28 giugno 2019

I NOBILI AL GOVERNO DI MILANO MA PER IL FASCISMO NON SARÀ PIÙ UNA PRIORITÀ

Gli anni da 1928 al 1943. Importanti per capire la città


L’ultima stagione dei nobili al governo di Milano risale agli anni trenta, per la precisione dal 1928 al 1943 quando Mussolini nominò tre podestà e svariati vice podestà aristocratici al governo della città. Tutto inizia con l’attentato al duce di Tito Zaniboni il socialista matteottiano (31 ottobre 1925). Ma andiamo per ordine.

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Sindaco della città è Luigi Mangiagalli eletto nel dicembre 1922, oltre che grande medico e fondatore dell’università milanese anche servile politico che così si era espresso dopo il delitto Matteotti: “ il delitto colpisce il Governo attuale, per cercare di arrestare la vita di un grande paese e di una grande città. Quella lama che ha colto Matteotti ha colpito ancor più profondamente l’anima e il cuore di Mussolini: l’uccisione di Matteotti deve essere scontata dai colpevoli, non dal Paese e dalla nostra città”.

Mangiagalli con questa dichiarazione sperava di riuscire a passare la bufera: i fascisti infatti non erano contenti della sua gestione, troppo oculata nelle spese, poco incline a grandi progetti che non fossero quelli di sua diretta emanazione. La questione di maggior attrito era quella degli affitti, che i fascisti volevano contingentare, mentre i liberali ritenevano che minacciassero la libertà dei proprietari e la tassa comunale sugli immobili. Mentre una parte della borghesia milanese impersonata da Alberto Stucchi, presidente della federazione dei proprietari di case e vero animatore del conservatorismo cittadino voleva mantenere tutti i suoi privilegi, Mussolini già nel 1924 con la legge 256 aveva dato ai prefetti la facoltà di assegnare d’autorità gli appartamenti sfitti, anzi i fascisti assunsero la difesa degli sfrattati e dei senza casa contrapponendosi anche violentemente ai proprietari.

Così dopo l’attentato Zaniboni e la messa fuorilegge del PSU, nel novembre del ‘25, il capo dei fascisti milanesi Belloni ruppe gli indugi e provocò la crisi a Palazzo Marino per una “giunta migliore”. In risposta Mangiagalli che nel frattempo aveva chiesto la tessera del fascio si dimise sperando di essere rieletto.

Il Consiglio comunale è stato convocato – disse Ernesto Belloni – in questa riunione straordinaria per prendere atto, delle dimissioni del sindaco e della giunta, e per procedere alla rielezione del primo e alla ricomposizione della seconda. … E’ indubbio, voglio subito constatarlo, che dal travaglio dei giorni scorsi il consiglio comunale esce con un’anima ed un pensiero collettivi e che da questa concordia, in quest’ora grave attorno al nome di un Uomo ed al programma di un governo e di partito, si traggano i più sicuri auspici per il sereno svolgersi dei futuri lavori.

Questo noi volemmo il giorno in cui, scossi fino nel profondo dalle nostre fibre di italiani e di fascisti, dalla notizia dell’orrendo attentato minacciato contro la vita sacra del Duce, proponemmo noi stessi a voi di sgomberare da ogni equivoco politico l’ambiente dei nostri lavori sereni, e di dare al Capo, che fu già nostro e che ora dividiamo senza rammarico con tutta la patria, questo attestato di devozione incondizionata, questa dimostrazione della volontà ferma di tutti gli italiani di marciare compatti e concordi dietro di lui sulla via luminosa per la quale egli conduce l’Italia verso i suoi radiosi destini…

 

Quando iniziammo i nostri lavori, io esposi in questa aula a nome di tutti i camerati fascisti, una fede e una speranza. Io dissi allora le ragioni per le quali noi avevamo per duri anni combattuto a fianco di Benito Mussolini per la salvezza e la grandezza della patria e dichiarai la nostra fede nell’uomo che ci aveva guidati con mano ferma con luminosa sapienza … Per giungere a quello che parve allora un sogno, si sono dovuti vivere mesi di ben dura passione e bisognò che quell’uomo, posto dalla fede ardente, dal genio possente, da tutte le virtù ataviche della stirpe che si sommano in lui, cura e a governo dei nostri destini, soffrisse tutte le amarezze, vedesse attorno a sé il tradimento e la viltà. … oggi o Signori, la meta è raggiunta

Mangiagalli ringraziò e annunciò la propria adesione al fascismo: “Ogni cittadino italiano deve dare tutto se stesso per servire il paese. L’esempio ci viene dall’alto; ci viene al Re che, dopo essere stato soldato con cura indefessa ed amore in ogni angolo d’Italia ove ci sia una gloria da ricordare, un’opera alta da patrocinare col suo giusto nome: ci viene dal suo grande Ministro Capo del Governo, che non si dà tregua, che non conosce riposo e con mirabile senso divinatore restaura in ogni campo le fortune della Patria ed oggi stesso risolve con fermezza, con dignità e con onore una delle più ardenti ed ardue questioni internazionali; dal suo grande Ministro, al quale come atto di dedizione alla Patria stessa, va oggi rinnovata in nome vostro e di Milano, l’espressione dei più commossi sentimenti di gioia per lo scampato pericolo e l’espressione di quella nostra immutata, profonda devota fiducia colla quale lo salutammo anche nei momenti più tristi. Viva il Re! Viva Mussolini!”.

A poco gli valse. L’11 agosto, mentre il sindaco e gli assessori erano in vacanza, Belloni fece dimettere i consiglieri fascisti provocando la crisi, e facendosi nominare prima commissario prefettizio, poi una volta risolta la questione dell’incompatibilità con il mandato parlamentare, nel dicembre, podestà. Il motivo era scritto sul Popolo d’Italia: “ A Milano non si può concepire l’ordinaria amministrazione. Ci vuole un amministratore in pieno possesso della facoltà di deliberare…senza organi dilatori e diluitori ma con vigorosi attributi…”.

Con la sua nomina il fascismo voleva dare una prova di forza e decisionismo.

Belloni che era un chimico e docente universitario, parti veloce; inaugurò svariate opere pubbliche e altre ne programmò, proseguì il programma di costruzione di alloggi pubblici che prevedeva la realizzazione di 20 nuovi quartieri, firmò la convenzione tra il Comune e lo Stato che prevedeva la cessione al Comune delle vecchie caserme , decise la copertura dei navigli; il tutto grazie ad un consistente aumento del deficit. Ma entrò in rotta con Farinacci che lo accusava (a ragione) di corruzione e con l’ex alleato il federale Giampaoli, ex sindacalista, teorico del fascismo popolare e squadrista ma anche a capo di una cricca di tangentari professionisti.

In un intreccio di affarismo, scandali sessuali, collusioni con la malavita, tangenti il fascismo milanese si trovò a fare i conti anche con la bomba alla fiera Campionaria del 12 aprile 1928, che avrebbe dovuto colpire il re. Nonostante il regime si affannasse a cercare i responsabili della strage (16 morti subito un’altra decina per le ferite causate) tra gli antifascisti, fin da subito si cominciò a parlare di una faida interna al fasciamo (tutt’ora nulla si sa dei colpevoli).

Mussolini che diffidava dei fascisti milanesi colse la palla al balzo e per normalizzare la città, si rivolse ad un vecchi amico liberale De Capitani d’Arzago, marchese , decano del conservatorismo milanese, nemico giurato del socialismo riformista milanese, già ministro dell’agricoltura. Belloni e Gianpaoli vengono espulsi dal partito e l’ex podestà spedito anche al confino.

De Capitani (gli abbiamo dedicato un medaglione tempo fa) pur restando fedelissimo del duce fino a pochi giorni prima di Piazzale Loreto è anch’esso però poco propenso all’indebitamento, del resto per un decennio aveva chiesto il commissariamento delle giunte Caldara e Filippetti in quanto “spendaccione”, inoltre era presidente della Cariplo.

Su pressante richiesta del prefetto Giuseppe Siragusa (che scrive al duce: “questo Podestà produce paralisi dannosa amministrazione comunale et quindi permettomi sollecitare provvedimenti per uscirne”) sia pur senza scandalo anche De Capitani viene sostituito il 20 novembre 1929 con un altro nobile: il duca Marcello Visconti di Modrone (), Marchese di Vimodrone, Conte di Lonate Pozzolo, Signore di Corgeno, Consignore di Somma, di Crenna e di Agnadello, Patrizio Milanese.

Marcello Visconti è anche un industriale e membro del direttivo dell’associazione della proprietà edilizia, proprio quella che maggiormente si era esposta contro, da posizione reazionaria, la politica fascista di calmiere degli affitti.

Sotto la sua gestione si avvia la costruzione del palazzo dell’Inps in piazza Missori, si inaugura il Lido di piazzale Lotto, si inaugura la centrale del latte, si inaugura la prima “filovia” sulla linea Loreto-Dergano (in realtà, non essendo arrivate in tempo le nuove vetture, la linea viene inaugurata con normali autobus che solo più avanti verranno sostituiti dai nuovi filobus), si inaugura la nuova Stazione Centrale, progettata a partire dal 1911 dall’ing. Stacchini.

Sarà Marcello Visconti di Modrone ad affidare all’architetto Marcello Piacentini il progetto del nuovo Palazzo di Giustizia in corso di Porta Vittoria, nell’area della caserma Principe Eugenio di Savoia, che si trasferisce a Baggio e toccherà a lui ricevere dal governo il nuovo stemma del Comune di Milano, quello che cancella l’antico dove facevano bella figura la palma e dall’ulivo (l’umiltà e la pace) adottate nel XV secolo da Filippo Maria Visconti, ironia della sorte.

Con Visconti di Modrone la città viene normalizzata le sue parole sono chiarissime: “date le condizioni del bilancio non si può attendere da noi una politica di grandi opere che aumenterebbero l’indebitamento del comune”. E’ la rinuncia alla politica coltivata dai governi Mussolini fino alla fine degli anni Venti di realizzare il progetto, della “Grande Milano” cioè creare una città di dimensioni europee. La mancata fascistizzazione della città, la pochezza della classe dirigente dei sansepolcristi, la moderatezza della vecchia guardia liberale, convincerà Mussolini che Roma è più adatta di Milano ad essere la città esemplare del fascismo.

La grandeur non è di casa presso il podestà come presso tutta la classe politica liberale milanese, entrata in osmosi con il fascismo, ma incapace di abbandonare la concezione notarile e ragionieristica della politica, la fissazione sulle rigidità di bilancio. Peraltro il potere non è nelle mani del podestà e nemmeno in quelle del federale, il potere è nelle mani del prefetto che nomina anche il segretario comunale e ancor più di Arnaldo Mussolini l’uomo forte della città fino alla sua morte nel dicembre del 1931.

Visconti di Modrone è poco più di un grande cerimoniere, un alto dignitario che può intervenire su vicende marginali ancorchè di forte immagine, il lavoro vero lo svolgono i suoi vice, così se il Belloni era stato ricevuto molte volte dal duce in udienza, il Visconti avrà solo poche occasioni per parlare con Mussolini, Milano non è più una priorità.

Una fu però importante per la città. Nel 1935, un giornale romano rese pubblica la trattativa tra il principe Trivulzio e il comune di Torino appoggiato da Umberto di Savoia per la cessione delle spettacolari collezioni di famiglia, che dovevano essere allocate a Palazzo Madama. Il Visconti si oppose e coinvolse il duce “intento a Stresa con alte personalità politiche estere a problemi che tutto il mondo agita” come scrive il Corriere della Sera. La tesi di Visconti di Modrone era semplice: “Portar via da Milano la collezione Trivulzio è come strappare un pezzo di Sant’Ambrogio”, convinse Mussolini ed alla fine con “nobile, fraterno, fascistissimo gesto” il podestà di Torino rinunciò. Il grosso della collezione Trivulzio restava al Castello Sforzesco e Torino avrebbe avuto solo alcuni pezzi importanti come il ritratto di Antonello da Messina.

Marcello Visconti divenne popolare però per un’altra iniziativa: la Gazzetta dello Sport del 23 marzo 1935 gli dedicava la prima pagina : “L’impresa è compiuta. L’ha realizzata il Podestà di Milano. La costruzione è sorta attraverso l’opera alacre e moderna di quell’imponente cantiere che può definirsi il Comune della nostra città… Ora si inaugura. Il Comune di Milano ha saputo fugare i dubbi, le incertezze, le voci. Il Velodromo Vigorelli sarà, per il ciclismo, quello che è l’Arena per l’atletica leggera e il calcio … La pista vivrà attraverso programmi degni di un velodromo di rango e di capacità internazionali”.

L’impianto che sostituisce il Velodromo Sempione abbattuto nel 1928, è dedicato alla memoria di Giuseppe Vigorelli, defunto assessore comunale. Ventimila spettatori paganti guardano la madrina Duchessa Xenia Visconti di Modrone-Berlingieri, moglie del podestà. “che impugna il martelletto col quale spezza la bottiglia di spumante appesa ad un nastro tricolore sulla pista“. Tre giorni dopo l’inaugurazione Giuseppe Olmo da Celle Ligure, medaglia d’oro nella cronometro a squadre all’Olimpiade di Los Angeles ’32, infrange il muro dei 45 . Poi arrivò la boxe della “pantera di Milano” il mitico Saverio Turiello che dovette riparare in America dopo la sconfitta con Cerdan che il regime non gli perdonò.

Per tutti gli anni trenta, scarsi furono tuttavia i successi dei fascisti di agganciare il proletariato industriale da un lato e i ceti medio alti dall’altro. Nel 1930 solo il 15% dei lavoratori della provincia aveva aderito ai sindacati fascisti, e anche nel momento di massimo consenso, i sindacati fascisti non riuscirono mai ad avere un adesione superiore al 50%; lo stesso numero di iscritti al PNF non era altissimo, rispetto ad altre realtà italiane. Per il consolidamento in città del regime usò altri strumenti: le istituzioni di “assistenza sociale”.

Non che il fascismo fosse il primo movimento politico a prendersi carico di una legislazione sociale. Solo che con il fascismo lo Stato divenne il principale attore protagonista nell’elargizione di risorse e nel controllo degli aiuti e dei sussidi. Prima di allora, la società civile milanese s’era occupata degli emarginati, dei malati di mente, dei malati, degli orfani, delle madri senza marito, attraverso le numerose istituzioni filantropiche cattoliche, cui si erano affiancate successivamente istituzioni di soccorso di matrice democratica e socialista in primis la Società Umanitaria.

Le giunte democratiche milanesi non avevano ostacolato l’attività delle congregazioni cattoliche, ma semplicemente avevano favorito l’incontro tra beneficenza privata e pubblico, il che era stato di vitale importanza per la trasformazione ad esempio degli istituti ospedalieri. Il governo Mussolini riprese queste tendenze accentuandone però il controllo centralistico e burocratico, e dando grande potere di direzione anche in direzione delle spese sociali ai prefetti.

La spesa statale destinata a fini sociali andò aumentando, coprendo soprattutto l’indennità di malattia. Questo riguardava naturalmente i lavoratori. A coloro che invece si trovavano al di fuori del rapporto di lavoro, sia temporaneamente che per lunghi periodi, risposero da un lato le grandi istituzioni cittadine e dall’altro il partito. Alle prime, le congregazioni di carità, era riservata la cosiddetta “profilassi sociale” mentre il partito gestiva le situazioni generate dalla crisi economia (soprattutto la disoccupazione). Al Comune restava il compito, non poco gravoso, del mantenimento dei malati, di minori e di anziani e il contributo all’assistenza materna e infantile.

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Nel 1930 i disoccupati in città erano cresciuti a 27.000, a 40.000 nel dicembre 1931 e a 67.987 nel dicembre 1932. Dovette intervenire il partito fascista, con misure assistenziali, di tutela dalla disoccupazione attraverso interventi di elemosina (distribuzione di generi di prima necessità) accoglienza degli sfrattati in alberghi e luoghi di carità. Nel 1937 venne istituito l’Ente comunale di assistenza che andò a sostituire le Congregazioni di carità, il Comitato di amministrazione era presieduto dal podestà e vedeva al suo interno un rappresentate nel PNF, uno del Fascio femminile e otto delle associazioni sindacali. Controllo del partito “l’assistenza sociale nella concezione fascista […] trae norma altresì dal principio biologico di conservazione e di miglioramento della razza, in questo che, attraverso un’azione rivolta in apparenza a favore dei singoli individui, mira a promuovere la formazione e il miglioramento degli elementi utili e produttivi della collettività nazionale”.

Il vero successo del welfare fascista fu l’Associazione nazionale dopolavoro (AND) con 30.000 iscritti nel 1926, 82.305 nell’ottobre dell’anno successivo fino a 470.778 nel 1938, aperta tanto ai ceti operai quanto a quelli impiegatizi. Nel frattempo la popolazione aumenta: nel 1921 Milano aveva 818000 abitanti (ultimo censimento gestito dai comuni ) nel 1936 1.115.794.

A rafforzare la dimensione aristocratica della amministrazione vengono nominati vice podestà il nobile Innocenzo Pini e nel 1933 il conte Carlo Radice Fossati (anch’esso della associazione proprietari edilizi) che così venne descritto in un necrologio dai suoi colleghi: “Partecipò alla guerra quale Ufficiale del Genio e dopo la vittoria entrò a far parte del Consiglio Comunale di Milano …dando prova di alti sentimenti patriottici e di saper reagire alla violenza dei sovversivi. Fu infatti uno dei primi ad aderire al Fascismo del quale si mantenne poi sempre fedelissimo gregario. Nella Giunta Mangiagalli fu Assessore alla beneficenza …” . Più che rivoluzione fascista a Milano siamo in piena restaurazione aristocratica.

Nel novembre del 1935 Visconti da Modrone venne invece sostituito da Guido Pesenti, un sansepolcrista.

Sulle ragioni del giubilamento si sa poco. Carlo Feltrinelli parlando del presunto suicidio del nonno (uno degli uomini più ricchi d’Italia) coinvolto in una vicenda di capitali in Svizzera racconta di favoritismi da parte del podestà “improvvisamente fatto decadere”. Più probabilmente il nostro è poco coerente con il processo di fascistizzazione del paese.

Il duca si ritira dalla vita politica, occupandosi delle sue aziende tessili. Tornerà alla ribalta nel 1944 quando mise a disposizione del cugino Conte della Porta, vicecomandante della Brigata partigiana Puecher, le case di famiglia come rifugi e basi per la resistenza e organizzò una rete di carabinieri antifascisti.

Il 17 ottobre 1944 proprio a nella sua casa a Macherio (Mb) verrà arrestato assieme a don Carlo Gnocchi con l’accusa di “intelligenza col nemico e alto spionaggio”. I due restarono a San Vittore fino al 4 novembre ed evitarono più gravi conseguenze grazie all’ intervento del cardinale Schuster.

Il nuovo podestà Guido Pesenti, avvocato, grande ufficiale della Corona d’Italia, che nell’immediato dopoguerra aveva fondato l’Unione antibolscevica è un fascista della prima ora (si definirà “soldato e gregario fedelissimo” di Mussolini) ma aveva un compito non diverso da quello di Visconti di Modrone: normalizzare e ridurre l’indebitamento che superava i 250 milioni, applicare il nuovo piano regolatore introdotto già ai tempi di Belloni e fatto approvare definitivamente nel 1934, sviluppare l’accreditamento dei fascisti in una città che comunque non manifestava lo stesso entusiasmo di altre.

Il collegamento con il mondo della borghesia imprenditoriale era garantito dal vice podestà Franco Marinotti, conte di Torviscosa, iscritto ai fasci di combattimento dal 1922, amministratore delegato e direttore generale della SNIA-Viscosa. Pesenti durò fino al giugno del ’38 , e come il suo predecessore nel 44 sarà arrestato e tradotto a San Vittore (alcune fonti parlano anche di un internamento a Mathausen).

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Di insuccesso in insuccesso, Mussolini sceglie un’altro nobile: Giangiacomo Gallarati Scotti, Nobile dei Principi di Molfetta, Patrizio Milanese, Patrizio Napoletano, senatore del Regno, Cavaliere dell’Ordine supremo della SS. Annunziata, Cavaliere del Sovrano militare Ordine di Malta, Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro etc. etc. Diplomatico di carriera, sarà podestà fino al 1943, quando sarà sostituito da Piero Parini. Gallarati Scotti dall’unità d’Italia in poi è probabilmente il più anonimo dei reggitori del comune.

Arrivato con il compito di risanare il bilancio (pure lui) e con un programma di pura fantasia: costruzione della metropolitana, canale navigabile fino al Po, porto fluviale, copertura di tutti i navigli se ne andrà dopo la caduta del governo Mussolini , senza lasciare pressoché alcuna traccia della sua presenza. Processato per collaborazionismo, fu assolto in Cassazione, forse anche perché fratello del più noto Tommaso Gallarati Scotti (con il quale peraltro i rapporti erano zero), fedelissimo di Cadorna, firmatario del manifesto degli intellettuali antifascisti, leader liberale, organizzatore della resistenza non comunista e nel dopoguerra tra l’altro ambasciatore in Spagna e a Londra, presidente della Fiera di Milano, presidente del Banco Ambrosiano

Animalista della prima ora, fin dal 1928 aveva proposto un “Parco nazionale di Madonna di Campiglio”, Gallarati Scotti è ricordato quasi esclusivamente per il suo amore per l’orso. Confessò un giornoMi preoccupano gli stambecchi, mi preoccupano le magnifiche specie degli orsi e dei camosci d’Abruzzo, del daino e del muflone di Sardegna, penso alla foca monaca che un giorno ho visto emergere dalle acque del Mediterraneo. Ma la mia malattia, forse voi lo sapete, è l’orso bruno dell’Adamello e del Brenta. Per queste povere bestie che si stanno arroccando lassù in una suprema difesa, io invoco consiglio e protezione.” Nel 1957 fonda dell’Ordine di S. Romedio a protezione dell’orso bruno di cui si nominò priore, tra i presenti Dino Buzzati che gli dedicò un articolo romanzato.

A completamento dell’opera regalò ai frati dell’eremo di S. Romedio in Val di Non (che pare ne avrebbero volentieri fatto a meno), per rinverdire la leggenda che racconta di come il santo attorno al mille avesse usato un orso a mo di cavallo per fare il suo pellegrinaggio a Trento, un orso salvato da un circo. Pubblicò anche tre volumi: L’orso bruno di Linneo in Italia, La protezione dell’orso bruno in Italia, Gli ultimi orsi bruni delle Alpi.

Così qualsiasi ricerca facciate sull’orso bruno vi imbatterete in Gallarati Scotti, mentre come podestà non lo ricorda assolutamente nessuno. Curioso finale per la nobiltà milanese al governo della città.

Walter Marossi



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