31 agosto 2020

15-MINUTES CITY: MILANO E’ PRONTA?

L’esperienza di Parigi e Barcellona: un modello


L’operazione “città in 15 minuti” è un’idea non nata a Milano e quindi forse difficilmente applicabile alla morfologia della nostra città. Vale la pena di provare ma senza inutili forzature.

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Eccoci, anche Milano avrà il suo progetto “15-minutes city”. Grazie al fatto che fa parte del C40, guppo che riunisce 40 città metropolitane di tutti i continenenti su progetti urbani condivisi, e che il sindaco Sala ne è stato il chairman, questo progetto è stato adottato anche da Milano, seppure in ritardo e con molta cautela rispetto ad altre città. Esso per ora sarà sviluppato in due zone molto limitate, quelle circostanti a via Lazzaretto, adiacente a corso Buenos Aires, e all’Isola.

Ma innanzitutto cos’è il progetto “15-minutes city”?

Lo slogan “15-minutes city”, promosso anni fa dal professor Carlos Moreno della Sorbona, è divenuto cavallo di battaglia delle sindache Anna Hidalgo e Ada Colau, rispettivamente a Parigi e a Barcellona, e in varie forme condiviso dal gruppo di lavoro C40.

L’obiettivo sotteso è quello di rivedere la distribuzione e articolazione delle funzioni all’interno delle città esistenti rendendo raggiungibili in una passeggiata a piedi o in bici di non più di un quarto d’ora dalla propria abitazione la maggior quantità possibile di destinazioni abituali (centri commerciali, servizi pubblici, parchi, luoghi di lavoro e di svago), riducendo così sia il bisogno di ricorrere a mezzi di trasporto meccanici che i tempi di spostamento, per soddisfare le più diffuse necessità umane. Si crerebbero così ampie zone protette dal traffico di puro attraversamento, in prevalenza pedonali e comunque parzialmente autosufficienti rispetto alle normali esigenze quotidiane della popolazione ivi residente.

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Obiettivo ambizioso e arduo da raggiungere, vista la rigidità dei diritti acquisiti e del sistema immobiliare, nonchè delle abitudini radicate: però con il perdurare dell’emergenza da Covid 19, che ha da un lato portato a riscoprire il valore dell’economia di prossimità, e dall’altro ha reso palesi le patologie insite nella “normalità” di prima, forse più facile da raggiungere.

Al di là delle apparenze infatti lo scopo del progetto non è quello di ricostruire un idilliaco clima del villaggio in città con qualche strada chiusa al traffico, ma quello ben più serio di aggredire alla radice una delle malattie pericolose insite nella nostra “normalità”: la totale dipendenza dall’uso di mezzi di trasporto meccanizzati per qualsiasi attività umana.

Dipendenza che si traduce in una dittatura dell’economia dell’accessibilità sull’economia della prossimità, riducendo il territorio in cui si vive a “merce” il cui valore dipende soprattutto dal suo grado di infrastrutturazione, spingendo lo sviluppo di forme di mobilità sempre più veloci e pervasive. Quella che chiamerei ironicamente la “sindrome di Star Trek”, che ci ha colpito tutti per decenni: il supermercato meno caro, il gelataio più buono, il luogo di vacanza più attraente, la casa migliore, le opzioni migliori stanno sempre altrove, a anni luce di distanza, e solo se ci spostiamo il più possibile e il più rapidamente possibile, con auto, treni, metropolitane, aerei o monopattini elettrici, comunque a più di cinque chilometri all’ora, pensiamo di poterle soddisfare.

Ma se l’obiettivo è la sostenibilità, quell’economia dell’accessibilità basata sull’esasperata mobilità delle persone, resta, e resterà a lungo, quanto di meno sostenibile esista al mondo.

Il sistema dei trasporti mondiale consuma ogni anno circa il 20% dell’energia totale prodotta, che diventa il 60% se consideriamo solo i combustibili fossili. E lo sviluppo della motorizzazione elettrica nei prossimi anni non renderà la mobilità più sostenibile finchè non sarà risolto il problema dello smaltimento delle batterie, mentre continuerà a consumare ogni anno un centinaio di miliardi di tonnellate di materiali (metalli, plastica,vetro), checchè se ne dica solo in parte riciclabili.

Ma ancor più grave è l’impatto sul territorio, visto che stimola da un secolo lo sviluppo sparso degli insediamenti residenziali, produttivi e commerciali, trascinandosi dietro un consumo del suolo per le relative infrastrutture (strade, parcheggi, vie ferrate) che supera in percentuale il 50% del totale, cioè persino di più di quello degli edifici stessi. Poi c’è il tempo che passiamo a spostarci, anch’esso una risorsa non rinnovabile, che ciascuno di noi sottrae al lavoro, allo svago e al riposo: in media un’ora e mezza per persona al giorno. E la salute: di traffico si muore, sia per l’inquinamento che per gli incidenti.

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La “mobilità sostenibile”al livello attuale non è altro che un ossimoro.

Se proviamo a uscire dalla favola che la ingloba, quella del Progresso Sostenibile, l’unica cosa che possiamo fare è ridurre la mobilità meccanizzata delle persone al minimo possibile, mitigandone gli effetti, che saranno sempre e comunque deleteri sull’ambiente.

E ciò si ottiene solo eliminando la maggior parte del traffico pendolare prodotto dall’indifferenza localizzativa, riportando il lavoro, l’istruzione, i servizi essenziali vicino ai luoghi dell’abitare, ovvero l’opposto del processo di concentrazione funzionale e di delocalizzazione che sinora è stato considerato “il progresso”.

Dunque l’ambizione del progetto “15 minutes city” è quello di ristabilire la priorità dell’economia di prossimità sull’economia dell’accessibilità nei criteri di formazione e gestione degli insediamenti urbani, come unica condizione possibile per la loro sostenibilità.

Comunque alcune città ne stanno già sperimentando la messa in pratica su quartieri-campione, con procedure, obiettivi e tempi diversi. Senza occupare troppo spazio prendiamo come esempio solo quello di Barcellona, già in parte realizzato, come stimolo per il progetto in erba per Milano.

A Barcellona il progetto ha avuto inizio nel 2016, ed è giunto alla fase esecutiva alla fine del 2019 creando per ora in due zone della città, Poble Nou e Sant Antoni due “superilles”, ovvero megaisolati urbani di circa 500 x 500 metri, dalle quali è escluso il traffico di attraversamento, potenziando invece al loro interno le aree pedonali, verdi, di sosta, le piste ciclabili e in parte la dotazione di servizi di quartiere.

Ciò che rende interessante il lavoro fatto a Barcellona è in primo luogo il modo in cui il progetto è stato portato avanti, in forma partecipativa, coinvolgendo abitanti, commercianti e gestori di servizi pubblici in numerose assemblee decisionali, dal 2017 al 2019. Non quindi decisioni calate dall’alto, ma stimolando la popolazione ad “appropriarsi” delle scelte riguardanti il loro quartiere.

In secondo luogo, essendo i quartieri già modificati in base al progetto, è possibile valutarne gli effetti. Pochi dati significativi come esempio, quelli per la “superilla” di Sant Antoni: traffico di attraversamento ridotto dell’82%, NO2 ridotta del 30%, traffico pedonale aumentato dell’28%.

E da notare che cittadini e commercianti, pur dipendenti dai mezzi di trasporto, non hanno mai seriamente ostacolato il progetto: tanto che i principali problemi emersi riguardano il conflitto tra pedoni e mezzi leggeri (bici e monopattini, diffusissimi a Barcellona).

Bisogna però dire che si tratta di zone centrali già vitali e ben dotate di servizi, e che per ora nulla si dice di dove sia finito il traffico di attraversamento. Il progetto però riguarderà anche i quartieri più periferici, popolari e meno dotati di servizi, e la vera sfida sarà, per Barcellona come per Milano, arrivare a ricreare in tutti questi le stesse condizioni abitative.

Quanto aI passaggio fondamentale per la riduzione del bisogno di mobilità, ovvero la creazione nei quartieri stessi di opportunità di lavoro per i loro abitanti, si fa conto sul telelavoro e sullo sviluppo di aree per il co-working: un trend in progresso sicuro ma lento, che renderà numerose categorie di lavoratori sempre meno obbligate a spostarsi quotidianamente per lavoro in auto o sui mezzi pubblici, disponendo di spazi adatti vicino alla propria abitazione..

Del progetto “15 minutes city” a Milano invece si può dire per ora poco. Gli interventi previsti sono limitati a piccole zone e modesti, non vanno oltre la pedonalizzazione (per giunta “temporanea”) di alcune strade, l’aggiunta di aree di sosta e di gioco, e limiti di velocità a 30 all’ora. Sarà almeno messo in atto un processo partecipativo, come a Barcellona? Auguriamoci di si.

Si porrà mano a serie limitazioni del traffico veicolare? A Barcellona almeno si è tentato di farlo, ma a Milano dubito che avverrà, gli strumenti messi in campo nel Piano per la Mobilità Sostenibile, il PUMS milanese, non sembrano adeguati per riportare alla sostenibilità un sistema di mobilità meccanizzata che ha raggiunto livelli patologici.

Patologicità che oltre ad essere ben visibile nella congestione dei traffici, nell’inquinamento, nello spreco di risorse, continuerà a obbligarci a lunghe trasferte per garantirci ciò che ci occorre per vivere. Ma anche allontanandoci da quell”amour des lieux” richiamato da Moreno che ha reso belle e vivibili le città antiche, e che non a caso è irrimediabilmente assente nelle espansioni della città moderna.

Giorgio Origlia



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  1. Daniela Da RivaDa anni nella mia zona (Loreto-Lambrate), periferica, ma non troppo, chiudono negozi, attività commerciali, imprese artigianali, perché oberati da tasse ed orpelli burocratici che costringono ad una amministrazione pesante e costosa. Ben venga dunque la "15 minutes City"; potrebbe stimolare tanti giovani, ora disoccupati, ad intraprendere attività in proprio. Tutto ciò richiederebbe però una revisione della tassazione e della burocrazia a livello nazionale e non solo comunale.
    2 settembre 2020 • 15:40Rispondi
  2. AnnaConcordo totalmente sul concetto di prossimità, tutto l'essenziale a disposizione nell'arco di 15 minuti, fondamentale soprattutto per donne (spesso con carico di cura) anziani e bambini: ma sull'inibire gli attraversamenti... piuttosto rallentiamoli ragionevolmente... Qualcuno si ricorda di Buchanan anni'60, dei suoi "corridoi stradali" veloci, con le "stanze" residenziali a lato? Che noi credevamo, temendo la ghettizzazione, di avere superato facendo del territorio una "rete" di trasporti pubblici in cui ogni punto avesse uguale accessibilità? Diverso se in ogni "stanza" ci fosse ora anche la possibilità di lavoro, ma come la mettiamo con la estrema "mobilità" (nello spazio e nel tempo) di impieghi senza più posto fisso e anche all'interno delle relazioni famigliari e dell'uso del tempo libero, mobilità che caratterizza le popolazioni di oggi? Forse meglio un approccio anni 70/80, vi ricordate il "policentrismo"? Insomma niente di nuovo sotto il sole, ma la necessità di una grande attenzione al progetto urbano, nuovo e di riqualificazione, perché tutto ciò che serve quotidianamente sia veramente a portata di pedone in 15 minuti, ma ciò che è raro e speciale, da un punto di vista soprattutto sociale e culturale (il centro, la Scala, la Darsena...) sia pubblicamente accessibile da chiunque, da dovunque, per una parità territoriale in senso lato, non demonizzando dunque anche l'economia di accessibilità, o di rete che dir si voglia
    2 settembre 2020 • 17:37Rispondi
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