti sempre escluse le strade e le piazze che presentano una consolidata qualità spaziale e architettonica e che sono state concepite per essere lasciate libere da vegetazione.

Nessun albero, quindi, in Piazza del Duomo, in via Orefici, in largo Cordusio, in via Dante, in largo Cairoli, come Renzo Piano aveva avanzato nel 2009 per rispondere entro il 2010 al desiderio di Claudio Abbado che, dei 90.000 alberi da piantumare a Milano dal maestro richiesti come cachet per tornare alla Scala, una parte andasse subito ad alberare il centro storico.(3) .

Nel cuore antico, una delle poche piazze che potrebbero essere alberate senza danni è piazza Fontana. Violentata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, privata degli edifici che la rendevano una internità a cielo aperto, è da più di cinquant’anni in attesa di una soluzione che le restituisca l’armonia d’insieme perduta. Anche senza la ricostruzione dei fronti che la delimitavano e che lasciavano solo intravedere il Palazzo dei Giureconsulti, secondo quanto previsto dal piano del 1947, basterebbero i ciliegi proposti a suo tempo da Gino Pollini a medicare almeno la ferita e a impedire che protagonista dello spazio risulti essere l’informe, grossolana aiuola antistante il Palazzo e non la delicata fontana dal Piermarini concepita per dare senso e valore alla trasformazione del preesistente verziere in una piazza.

Quanto alle strade del centro che potrebbero accogliere un doppio filare di alberi, e trarne un miglioramento, l’unica è via Larga: l’alberatura consentirebbe di trasformare in un gradevole viale uno stradone fuori misura, esito della devastante “Racchetta” prevista dal piano del 1934, confermata dal piano altrettanto vandalico del 1947, e solo negli anni sessanta sospesa e bloccata in piazza Missori, dopo avere ridotto a misero rudere la chiesa romanica di San Giovanni in Conca.

Sempre in centro andrebbero poi restaurati e arricchiti, oltre a quelli pubblici, i giardini interni privati, ancora numerosi, che hanno fatto e continuano a fare il fascino segreto di Milano. Allo stesso modo si potrebbe favorire l’alberatura delle corti degli isolati otto novecenteschi della città compatta disegnati dal piano Beruto e Pavia Masera nei casi in cui sono sopravvissute integre. Oppure sollecitare a questo scopo la loro ricomposizione laddove risultano suddivise o abusivamente occupate da funzioni improprie: stanno nascendo negli spazi comuni di molti caseggiati le biblioteche di condominio(4); perché non pensare di promuovere e sostenere anche la nascita di giardini condominiali nei cortili?

In questa parte di città, oltre ai viali e alle vie alberate numerose ed essenzialmente da conservare, sono più d’una le strade che, senza bisogno di vasi, quasi sempre ricettacolo di sporcizia, avrebbero la possibilità di essere riscattate facilmente con un filare di alberi e competere per bellezza con le vie e i loro mirabili bagolari dell’asse Eustachi, Castel Morone, Bronzetti, Cadore, Tiraboschi.

Due esempi tra i tanti: la lunga via Porpora, della quale il comitato “Verde Porpora” chiede l’alberatura da piazza Loreto a Piazza Gobetti, e il percorso Ramazzini, Pisacane, Fiamma, Morosini. Gli alberi trasformerebbero la sua ampia sezione stradale, che costringe le cortine, non sempre memorabili, ad esibirsi al giudizio impietoso dell’occhio, in un percorso ombroso utile a connettere in un unico sistema verde anche le presenze, oggi scollegate, che rinviano alla tradizione religiosa della città: il monumento a San Francesco d’Assisi di piazza Risorgimento, da un lato, la Chiesa di Santa Maria del Suffragio con la piazza omonima, dall’altro.

Ma tra i grandi assi del tessuto berutiano non si dovrebbe dimenticare di alberare viale Tunisia in prosecuzione dei noci neri di viale Regina Giovanna. In tal modo il tracciato urbano ottenuto come una ricompensa dalla demolizione del rilevato ferroviario, che nel 1861 aveva violentato il grande recinto del Lazzaretto, avrebbe finalmente una maggiore e più degna riconoscibilità.

Per il resto, sono soprattutto le sfilacciate strade di periferia a chiedere con urgenza di essere ridisegnate dalle alberature. In particolare ne hanno bisogno i quartieri popolari a edilizia aperta. Gli alberi, in questo caso, oltre a migliorare l’aria e il clima funzionerebbero da connettivo verde tra gli edifici, in grado, come al QT8 e al quartiere Feltre, di far percepire l’estetica d’assieme dell’insediamento come un organismo unitario, armonico, composto di parti tra loro dialoganti secondo la migliore tradizione urbana, in sostanza come un organismo foriero anch’esso di bellezza civile e come tale accogliente per la presenza umana.

IL BISOGNO DISATTESO DI BELLEZZA CIVILE

Uno spazio umanamente ecosostenibile non può avere la bruttezza come sua cifra distintiva, essere cioè uno spazio che mortifica i sensi e la memoria, in cui il corpo umano sente di essere respinto, in cui non c’è possibilità di rispecchiamento. La bruttezza violenta l’umano non meno di altre ingiustizie. Solo un io disincarnato può accettarla.

Mentre occorre riconoscere a ogni forma di vita il suo modo di esistere, non si può dimenticare il modo specifico di esistere degli umani, che li distingue dalle piante e dagli animali: essere corpi bisognosi per tutta la vita di un tetto che li protegga dalle aggressioni dell’ambiente naturale; essere particolarmente dipendenti, per crescere e sopravvivere, dalle relazioni fisiche e psichiche coi propri simili; avere bisogno per nutrirsi di bellezza, oltre che di cibo, aria e acqua.

La bellezza del paesaggio costruito, al pari di quello naturale, è nutrimento vitale per l’animo umano come l’aria pulita per i polmoni.

Se un ambiente ecosostenibile per l’umano deve avere la bellezza tra le sue prerogative, coloro che hanno il potere di trasformarlo – architetti, ingegneri e urbanisti in primo luogo, ma anche amministratori, politici, cittadini – non possono rifiutarsi di ascoltare e rispettare il linguaggio antico del corpo: non avere come regola e riferimento i suoi caratteri distintivi, trascurare i suoi bisogni, dimenticare di assumere anche l’esperienza sensibile, non solo quella intellettuale, come metro di paragone e chiave interpretativa e di giudizio delle configurazioni dei luoghi.

Il corpo umano è antichissimo ha scritto Günther Anders: «il nostro corpo di oggi è quello di ieri, ancora oggi il corpo dei nostri genitori ancora oggi il corpo dei nostri antenati; il corpo del costruttore di razzi non è praticamente diverso da quello del troglodita. È morfologicamente costante»(5). Essenzialmente di piccole dimensioni, al pari di tutti gli esseri viventi è portatore di una figura chiusa, riconoscibile come una totalità organica unitaria, composta di parti differenti ma inscindibilmente connesse, che genera sofferenza quando viene lacerata. Quanto ai comportamenti, di giorno assume solitamente una posizione eretta salvo quando perde l’equilibrio e sta per cadere; si comporta in pubblico con una gestualità da tempo educata alle buone maniere, misurata, senza eccessi violenti; in presenza di estranei ha imparato ad ascoltare e a dialogare e trae piacere dal sentirsi in relazione armoniosa con gli altri e con il mondo del suo abitare.

A Milano mai come in questi ultimi anni lo iato tra il nuovo edificato e il corpo umano è stato così profondo. Dimensione, figura, relazione, tutto congiura a ostacolare una possibilità di rispecchiamento.

Ogni misura umana è stata abbandonata; prevale la dismisura dei grattacieli; l’eccesso in altezza non ha più alcun limite, come era previsto ancora negli anni venti per l’edilizia; la regola non scritta, ma da sempre rispettata, di non superare la Madonnina del Duomo è stata con cinica irrisione ripetutamente infranta.

I nuovi moloch si dispongono nello spazio in maniera isolata e in competizione gli uni con gli altri, indisponibili a dare vita a una connessione armonica; il legame e la prossimità da valore costitutivo dei tessuti urbani per analogia con il corpo sociale, è ritenuto un disvalore; mantenere la distanza tra gli edifici è assurto a criterio dominante.

Vige inoltre il disprezzo arrogante anziché l’ascolto del contesto; l’insofferenza e il rifiuto d’ogni tradizione al posto del dialogo; la creazione di squilibri dove la norma ereditata è l’equilibrio; il ribaltamento nei rapporti dimensionali, e nella corrispondente gerarchia dei valori, tra edifici pubblici e privati; il sopravvento del deforme, dell’ibrido, delle stranezze più immotivate al posto delle forme chiaramente definite, educate, familiari, facilmente riconoscibili come urbane.

Il risultato è una vera e propria catastrofe dei significati: colossali costruzioni incombenti come giganteschi macigni, volumi scomposti come dopo un’esplosione, altri contorti, sghembi e claudicanti anziché dritti, torri in procinto di crollare contro ogni senso e bisogno umano di stabilità e di equilibrio, edifici come giganteschi insetti, enormi schegge, astronavi aliene: presenze tutte aggressive, incapaci di creare spazi aperti pubblici che invitino ad abitare.

Nessuno di questi nuovi ambienti è in grado di suscitare la sensazione di accoglienza e di amorosi legami che si provano in tanti luoghi del passato dove le strade e le piazze si configurano come le stanze senza tetto di una casa: la grande casa collettiva quale dovrebbe essere una vera città, in cui per fasto e dimensioni è giusto che si distinguano solo i luoghi deputati a celebrare i valori collettivi, sia religiosi sia civili, e ad accogliere la collettività, e altrettanto è giusto che sia la modestia, il decoro discreto, la misura umana dei volti degli edifici a interpretare e sorreggere i ritmi e i riti domestici della vita quotidiana o a mimare una riunione tra amici, al di là delle differenze culturali, di genere e di reddito degli abitanti, coerentemente con il loro essere per natura simili e per diritto uguali.

Gli edifici al pari degli umani sono sempre corpi recitanti, vere presenze che plasmano la qualità dell’esistenza, che leniscono oppure feriscono, che educano o diseducano, che arricchiscono l’urbanità e l’umanità dei cittadini oppure la degradano, così come possono arricchire o devastare un paesaggio agrario o uno naturalmente ancora integro, non umanizzato. Per questo tutti i paesaggi raccontano sempre chi siamo, cosa pensiamo e dove vogliamo andare.

Con la loro disumana verticalità, da sempre uno dei linguaggi con cui il potere esibisce e afferma la sua posizione dominate, i grattacieli di Milano rivelano che un nuovo dominus si è impossessato e governa la città: la smisurata potenza economica dei fondi internazionali del capitalismo finanziario immobiliare, che ha come unico scopo, regola e modello non il corpo umano, con suoi bisogni e i suoi limiti, non il rispetto dei valori civili della città, ma unicamente la massimizzazione delle rendite.

Per la finanza immobiliarista la città si riduce a mero spazio economico da sfruttare, da depredare in senso speculativo, terreno per la scorribanda dei capitali ovunque le scelte urbanistiche offrono occasioni per facili e alte remunerazioni agli investimenti. È questo l’obiettivo a cui hanno mirato in questi ultimi quindici anni le politiche dei colossi del real estate puntando per sedurre sull’offerta di architetture capaci di colpire e spiazzare l’immaginario come specchietto per le allodole: a misura, da un lato, di amministratori impreparati, quando non conniventi, su cosa significhi fare città, comunque sempre smaniosi di annettersele come icone di successo personale e, dall’altro, per conquistare il consenso dell’opinione pubblica.

Un consenso a sua volta nei fatti in gran parte estorto a un pubblico per lo più sprovveduto di strumenti di giudizio in tema di città, disegno urbano e architettura civile, e inevitabilmente disorientato, intimidito e pertanto influenzabile dal battage pubblicitario dei media, divenuti da tempo l’acritica e spesso interessata cassa di risonanza delle più discutibili operazioni immobiliari e dei relativi architetti convocati a farsene interpreti.

Si tratta solitamente di architetti abilissimi nel gioco formalistico fine a sé stesso; malati di narcisismo; ansiosi di essere riconosciuti come star; privi in generale di formazione storica e di una solida cultura urbana; estranei nella maggior parte dei casi, quando non totalmente indifferenti, alle tradizioni dei diversi luoghi in cui sono chiamati a intervenire, ma dotati di indubbia capacità nel produrre oggetti edilizi tecnologicamente all’avanguardia dal punto di vista energetico. Per questo motivo, complici la presenza di elementi vegetali e le metafore naturalistiche usate spesso come una foglia di fico per identificarli e ulteriormente giustificarli, vengono oggi presentati quasi unanimemente come un modello di sostenibilità ambientale da imitare per favorire la transizione ecologica.

Limitandomi agli ultimi esempi, la Scheggia di vetro di 26 piani e 120 metri di altezza, che sta sorgendo in via Melchiorre Gioia 22 per conto di Coima SGR, progettata dallo studio Pelli Clark e Pelli Architects, e dove si insedieranno gli uffici di Intesa San Paolo, per la «riduzione del fabbisogno energetico del 75% rispetto alle più recenti torri direzionali presenti a Milano» può senza alcun dubbio essere considerata «un primato» e distinguersi «per inediti standard di innovazione tecnologica», ma non certo, come si sostiene, per «sostenibilità ambientale»(6), se con questo termine intendiamo la sostenibilità umana, sociale, non solo ecologica.

Ugualmente la Torre Unipol Sai, firmata da Mario Cucinella Architects, e ultimo tassello del distretto finanziario di Porta Nuova, se può essere esaltata come un esempio di sostenibilità ecologica, presentando numerosi aspetti costruttivi che consentono di ridurre «il consumo di risorse dell’edificio […] al minimo», non può certo definirsi sostenibile dal punto di vista urbano. Né aumenta tale sua sostenibilità la struttura a rete romboidale che l’avvolge a immagine di «un nido verticale»(7), che rinvia semmai a esibizioni priapesche più a che a un nido, e tanto meno la presenza sul tetto di una serra e «all’interno […] di un giardino d’inverno» che pure contribuiranno ad assorbire anidride carbonica.

Sia la Torre sia la Scheggia risultano, alla pari degli altri deliranti grattacieli comparsi tra Porta Nuova e City Life, insostenibili per l’occhio umano, per la comunità civile, per la città.

Né a breve il futuro sembra mostrare un’inversione di rotta, anche se promotore della speculazione immobiliare è un grande ente pubblico e a copertura dell’inciviltà dell’architettura viene convocata una metafora industrialista. A ridosso dello scalo di porta Romana, lungo viale Isonzo, affacciata sulla città in corrispondenza di una piazza (piazza Trento) è in arrivo, anch’essa efficientissima dal punto di vista energetico, la mostruosa Torre Faro di A2A: un grattacielo di 145 metri e 28 piani, progettato in forma di «ciminiera»(8) da Antonio Citterio e Patricia Viel che, senza alcuna attenzione ai caratteri morfologici del contesto, in nome della memoria di una realtà industriale ormai scomparsa va a interrompere con incredibile violenza il dialogo che la storica centrale termoelettrica preesistente, un vero edificio industriale, con le sue forme misurate e gentili aveva saputo intrecciare con il fronte urbano antistante.

LA DISUMANIZZAZIONE IN ATTO

La tecnologia costruttiva avanzatissima, e in diversi casi la presenza di vegetazione a sostegno della valenza green delle nuove celebratissime architetture, non riescono ad impedire alla loro aggressiva, lussuosissima spettacolarità, che a Milano non a caso identifica le sedi dei maggiori istituti bancari e assicurativi, una delle maggiori aziende pubbliche e le residenze esclusive dei super ricchi, di risultare, oltre che insulsa, immorale, offensiva nei confronti della moltitudine crescente dei poveri, particolarmente aumentata in questi ultimi decenni: i senzatetto, che dormono sotto i portici, lungo i marciapiedi, sulle panchine dei parchi; i proletari confinati nell’estrema periferia degradata che non riescono ad accedere a un alloggio popolare dignitoso; e sempre più gli appartenenti al ceto medio, costretti da decenni dalla mancanza di case a prezzi contenuti ad abbandonare la città.

È come se attraverso il suo dirompente sky-line il paesaggio urbano rivelasse che all’interno di quella che un tempo era la capitale morale d’Italia si è verificata una selezione darwiniana della specie umana tra chi per reddito ha diritto di appartenere alla città e chi non lo ha o non lo può più conservare.

Se uno dei mali è l’indifferenza verso il proprio simile, il nuovissimo paesaggio a grattacieli con il loro arrogante isolamento e la loro egocentrica estraneità ad ogni relazione civile, così capace di evocare la «morte del prossimo»9, di cui le cronache sui migranti sono ricchissime, testimonia che si sta perdendo non solo ciò che nei secoli era riuscito a costituirsi come urbanitas ma anche ciò che ha fondato la nostra humanitas.

Da questo punto di vista ha ragione Donatella Di Cesare a sostenere, nel suo Il Tempo della rivolta, che «le nuove rivolte ruotano attorno alla questione dell’abitare […] inteso non come possesso dell’abitazione bensì come rapporto politico esistenziale a se, agli altri, alla terra» (10) .

Del resto, le nuove architetture non parlano solo di potere economico, di ingiustizia, di disuguaglianza, di immoralità, parlano anche dell’avvento del postumano e dei pericoli che può comportare, sia per la specie umana sia per l’intero ecosistema, l’abuso della tecnologia. Ne è una anticipazione la disumanizzazione del paesaggio urbano venuta avanti ad opera delle insensate, spesso demenziali configurazioni dell’architettura: senza il ricorso all’utilizzo di sofisticatissimi software, difficilmente da soli i progettisti avrebbero saputo partorirle e tradurle in realtà. È come se il progettista avesse lasciato allo strumento, potente ma privo, come è ovvio, di sensibilità estetica e di moralità, di prendergli la mano, il cuore e la mente.

«È innegabile che per quanto riguarda la forza, la velocità, la precisione, l’uomo è inferiore ai suoi apparecchi; e che anche le sue prestazioni mentali fanno una figura meschina in confronto a quelle delle sue macchine calcolatrici […] perché egli, in quanto prodotto della natura, nato di donna, corpo, è troppo dichiaratamente determinato per poter partecipare ai cambiamenti del mondo dei suoi prodotti, che varia ogni giorno ed è privo di qualsiasi autodeterminazione […]»(11).

Due sono le alternative, entrambe rischiose, che da più parti vengono avanzate perché l’homo sapiens partecipi al mondo sempre più potente e disumano dei suoi prodotti.

La prima è acconsentire che siano delle macchine pensanti, guidate da algoritmi intelligenti, a sostituire l’essere umano nella gran parte delle sue attività, e a generare in tal modo una disoccupazione insostenibile e inevitabili, pesantissimi conflitti sociali.

La seconda è che si possa sfondare il confine tra cosa e uomo, «varca[re] i limiti congeniti della sua natura, passa[re] in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale»(12) complice il delirio di onnipotenza favorito dalle nuove incredibili capacità manipolatorie dell’intelligenza artificiale e dell’ingegneria genetica. Trasformare cioè l’essere umano da soggetto a oggetto di trasformazione e decisione delle macchine pur di «non prende[re] nemmeno in considerazione la possibilità di rassegnarsi una volta per sempre alla propria inferiorità e arretratezza e di accettare l’ottusità del proprio corpo»13, il suo essere cioè «dal punto di vista delle macchine: conservativo, non progressivo, antiquato, non modificabile, un peso morto nell’ascesa delle macchine»(14).

Nel 1983 Umberto Galimberti ha scritto: «Da centro di irradiazione simbolica nelle comunità primitive, il corpo è diventato in Occidente il negativo di ogni “valore”, che il sapere, con la fedele complicità del potere, è andato accumulando. Dalla “follia del corpo” di Platone alla “maledizione della carne” nella religione biblica, dalla “lacerazione” cartesiana della sua unità alla “anatomia” a opera della scienza, il corpo vede concludersi la sua storia con la riduzione a “forza-lavoro” nell’economia». (15) .

A distanza di quarant’anni andrebbe corretto il finale e aggiunto che il corpo umano rischia di vedere irreparabilmente conclusa la sua storia con la definitiva riduzione a “cosa” nel mondo postumano dell’intelligenza artificiale e del superomismo tecnologico dei cyborg, i cui esiti sono quanto mai inquietanti.

Se poi delle macchine pensanti dovessero essere utilizzate a scopi militari, come consentirebbe l’invenzione dei killer bots (robot in grado di identificare e distruggere un obiettivo in modo autonomo) (16), gli effetti sarebbero paragonabili a quelli della bomba atomica: devastanti per l’intero ecosistema terrestre, compreso il mondo postumano dei cyborg.

Contrariamente a quanti oggi vedono nella tradizione umanistica occidentale la fonte di ogni nefandezza, la strada per conservare l’ecosistema è paradossalmente strettamente legata alla conservazione dell’umano e a «un “di più” di Umanesimo (non un “di meno”)»(17) : a una umanità cioè che accetti i suoi limiti rifiutandosi di essere ridotta a cosa e riconosca che per abitare la terra occorre il rispetto non solo dei propri simili, ma di tutti il creato, di cui è parte e non padrona.

C’è poi un altro aspetto che non può essere trascurato dalle questioni legate alla transizione ecologica se vogliamo che rimanga umana. Si tratta della questione demografica che rischia di portare all’estinzione la specie homo sapiens: per progressiva riduzione della natalità, in alcuni Paesi dell’Occidente(18), per il suo abnorme eccesso, nei Paesi cosiddetti sottosviluppati. Una questione che rinvia a sua volta agli insostenibili rapporti di produzione e di potere oggi dominanti il mondo e che il mondo, per essere salvato, chiede siano cambiati con altrettanta urgenza con cui si invocano gli interventi per ridurre l’inquinamento.

Graziella Tonon

1) J Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, Madrid 1930, trad. it. La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna 1984 [1962]. p. 175.

2) S. Giedion, Il cuore della città, in Ciam, Il cuore della città: per una vita più umana delle comunità, a cura di E. N. Rogers, J. L. Sert, J. Thyrwhitt, Hoepli, Milano 1954, pp. 162-163.

3) F. Irace, Renzo Piano: “Ecco il mio progetto per fare di Milano la città del verde”, in la Repubblica-Milano, 5 dicembre 2009. Renzo Piano aveva proposto di partire prioritariamente dal tratto di città che collega il Castello al Duomo lungo l’asse monumentale di via Dante: circa 220 frassini disposti a doppio filare, ad impalcato alto per non disturbare i dehors dei caffè e ostruire la vista delle vetrine, che da largo Beltrami, proseguendo per largo Cairoli, via Dante, piazza Cordusio, via Orefici, avrebbero dovuto raggiungere piazza del Duomo, dove, sul fronte opposto alla cattedrale, era previsto un boschetto di carpini e oggi si esibiscono, speriamo ancora per poco, banani e palme ancora più discutibili e fuori contesto.

4) V. Giannoli, Quei circoli Pickwick nei lavatoi dei condomini. “Ridiamo vita ai libri”, in «la Repubblica», 17 marzo 2021.

5) G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, München 1956, trad. it. L’uomo è antiquato, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 40.

6) F. Calò, Una “scheggia “di vetro green nello skyline di Milano: il grattacielo Gioia 22, in «ingenio», 23 aprile 2020. https://www.ingenio-web.it/25865-una-scheggia-di-vetro-green-nello-skyline-di-milano-il-grattacielo-gioia-22

7) Id., Un nido verticale a Milano Porta Nuova: al via i lavori della Torre Unipol Sai firmata da Mario Cucinella Architects, , in «ingenio», 9 dicembre 2019. https://www.ingenio-web.it/25057-un-nido-verticale-a-milano-porta-nuova-al-via-i-lavori-della-torre-unipolsai-firmata-mario-cucinella-architects

8) A. Gallione, A Milano la nuova “torre-faro” di A2A alta 145 metri: “Ma va riqualificata la zona di piazza Trento”, in la Repubblica-Milano, 10 ottobre 2020.

9) Cfr. M. Revelli, Umano Inumano Postumano. Le sfide del presente, Einaudi, Torino 2020.

10) D. Di Cesare, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2020.

11) G. Anders, cit., p. 39.

129 Ivi, p. 44.

13) Ivi, p. 42.

14) Ivi, p. 40.

15) U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2006 (1983), p. 12.

16) A. Bonanni, Regole per le armi hi-tech, in la Repubblica, 4 aprile 2021.

17) M. Revelli, cit., p. 128.

18) R. Volpi, L’Italia rischia l’estinzione, in «la Repubblica», 11 aprile 2021.



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  1. Cristoforo BonoHai fatto un bel lavoro Graziella: è questo l'impegno che ci vuole, senza mai perdere quota.
    26 maggio 2021 • 07:28Rispondi
  2. Giorgio GoggiBellissimo e giustissimo articolo! Grazie.
    26 maggio 2021 • 10:46Rispondi
  3. Valeria fieramonteNon condivido molto articolo su transizione ecologica. Gli alberi possono essere messi in pratica oovunque, ce ne sono di ogni genere e dimensione e moltissimi marciapiedi ora squallidi ne potrebbero essere abbelliti
    26 maggio 2021 • 14:49Rispondi
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