26 aprile 2019

LA FESTA DEL LAVORO

I ricordi di un testimone


Il Primo Maggio della mia infanzia è un ricordo di tante persone che camminano ordinate. Non vedevo molto, vedevo scarpe e pantaloni, piccolo com’ero, avvinghiato, per la paura di perdermi, alle gambe di mio padre, che mi ripeteva con orgoglio: “Questa è la Festa del Lavoro”. Alla fine capitava che si andasse alle giostre al Parco Lambro e non mancava mai qualche minuto al “buco della morte”, un cilindro in legno sulle pareti del quale volavano spericolati motociclisti. Erano ancora gli anni dei completi grigi e delle camiciole bianche, gli uomini, dei tailleurs e dei vestitini leggeri stretti in vita, le donne. Non erano ancora comparsi jeans integri, tanto meno strappati e sfilacciati.

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Una Festa dopo l’altra, anno dopo anno, tutto cambiava, dai tempi del boom alle stagioni della contestazione, dal Sessantotto al 1969 degli scioperi e della strage di piazza Fontana. Poco alla volta imparai anch’io a marciare in corteo (il primo dopo l’occupazione del mio liceo, il Parini) e magari a sussurrare qualche slogan, senza mai riuscire a gridarli gli slogan, un po’ per timidezza un po’ perché nutrivo qualche perplessità di fronte all’imperativo “Viva Marx, viva Lenin, via Mao Tse Tung”. Non conoscevo nessuno dei tre se non in fotografia, anche se assai precocemente avevo letto il Manifesto del Partito comunista e persino il XVIII Brumaio di Napoleone Bonaparte.

Al grido “Giap Giap Giap” mi veniva francamente da sorridere, non perché ignorassi le glorie del generale vietnamita, ma perché consideravo ragionevolmente di scarsa efficacia quel nome alle orecchie del popolo italiano. Invece con convinzione partecipavo al coro che scandiva ritmicamente “Vietnam libero, Vietnam libero”. Ci credevo, in nome del sacro principio della libertà: Vietnam libero, gli americani stessero a casa loro, yankee go home. Davide contro Golia: non c’è niente di più bello che veder perdere il più forte, il più ricco, il più arrogante. In un cinema d’essai avevo visto “Lontano dal Vietnam” di Joris Ivens. In una scena del film alcuni contadini vietnamiti con i loro cappellucci, con i piedi a mollo nella risaia, contemplavano i resti di un gigantesco elicottero abbattuto (o un aereo, non sono sicuro). A quel fotogramma era scattato l’applauso della sala, studentelli come me.

Tra una manifestazione e l’altra, nel 1974, mi capitò anche la fortuna di un 25 Aprile straordinario. Della dittatura di Salazar si sapeva, ma avevamo sempre trascurato il Portogallo, come fosse una provincia della Spagna di Francisco Franco. I portoghesi ci sorpresero. Riuscirono nell’impresa di cacciare il dittatore, inventandosi la “rivoluzione dei garofani”, addobbando i carri armati di fiori rossi, costruendo così la loro democrazia. Cinque giorni dopo, finalmente, poterono celebrare da uomini liberi il loro primo Primo Maggio.

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Fu una iniezione di fiducia. Cominciai a credere che anche noi italiani potessimo combinare qualche cosa di buono. Mi unii a chi in strada scandiva: “E’ ora, è ora, non smetter di lottare per un governo giusto e popolare” e più avanti, dopo la vittoria del no all’abrogazione della legge sul divorzio, non potei ritrarmi davanti alla straordinaria speranza, che avevo da sempre coltivato: “Il Pci cambierà questa sporca società”. Nel frattempo nel delta del Mekong si continuava a combattere e a morire, di pace non si parlava.

Sui giornali si leggeva del golpe orchestrato da Junio Valerio Borghese, i fascisti seminavano morte come fossimo anche noi in guerra, con le loro bombe in Piazza della Loggia e sull’Italicus, le Brigate rosse rapivano il giudice Mario Sossi, i giudici scoprivano le tangenti pagate dai petrolieri alla Dc, al Psi, al Psdi e al Pri, cioè ai partiti dell’area di governo, la Loggia P2 di Licio Gelli cominciava ad allungare le mani sul Corriere…

L’esito del referendum era stato una boccata d’ossigeno. Cambierà, cambierà… Non mi ero accorto da giovane e sprovveduto, quanto il Pci avesse operato per evitare quel voto, che secondo Berlinguer avrebbe dilaniato il paese. Il paese non si divise, invece, perché una volta tanto era più avanti dei suoi politici, che non avevano letto evidentemente Pasolini…

Lontano, nel Vietnam, si continuava a combattere e a morire, ma si capiva che il conflitto aveva ormai preso una certa piega, che gli americani non ne potevano più, che i giovani americani, i reduci, gli intellettuali, il mio idolo Cassius Clay cioè Mohammed Alì, gli attori tranne John Wayne, gli scrittori, persino i giornalisti si battevano perché quel macello avesse fine. Qui si continuava a sostenere alternativamente “Vietnam libero” e “Il Pci cambierà questa sporca società”.

Salto un po’. Arrivo al momento in cui, quando ormai lavoravo, in redazione vidi spuntare dalla stampante, una foto sbiadita con una inquadratura mossa, quasi in diagonale, che dava il senso della velocità e del movimento. Una foto che conservo ancora. Era della Ap, Associated Press. Si scorgevano nella nebbia della cattiva ripresa alcuni vietcong, con il cappello a cono in testa, con il mitra a tracolla, che correvano verso un tempietto. Una bandiera sventolava, alta nel cielo. Hue, la capitale sacra, era stata liberata, gli americani e i loro alleati sudvietnamiti erano in fuga.

Passò qualche giorno, s’era alla fine d’aprile, e dopo Hue fu la volta di Saigon. Fu la conclusione di quella guerra. Il 30 aprile 1975. L’Unità sarebbe arrivata in edicola con un titolo a caratteri cubitali, uno dei più belli che mai mi sia riuscito di leggere: “La vittoria del Vietnam/ illumina il Primo Maggio”. Sembrò in quel giorno di festa, la Festa del Lavoro, tra le vie di Milano, quando migliaia di mani presero ad agitare il giornale (se ne vendettero più di un milione di copie), che a quel punto tutto dovesse mutare. Un mese dopo il Pci avrebbe ottenuto straordinari risultati alle amministrative. Poi ci si misero di mezzo le Brigate rosse, Prima linea, la mafia, il rapimento di Moro, la morte di Moro, la sconfitta di Berlinguer. Si era fatto avanti Craxi.

Cominciava il “riflusso”, come il Censis si inventò di chiamare quel precipitare della società italiana in quei vizi che sono diventati malattie gravi, quasi mortali. Gli anni ottanta avrebbero inaugurato e battezzato un’altra epoca. Per noi ma anche per il lontano “eroico popolo” del Vietnam. Adesso chissà: c’è da temere il peggio.

Oreste Pivetta



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