13 novembre 2018

GRANDI OPERE E AUTONOMIE LOCALI

A chi convengono questi investimenti e chi li paga


Innanzi tutto converrà richiamare una serie di fatti incontrovertibili: 1) i piani di investimento in infrastrutture lasciati in eredità dal governo Gentiloni comportano un impegno di spesa che supera i 130 miliardi. Molte di queste opere sono estremamente controverse; 2) la mobilità di merci e passeggeri, in Italia come negli altri Paesi, è per circa il 75% di breve distanza, mentre le opere maggiori sono indirizzate prevalentemente alla lunga distanza; 3) i tempi di realizzazione di queste sono molto lunghi e quindi gli effetti lontani nel tempo. I costi di costruzione italiani risultano eccezionalmente elevati (una stima del Sole24Ore per un’opera presa a campione ha dato risultati pari a più del triplo di una analoga opera francese); 4) tra le opere di gran lunga più onerose vi sono quelle ferroviarie che, al contrario di altre, sono interamente a carico delle casse pubbliche, non certo floride. Ovviamente ci sono anche opere utili, ma l’assenza di valutazioni esplicite delle legislature passate ne rende difficile l’individuazione; 5) i contribuenti, che sopporteranno i costi, sono molti e disinformati. Quelli che avranno i benefici sono pochi, ma informatissimi e vocali.

181113_PontiRamella-02Questo quadro sommario consente di individuare due incentivi perversi per le scelte politiche nel settore:

1) A livello locale vi è un forte incentivo a dichiarare qualsiasi opera indispensabile e urgente, non essendovi costi di sorta che ricadano a tale livello, ma solo benefici per imprese, occupazione ed utenti, che ovviamente si traducono in rilevanti risultati di consenso elettorale (con alcune rumorose eccezioni, spesso non meno ideologiche di quelle dei sostenitori). Ogni argomentazione è ammessa, fino a dichiarazioni di catastrofi imminenti se l’opera non viene finanziata, di crisi occupazionali anche se l’occupazione creata localmente è risibile rispetto ad usi alternativi di quelle risorse. La casistica sarebbe molto vasta.

2) A livello centrale gli incentivi perversi sono solo in parte coincidenti (i voti locali hanno certo anche impatti nazionali). Ma ve ne sono di specifici, e potenti:

– data la lunghezza dei tempi di costruzione nessuno risponderà, neppure politicamente, di eventuali risultati negativi.

– l’impatto immediato sul debito pubblico di aprire cantieri per opere di dubbia utilità è modesto, ma ovviamente non così nel medio periodo, quando i costi crescono e si assommano.

– il settore delle opere civili per ragioni tecniche è poco apribile alla concorrenza internazionale (è sufficiente verificare i soggetti che si aggiudicano le gare, quando si fanno. Per l’AV occorre ricordare che non ne son state fatte). Chiudere cantieri è poi politicamente difficilissimo.

– Dati i meccanismi di distribuzione reali delle risorse europee, anche i trattati internazionali che vengono usati per parlare di “finanziamenti europei” rispondono di fatto a richieste dei paesi interessati. Si tratta essenzialmente di “partite di giro” rispetto ai versamenti dei paesi stessi.

In sintesi le motivazioni sostanziali delle scelte infrastrutturali, rispondendo a questi tipi di incentivi, sono definibili come fenomeni di “cattura”, cioè di scambi di utilità che con l’efficienza hanno pochissimo a che spartire.

Che fare? Si potrebbe ispirarsi alla normativa francese, e di altri paesi, che ha incominciato a richiedere la partecipazione finanziaria degli enti locali ad alcuni tipi di infrastrutture.

Si tratterebbe di un decentramento parziale ma molto rilevante: se per esempio fosse in proporzione ai benefici economici generati, data la prevalenza di traffici locali, la quota locale sarebbe nettamente maggioritaria rispetto alla quella nazionale.

Tale decentramento per essere efficace dovrebbe ovviamente riguardare sia il prelievo delle risorse (tasse e tariffe, cioè quanto dovranno pagare gli utenti locali e quanto i contribuenti), che la spesa, cioè cosa costruire.

Gli incentivi si capovolgerebbero, sia in favore della minimizzazione dei costi, sia verso le opere economicamente più efficienti e socialmente più efficaci. E tutto ciò sarebbe controllato più da vicino da soggetti che con questo schema diverrebbero anche i pagatori delle opere, cioè soggetti molto incentivati ad un attento monitoraggio delle scelte e dei risultati. Si passerebbe da Incentivi perversi ad incentivi virtuosi.

E vi sarebbe anche un rilevante contenuto di equità sociale: la quota maggiore dei costi sarebbe a carico di chi ne gode i benefici (in generale poi i contenuti distributivi delle grandi opere sono spesso dubbi o esplicitamente regressivi). Analisi economico-finanziarie delle alternative possibili, finora osteggiate per paura di perdere trasferimenti dallo Stato sarebbero forse considerate più attentamente. Le parti politiche (di destra e di sinistra) che per decenni hanno motivatamente chiesto maggior autonomia fiscale (pur con compensazioni nazionali), dovrebbero rallegrarsene.

In tale ottica appare assai condivisibile la proposta del governatore del Piemonte Chiamparino di autofinanziare la grande opera che più sembra interessare quella regione: sarebbe davvero interessante vedere come risponderebbe in un ipotetico referendum una famiglia media piemontese alla richiesta di contribuire all’opera con 4.000 euro di maggiori tasse.

Marco Ponti – Francesco Ramella

Bridges Research

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