3 marzo 2019

UN FOSSILE CHIAMATO SEVESO

Non ne parleremo mai abbastanza


Il Seveso, anacronistica sopravvivenza di un passato che ritorna in forma spettrale, segno e memoria persistente di una società, di una cultura, di un modo di produrre e soprattutto di un rapporto con la natura che non ci sono più, e che non ci possiamo più permettere. Nella società postmoderna e postindustriale, il Seveso è relitto di un industrialismo che “faceva le cose”, certo, … ma senza guardare troppo per il sottile!

Il Seveso, frutto di una pianta autoctona, che in Italia (paese del diritto!) cresce rigogliosa, e di una malattia da cui non si vuole guarire: il sovrano dispregio della legge. Non solo i 1.420 scarichi abusivi (su 1.500) ce lo stanno a testimoniare, ma lo stato di abbandono complessivo del fiume, il sadismo degli sfregi portati al suo corpo indifeso, come hanno ben evidenziato le esplicite foto che la redazione di Arcipelago ha scelto a corredo dei miei due precedenti articoli.

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Il Seveso, e il suo gemello, il Lambro, sono, insomma, il peggio del com’eravamo e di come continuiamo a essere; assieme, i due fiumi, scorrendo oltre il tempo e lo spazio, traghettano, e versano nel PO, il loro carico quotidiano di escrementi e veleni: azoto, cadmio, piombo, rame, zinco, arsenico e altro.

Queste acque, questo concentrato di veleni, oggi sicuramente meno pesante per via della deindustrializzazione e della crisi, si vuole raccogliere e stipare dentro enormi vasconi, per laminare le piene del Seveso e impedire le ricorrenti esondazioni e gli allagamenti della periferia nord di Milano. Buono l’intento, molto meno il modo e il mezzo. Un piano serio, con tempi e mezzi certi, per la bonifica del fiume ancora non c’è. E invece, secondo noi, è da qui che bisogna partire.

Come hanno fatto dappertutto. In Germania, dove in uno dei luoghi più inquinati che si ricordino, nella Ruhr, è sorto l’EmsherParc, una grande esperienza di riqualificazione del territorio, cominciando giusto dall’Emscher, dal fiume; come in Inghilterra, a Londra, dove, come ci ricorda Francesco Borella “… il Lee River, affluente in sponda sinistra del Tamigi, ove sfocia da nord, nella zona dei Docks, nel settore nord orientale dell’area londinese, già a metà del secolo scorso presentava una situazione territoriale compromessa, un po’ simile a quella nostra odierna del Lambro e … nel 1967, addirittura con un atto del Parlamento, si era deciso di invertire la tendenza, di fermare la compromissione dell’area e di avviare il processo per farne un parco”.

Qui è il bandolo da afferrare. Per lo svolgimento della matassa ora possiamo guardare all’Italia, alla stessa Regione Lombardia. Con la mossa del cavallo, saltando, ma non risolvendo molte difficoltà, nel marzo del 2016, la Regione Lombardia vara la legge n.4 per la prevenzione del rischio idraulico; e con l’articolo 7 introduce le norme per la pratica dell’Invarianza idraulica e idrologica. Se fino ad oggi, e ahimè ancora (vedi il piano delle vasche), siamo intervenuti dopo e a valle, d’ora innanzi dobbiamo farlo prima e a monte: prevenire è meglio che curare.

Ogni opera di nuova edificazione, di ristrutturazione o rifacimento che comporti una limitazione della capacità di assorbimento dell’acqua piovana, deve essere accompagnato da un contestuale intervento di raccolta e trattenimento della pioggia, in modo che lo scarico delle acque resti invariato. Inoltre, la legge definisce degli ambiti territoriali, differenziati tra loro a seconda del rischio idraulico, per cui comune per comune viene stabilita la portata massima di acqua piovana che può essere versata nei recettori, fogne e fiumi. La legge è vigente e cogente e segna un salto culturale importante, ma rischia di diventare una grida manzoniana non solo per il fastidio italico a sopportare le regole, ma ancor più perché scarica il peso maggiore di questa “rivoluzione” sugli spossati comuni.

Comunque, possiamo dire che se d’incanto quelle norme fossero coscienziosamente e rigorosamente applicate, né il Seveso né altro fiume potrebbero più tenere a mollo le piane e i piedi di Lombardia. Però, c’è sempre un però, siccome la mano destra non sa quello che fa la mano sinistra, è la stessa Regione Lombardia in prima persona la protagonista del piano delle vasche! Uno strabismo incomprensibile che non incoraggia l’avanzamento della nuova legge!

La proposta dell’Associazione Amici Parco Nord, come l’abbiamo esposta nei due articoli delle settimane scorse, si pone pragmaticamente nella terra di mezzo tra il nuovo (incerto) e il vecchio (che resiste); cerca di passare tra il pessimismo del sempre uguale di cui il Seveso è poco fiero testimone e l’ottimismo della nuova legge-nuova cultura; di guardare con realismo al rapporto di forze e con fiducia pensare anche al futuro e alla storia che si fa, nonostante tutto. La proposta è desiderio di dialogo e di conciliazione, ricerca di un equilibrio e di un incontro possibile.

Essa si riassume in cinque punti, come i nostri lettori sanno: risanare il Seveso, completare il raddoppio del canale di Nord Ovest, costruire subito la vasca di Lentate che non ha nessuno che vi si opponga, realizzare presto le aree golenali previste, e finalmente avviare la pratica e i primi interventi di Invarianza.

A noi pare che essa sia completa e che nel giro di tre/quattro anni possa mettere all’asciutto Niguarda e dintorni. E’ così? Cosa ne pensano i lettori di Arcipelago e i nostri amici che la conoscono? Naturalmente, alcuni ci hanno espresso il loro pieno apprezzamento e a loro rivolgiamo un caldo ringraziamento; a quelli che hanno espresso opinioni differenti o critiche, vogliamo rispondere.

Al signor Cesare Mocchi che, commentando un mio precedente articolo, sostiene essere gli scolmatori la soluzione peggiore, vorrei dire che, a mio parere, la sua affermazione è giusta, ma non giusta in assoluto. Se si fa il confronto con l’Invarianza Idraulica, egli ha certo ragione: gli scolmatori sono una soluzione vecchia e impattante. Con l’Invarianza, infatti, le acque piovane ancora pulite vengono trattenute (in tanti modi diversi) a monte, evitando la formazione stessa delle onde di piena del fiume. Non mi sentirei di condividere lo stesso giudizio se l’alternativa al canale fossero le vasche di laminazione.

Almeno se parliamo del Seveso, lì dove le sue acque sono sporche, puzzolenti e inquinate, io credo sia meglio che scorrano piuttosto che restino ferme stagnanti, stipate dentro ad immani buche, semmai a ridosso di quartieri popolosi, come sarebbe nel caso della vasca nel Parco Nord. In ogni modo, secondo la mia opinione, le diverse scelte vanno verificate e commisurate alla situazione concreta del territorio.

Infine, il signor Mocchi fa delle osservazioni di chiaro buon senso sulla questione della bonifica del fiume e in particolare sulla cautela e sapienza che bisogna avere nel trattare il fondale inquinato del fiume. Certo, concordo, modalità e tempi sono più complessi di quanto non possa apparire. Infatti mi limito a perorare l’urgenza e la necessità di bloccare gli scarichi abusivi e togliere la licenza di uccidere … il fiume.

Giancarlo Consonni si chiede come sia possibile che nella patria del grande Elia Lombardini, padre nobile dell’Idraulica italiana, sia così difficile mettere attorno ad un tavolo le migliori competenze (assieme ai maggiori portatori di interesse) per trovare una soluzione concertata e condivisa. Già, perché?

Con Valentino Ballabio non posso che convenire. La Cassandra, Laura Conti, aveva certamente ragione. Se ci fosse stata una programmazione urbanistica rispettosa del fiume e della natura, i problemi di cui parliamo non sarebbero neppure pensabili. Abbiamo appreso la lezione? Dubito!

Ora, per finire, voglio dar conto di una voce giunta da fuori campo, a me peraltro particolarmente gradita, che affronta l’obiezione essenziale e inaggirabile, una specie di hic Rhodus hic salta: la questione dei “tempi”. Mi scrive Francesco Borella: “… il problema dei tempi (nella vostra proposta) non è risolto. Certo, bisogna partire subito a bonificare il Seveso, a far chiudere gli scarichi abusivi. Ma quanto tempo ci vuole, concretamente, a far diventare accettabile l’acqua del fiume? Perché è assolutamente evidente che solo “dopo” si può por mano al raddoppio del canale scolmatore. Sarebbe altrimenti inaccettabile mandare in Ticino le acque del Seveso, nonostante il livello di diluizione delle acque nei momenti di evento meteorico straordinario (questo fatto, cioè il livello di diluizione delle acque nei giorni in cui scatta lo sfioro, non l’ho visto considerato, bisognerebbe parlarne). Anche sull’altro grande problema, di riorganizzare tutto il sistema degli scarichi separando le acque nere dalle piovane, certo che s’ha da fare, cominciando subito, anzi cominciando da ieri. Ma quanto tempo ci vuole per ottenere risultati che possano cominciare ad avere incidenza sulla regimazione del Seveso?”

I problemi sollevati sono diversi, ma tutti ruotano attorno alla domanda ansiosa dei tempi. La risposta che do io in fondo è la stessa che dà Borella: subito. Perlomeno incominciare da subito. Quando partire a bonificare il Seveso e a chiudere gli scarichi abusivi? Subito. Quando cominciare a riorganizzare tutto il sistema degli scarichi, separando le acque nere dalle piovane? Subito, anzi cominciando da ieri. Quanto tempo ci vuole, concretamente, a rendere accettabile l’acqua del fiume? Se iniziamo subito, azzerando le cause biologiche e chimiche dell’inquinamento, cioè eliminando le acque reflue che non passano dai depuratori e gli scarichi abusivi industriali e agricoli, il più è fatto.

Resta il giacimento di veleni al fondo del letto del fiume, che è cosa troppo complessa e tecnica perché io mi possa esprimere. Però, credo che nel tempo che occorre per completare il raddoppio del canale scolmatore (4/5 anni), si possa realizzare la bonifica. Non capisco perché mai solo “dopo” la bonifica si debbano riprendere i lavori di raddoppio del canale. Le due cose possono andare di conserva, evitando il raddoppio dei tempi.

Ho risposto con le sue stesse parole a Francesco Borella, ma so che non lo avrò convinto. Per due motivi: uno di tipo psicologico, perché i tempi cui lui, ma non solo lui, si riferisce sono più tempi mitici che non reali, conseguenza dello sconforto con cui oggi guardiamo al mondo storto, senza avere la fiducia e la volontà (anche) di saperlo e di poterlo raddrizzare; secondo, perché egli (come molti altri) con questo e per questo stato d’animo, non si confronta con la nostra proposta effettiva, nella sua pragmatica limitatezza volta alla ricerca del male minore, ma con un’idea massimalistica, che ci viene imputata ma che non abbiamo, e con la pretesa che avremmo di aver trovato la soluzione perfetta e definitiva, cioè utopica.

Mi è capitato più volte di notare come spesso non ci sia il tempo per fare le cose come andrebbero fatte, e invece quanto esso abbondi quando si tratta di continuare a farle come d’abitudine, anche se sbagliate. Sono sessant’anni che il Seveso aspetta di essere restituito alla sua dignità di fiume, ma non è mai arrivato il suo tempo giusto, il momento opportuno . Il tempo cairologico (che non è utopico), come avrebbero detto gli antichi greci, invece è arrivato: è ora.

Arturo Calamimici



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  1. Cesare MocchiRingrazio per la cortese valutazione del mio intervento. Inutile dire che sono d'accordo al 100% con Francesco Borella: il completamento del canale scolmatore è pericolosissimo, una soluzione "facile" a portata di amministratori irresponsabili. Prima di pulisce il fiume (in che tempi?) e poi si vedrà. In attesa, meglio una vasca di laminazione piena di acque maleodoranti (che ci ricordano che c'è un problema), piuttosto che lo sversamento in Ticino! (che non vede nessuno, ma che distruggerebbe la natura) Grazie comunque per tenere desta l'attenzione sul tema in modo competente e responsabile.
    6 marzo 2019 • 07:53Rispondi
    • Arturo CalaminiciGentile Cesare Mocchi, guardi che io non mi sono espresso sulla bonifica del fondo del fiume. E' un'operazione certamente complicata ed io non ho le competenze necessarie per dire se, come e quando vada fatta. Mi limito a denunciare come e quanto l'opera di inquinamento continui indisturbata, senza limiti e controlli da parte di alcun ente pubblico. E' poco? Forse, ma non credo.
      9 marzo 2019 • 20:18
  2. Gianantonio MagnaniHo letto i tre articoli: concordo con quanto ha scritto e trovo molto meritevole averli scritti e l'impegno per il recupero del Seveso. Abito a Bollate e, preoccupato per la costruzione delle vasche di Senago, ho fatto degli approfondimenti, grazie alla documentazione che mi ha fornito il gruppo di senaghesi che ha portato la questione vasche e inquinamento del Seveso fino al parlamento europeo. Non ho visto, o mi sono sfuggiti, nei suoi scritti ma anche in altri interventi, riferimenti a possibili interventi sui depuratori. Da lavori di colleghi del Politecnico si vede che l'inquinamento delle acque fa salti significativi in corrispondenza dell'immissione delle acque dei depuratori di Fino Mornasco Carimate e Mariano Comense (a monte della presa del canale scolmatore di Palazzolo) e Bresso. Al di là delle oltre mille immissioni abusive, sembrano essere proprio gli scarichi dei depuratori i maggiori inquinanti. Gli stessi lavori riportano che è tecnicamente possibile migliorare significativamente la qualità delle acque di uscita dei depuratori (ad esempio con trattamenti secondari con MBR – reattore biologico a membrana, terziari per rimozione di azoto e fosforo (NDENPHO), a osmosi Inversa con blend 50:50, o avanzati con carboni attivi e ozono). Le difficoltà sembrano essere più di natura economica che tecnica. In caso di interesse, si potrebbe approfondire la fattibilità di questi interventi coinvolgendo chi si è occupato e si occupa professionalmente di inquinamento dei fiumi, in particolare proprio il Seveso e il Lambro. Cordiali saluti, Gianantonio Magnani
    7 marzo 2019 • 09:50Rispondi
  3. Arturo CalaminiciGentile Gianantonio Magnaghi, grazie per il suo utilissimo contributo. Spero che esso sia letto anche e innanzitutto dai responsabili degli enti gestori degli impianti di depurazione delle acque. A loro spetta di dare risposte chiare e convincenti. Per quanto riguarda CAP, potrei occuparmi io stesso di far pervenire alla loro attenzione il dibattito che stiamo facendo. Comunque, se l’ipotesi che lei avanza è vera, c’è poco da stare allegri: sarebbero proprio gli enti preposti (e pagati dai cittadini) alla depurazione delle acque i maggiori responsabili (di inerzia e complicità) dell’inquinamento del fiume Seveso. Anche ARPA Lombardia, l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente, dovrebbe avere il suo bel da dire sulla faccenda: non si sono mai accorti che i depuratori non depurano? Uno scenario oscuro che mi auguro svapori appena aperti gli occhi. Professore (mi sbaglio?) io sono interessato a capire meglio, e perciò mi piacerebbe vedere le carte del Politecnico e, con la benevole intercessione del direttore di Arcipelago, incontrarla, se lei è d’accordo. In ogni caso, grazie.
    10 marzo 2019 • 07:47Rispondi
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