4 febbraio 2019

PREVENIRE LA VIOLENZA SULLE DONNE

Un aiuto dalle neuroscienze grazie alle tecniche di neuroimaging


In Italia e nei Paesi europei il femminicidio non costituiva uno specifico reato fino a quando nel 2017 l’United Nations Office on Drugs and Crime lo ha riconosciuto come “omicidio di una donna compiuto nell’ambito familiare, ovvero dal partner, da un ex partner, o da un parente”. Ciononostante questo crimine continua a essere commesso, anzi, la violenza sulle donne è dilagata.

A contrastarla non è stata finora sufficiente l’estensione di una rete sociopsicologica nazionale composta da istituzioni, enti locali, centri antiviolenza e associazioni di volontariato che si impegnano ogni giorno per affermare un’autentica parità di genere, lottano contro stereotipi e pregiudizi e incoraggiano le vittime di violenza a rivolgersi alle istituzioni per essere aiutate.

È senza dubbio importante incoraggiare le donne a parlare della violenza subita e a denunciarla alle forze dell’ordine, ma ciò non le protegge dalla violenza maschile. L’unica arma efficace è la prevenzione. Ancora oggi la società non riesce a identificare tempestivamente i soggetti violenti e a renderli inoffensivi prima che commettano la violenza.

Eppure le neuroscienze hanno chiarito una buona parte dei meccanismi biologici che sono alle origini della violenza e hanno indicato interventi rapidi e mirati per prevenire i comportamenti violenti, incominciando dai bambini che subiscono violenze e abusi i quali, se non curati, diventeranno uomini violenti.

190204_Guiso-01

Freud interpretò numerosi aspetti della vita molto lontano dalla realtà e dal reale funzionamento del cervello ma intuì che la caratteristica fondamentale del cervello umano è la plasticità e che l’impronta biologica del cervello nel primo periodo di vita decade con l’età. Queste intuizioni sono state confermate negli ultimi decenni dalle neuroscienze, grazie alla tecnologia neuroimaging che ha reso possibile analizzare e documentare, come mai prima d’ora è stato fatto, l’architettura funzionale del cervello umano, e ha identificato le aree cerebrali che influenzano i comportamenti, dimostrato l’esistenza di reti neurali tra un’area e l’altra e sfatato l’ipotesi a lungo perseguita che i fenomeni emotivi, sociali e cognitivi si realizzano in regioni cerebrali separate.

Hanno inoltre fatto comprendere attraverso la mappatura delle lesioni (anche in base alle misure fisiche della risposta neurale) come il cervello umano crea la mente e come un cervello lesionato può condurre alla violenza. Stanno inoltre acquisendo sempre più importanza nello studio delle alterazioni cerebrali causate da patologie vascolari, neurodegenerative e tumorali. Hanno permesso la comprensione di parte di alcuni meccanismi cerebrali che potrebbero essere alla base della violenza e hanno indicato nella genetica, nell’ambiente e in una serie di eventi casuali accaduti durante lo sviluppo (che lasciano traccia nel cervello) i fattori che scatenano i comportamenti violenti. Hanno rivelato che anche l’ipotalamo, la connettività interemisferica e le aree corticali coinvolte nell’elaborazione visiva sono responsabili dei comportamenti.

Dai dati ottenuti con queste tecnologie è emerso un modello di circuito nervoso del comportamento aggressivo che coinvolge aree cerebrali interconnesse e coinvolte nella reattività emotiva, nella regolazione delle emozioni e nel controllo cognitivo. È stato così evidenziato che gli uomini violenti, rispetto al resto della popolazione, hanno una prevalenza maggiore di traumi cranici o lesioni cerebrali in quelle stesse strutture che coinvolgono le regioni del lobo temporale orbito-frontale e anteriore responsabili dell’instabilità emotiva, delle intuizioni sociali compromesse e dello scarso controllo degli impulsi.

Hanno dimostrato che le emozioni sono risposte a impulsi che coinvolgono la valutazione cognitiva, i cambiamenti fisiologici e i feedback nelle reti neurali in differenti aree cerebrali; che è possibile comprendere la violenza che si scatena nei conflitti interpersonali studiando i meccanismi cerebrali che collegano l’interpretazione cognitiva e la risposta emotiva nelle relazioni tra partner. Hanno inoltre suggerito che la violenza che si scatena sul partner è probabilmente il risultato della fusione tra storia personale, memorie emozionali risvegliate, funzioni esecutive alterate, ricordo dei traumi e credenze cognitive implicite.

Gli studi di neuroimaging hanno documentato le differenze nella struttura del cervello e nelle reti neurali che si ritengono conseguenze dell’esposizione al trauma nell’infanzia. Hanno evidenziato cambiamenti nella funzione dell’emisfero destro, in particolare negli adulti con disturbo post traumatico da stress che sono stati abusati sessualmente o fisicamente da bambini, alterazioni che conducono all’incapacità a sentire, occuparsi e riflettere sui cambiamenti soggettivi, stimolando la reattività o la dissociazione intesa come fuga dall’affetto travolgente. Hanno mostrato che l’esposizione a traumi infantili ha conseguenze sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrenale, nelle reti neurali e nella funzionalità di diverse aree del cervello, e corrisponde a una riduzione del corpo calloso, un’area essenziale di fibre nervose che collegano l’emisfero sinistro e destro della corteccia.

Hanno documentato che l’esposizione a uno stress insopportabile crea una frattura sinaptica che altera il processo emozionale e che danni nei circuiti limbici corticali e subcorticali destro-emisferici rendono difficile la regolazione delle emozioni. Hanno rilevato interruzioni nel sistema endogeno degli oppiacei nei bambini traumatizzati che mostrano difficoltà a essere confortati, cambiamenti nei sistemi della dopamina e della norepinefrina-epinefrina implicati nel produrre una risposta disadattiva alla minaccia, cambiamenti persistenti nella sintesi e rilascio dei neurotrasmettitori che predispongono da adulti a disturbi dell’umore, dell’ansia e della personalità.

Dal punto di vista clinico, permettono di individuare le anomalie cerebrali, condizionare una risposta cerebrale e persino modificare il modo di pensare di un individuo attraverso stimolazioni adeguate del tessuto cerebrale.

Per sconfiggere la violenza è quindi necessario considerare anche il passato biologico dell’individuo a elevato rischio di violenza e intervenire precocemente sul suo cervello, non solo per impedirgli di commettere la violenza bensì per curarlo. L’intervento tardivo gli pregiudicherà ogni possibilità di guarigione.

In futuro, la società sarà costretta a rivedere i propri concetti sul funzionamento del cervello e ad affrontare tutte le implicazioni culturali, sociali e operative che tali rivisitazioni comportano. Dovrà essere in grado di intervenire tempestivamente sull’aspetto neurologico senza però trascurare quello psicologico, sociologico e giuridico. Dovrà inoltre considerare che la violenza può manifestarsi in fasi molto precoci della vita e quindi chiedersi come intervenire ad esempio se un bambino ha tendenza a sviluppare violenza, se è giusto giudicarlo violento o se è più giusto non fare nulla lasciando che poi uccida o faccia del male ad altri.

L’approccio interdisciplinare suggerirà come utilizzare le scoperte delle neuroscienze per prevenire la violenza ingiustificata.

Giovanna Guiso

190204_Guiso-03



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. Tutti i campi sono obbligatori.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.


Sullo stesso tema


18 settembre 2021

RIDURRE LE EMISSIONI NOCIVE

Gianluca Gennai



24 marzo 2021

LE DONNE “PROCREATICI” RIFLETTONO

Antonella Nappi



8 dicembre 2020

CENSIS “LITALIA È UNA RUOTA QUADRATA”

Massimo Cingolani






31 agosto 2020

15-MINUTES CITY: MILANO E’ PRONTA?

Giorgio Origlia



21 febbraio 2020

NEL MONDO DELLE STARTUP: FYBRA

Luca Barbieri


Ultimi commenti