8 febbraio 2022

IL PARTERRE DI VIA PACINI E ALTRE UTOPIE URBANE

Le incertezze della politica della mobilità


l'olista

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Il tema della mobilità per noi milanesi ma non solo sta diventando un tema spinoso: anche se aumentano le piste ciclabili è evidente che l’invasione del traffico motorizzato, con tutto il suo portato di rumore, inquinamento e spazio pubblico sepolto sotto almeno 15 chilometri quadrati di auto in sosta, non trova alcun argine.

A questo proposito spiccano in positivo alcune iniziative catalogabili come “urbanismo tattico”, l’ultima delle quali riguarda il lungo parterre alberato di via Pacini, in corso di liberazione dal cantiere per la impermeabilizzazione del tunnel della linea M2.

Impossibile non essere d’accordo con le intenzioni dichiarate dall’assessora alla mobilità Arianna Censi, che si propone di “restituire il parterre alla città e ai cittadini, sottraendola al caos dei parcheggi selvaggi”.

Ma quanti degli abitanti della zona, povera di aree di parcheggio oltreché sommersa dalle auto dei pendolari, al posto delle panchine e degli spazi pedonali non preferirebbero piazzarci su di nuovo la loro macchina, riducendo di un po’ il fastidio di dover vagare ogni giorno e a lungo alla ricerca di un posto libero in cui parcheggiare?

La questione non riguarda solo il parterre di via Pacini: tutti i viali alberati di Milano ospitano auto in sosta, che accerchiano minacciose gli sparuti giardinetti che qualche condominio ha osato realizzare sotto gli alberi, e tutti i marciapiedi sono diventati per i pedoni dei veri percorsi di guerra, invasi da ponteggi per il rifacimento delle facciate, dehor, bici e monopattini in movimento e in sosta. Anche la sosta di moto sui marciapiedi, pur illecita fuori dagli spazi segnati tanto quanto quella delle auto, si è conquistata la liceità de facto perché nessuno le multa, benché le forcelle di sollevamento abbiano ormai ridotto a una impraticabile grattugia ampie porzioni di marciapiedi. 

Ma il mugugno che serpeggia rimane lo stesso, dove mettiamo le auto o le moto che ci siamo comprati, e di cui non possiamo fare a meno per andare al lavoro, a fare la spesa o a portare i figli a scuola? 

Ecco la frase chiave: “di cui non possiamo fare a meno”.

Come mai, si potrebbe dire, si pensa così in una città come Milano, ampiamente servita da una rete di mezzi pubblici e stazioni? 

Ovvio che alla radice sta il valore dato al tempo: valore economico, sociale, emotivo che il tempo assume solo una volta “depurato” di quelle sue parti che non hanno mercato, che sono uno scarto o uno spreco, e tra queste il tempo impiegato per spostarsi sul territorio.  

Si calcola che in media un quinto del tempo della  nostra vita attiva (Istat) lo passiamo spostandoci a piedi o su mezzi meccanici di trasporto da un luogo all’altro, per studio, lavoro, o gestione della sopravvivenza. Essendo equiparabile a un costo, che oltretutto sottrae quel tempo a scopi più piacevoli, è ovvio che siamo tentati di ridurlo al minimo. 

E per farlo abbiamo disponibili solo due modelli di relazione con l’ambiente: ridurre i tempi di spostamento scegliendo le opportunità (luogo di lavoro, servizi, commercio) più vicine a dove abitiamo, che chiameremo il modello della prossimità, oppure ridurre i tempi di spostamento muovendoci più velocemente sul territorio con mezzi meccanici per raggiungere opportunità anche molto lontane, che chiameremo il modello della mobilità veloce. 

La scelta del primo modello per ridurre il tempo speso negli spostamenti, e quindi il bisogno di mezzi meccanici, avrebbe richiesto interventi pubblici decisi e forti, tesi a stimolare la nebulizzazione delle opportunità di lavoro, a creare una rete diffusa di piccole entità polifunzionali integrate nell’abitato, a portata di piede ma molto efficienti, a limitare la dotazione di infrastrutture e parcheggi in favore di mezzi di trasporto pubblici diffusi o in sharing: un modello territoriale che oggi si tenta di riprodurre in alcune metropoli e su piccola scala, detto della “città dei 15 minuti”, interpretabile come rete di insediamenti ad alta densità con tipologie miste, comunque ben interconnessi per le esigenze più specializzate, ma relativamente autosufficienti per le esigenze quotidiane e con forti limitazioni al traffico di veicoli motorizzati. 

Il modello, dove applicato, sta funzionando, tanto da convincere i più riottosi (in genere i commercianti) e da piegare alcune organizzazioni commerciali a sviluppare accanto al tradizionale ipermercato raggiungibile solo in auto anche una rete di piccoli market di quartiere, o da sviluppare per il lavoro nel settore terziario spazi co-working a poca distanza dalle abitazioni, paralleli o alternativi a quelli delle sedi centrali.

Sappiamo però bene che la sua applicazione sarà sempre e solo parziale e limitata ad aree urbane già dense, miste e ricche di servizi, e rimarrà improponibile per insediamenti periferici o dispersi sul territorio. Non solo perché edificati in base alla “civiltà dell’automobile” che sostiene il modello della mobilità veloce, e quindi ad esso vincolati finché esisteranno. Ma anche e soprattutto perché il modello della prossimità è incompatibile con i processi di specializzazione, concentrazione e globalizzazione sui quali fonda il suo potere l’economia capitalista, privata o di stato. 

Anche perché ormai questi processi sono stati ormai assimilati dalla popolazione come valori irrinunciabili, sinonimo di progresso, distinzione e potere per gli abitanti stessi, contro l’immagine statica e provinciale del modello della prossimità, e come tali infusi nella politica del territorio. E nessun governo del territorio in carica rischierà mai di suicidarsi mettendoli in discussione.

Il modello della mobilità veloce quindi ha vinto, per inerzia politica ma anche per acclamazione popolare.

Peccato che a nessuno sia venuto in mente fino a pochi anni fa che una esasperata infrastrutturazione del territorio avrebbe comportato la sua cementificazione a tappeto, alterando definitivamente gli equilibri naturali dai quali dipende il nostro benessere, in barba a qualsiasi consapevolezza sugli effetti della impermeabilizzazione del suolo, sull’inquinamento e sui consumi energetici, per giunta a costi economici e sociali stratosferici. 

Ad esempio le politiche di contenimento dell’uso del suolo non considerano il fatto (dati Ispra) che già oggi la metà del suolo impermeabilizzato è tale perché occupato non da edifici, ma da strade e parcheggi. E che il consumo di risorse e l’inquinamento generato dal modello della mobilità veloce, se si tiene conto non solo dei veicoli ma anche delle infrastrutture di cui necessitano e della loro gestione, è enorme. 

E’ evidente che il modello della mobilità veloce continua a prevalere anche in ambito pubblico, basti pensare alla priorità data agli investimenti per l’Alta velocità , anch’essi sproporzionati rispetto ai benefici, rispetto a quelli per le reti di trasporto pubblico locale. 

Ma nel settore privato non sarà certo la conversione all’auto elettrica la magia che risolverà tutti i problemi suddetti. A parte l’enorme impegno di conversione industriale dell’industria automobilistica, che saranno i consumatori a pagare, a parte la certezza che per vari decenni per produrre l’elettricità necessaria a far marciare le auto elettriche continueremo a bruciare combustibili fossili, è noto ad esempio che l’inquinamento da PM10 è prodotto dall’abrasione delle strade e dal consumo dei pneumatici, quindi da qualunque veicolo, non meno che dalla combustione dei carburanti.

Tornando alla piccola rivoluzione annunciata in via Pacini a Milano, ben venga, ma rimarrà piccola. Forse qualcuno degli abitanti incomincerà a domandarsi se conviene possedere un’auto  anziché sfruttare il car sharing o muoversi con i mezzi pubblici, ma non aspettiamoci miracolose conversioni in massa, l’imprenditoria ha tutt’altri interessi e sa sfruttare bene il fascino delle nuove tecnologie. 

Quando tutti saremo diventati felici proprietari di un’auto elettrica avremo strade sicuramente meno rumorose, forse (le opinioni sono discordi) meno inquinamento, almeno a livello locale, ma dal punto di vista urbanistico avremo sempre bisogno di asfalto su cui muoverci e la nostra nuova auto elettrica occuperà comunque esattamente lo stesso posto di una vecchia e superata auto a benzina o diesel.

L’Olista Pensante 

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  1. Andrea Sacerdotise non ci si fosse opposti in modo pregiudiziale a tanti posteggi sotterranei che quando costruiti hanno valorizzato piazze e vie sommerse dalle auto in sosta ( vedi Piazza S. Ambrogio, Piazza Risorgimento , etc ) , forse sarebbe stato meglio !
    9 febbraio 2022 • 10:36Rispondi
    • Cesare MocchiLasciamo perdere piazza Sant'Ambrogio che trattato come parcheggio a rotazione (e non solo pertinenziale, come sarebbe stato ragionevole) ha peggiorato e di molto il traffico della zona. Comunque è vero, la mobilità individuale non è più di tanto comprimibile in un mondo sempre più flessibile nei tempi e nelle attività, quindi i parcheggi servono e sottoterra danno meno fastidio. Ma parcheggi a rotazione in centro storico in aree ben servite da treni e metropolitane quello no, è da perfetti ignoranti! Le cose vanno fatte bene, quella no, non lo è...
      9 febbraio 2022 • 18:57
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