25 ottobre 2018

DE CAPITANI, IL PODESTÀ DEGLI INDUSTRIALI MILANESI

Prima liberale, poi fascista convinto, fu soprattutto un nemico giurato del socialismo riformista


Negli anni si è consolidata nell’opinione pubblica milanese una lettura della storia comunale novecentesca rassicurante, per la quale il secolo è stato un continuo progresso, solo in parte frenato dagli eccessi del fascismo (che però si sottolinea in città non ebbe quella presa e popolarità che ebbe per esempio a Roma), con una borghesia illuminata, un cattolicesimo sociale e un socialismo moderato e riformista che seppero dialogare tra loro per fare di Milano la città più europea d’Italia.

181030_Marossi_01Questa lettura in qualche modo agiografica tende quindi a minimizzare le profonde spaccature, le durissime polemiche, gli scontri, le lotte, le infamie e necessariamente “dimentica” quei personaggi che questo lato più sanguigno della storia cittadina hanno impersonato.

Così come il buon sindaco Filippetti viene scarsamente citato in quanto esempio preclaro del massimalismo, altrettanto avviene per un protagonista assoluto della vita politica milanese dei primi 4 decenni del ‘900: Giuseppe De Capitani d’Arzago oggi ricordato più per il palazzo di foggia neoseicentesca (ma costruito nel 1929) in via Santa Valeria grosso modo dove un tempo esisteva il cosiddetto “ritiro”, asilo per le prostitute pentite dove fu imprigionata per oltre un decennio suor Virginia Maria de Leyva, più nota come la Monaca di Monza.

De Capitani d’Arzago, di nobile famiglia, marchese dal 1923, fu eletto al parlamento nel 1913 per lo schieramento liberale nel collegio di Milano I, battendo il repubblicano Eugenio Chiesa e aderì al gruppo degli amici di Salandra in polemica con Giolitti poco amato dai conservatori milanesi.

Nemico giurato del socialismo riformista milanese e in particolare di Caldara, nel 1914 per impedire la sua vittoria che avrebbe minacciato “l’avvenire quieto e industre di Milano” diede vita a una lista chiusa a qualsiasi candidato in odore di giolittismo aperturista; forse anche grazie a questa “cronica intransigenza” come la definirà Giolitti i socialisti vinsero le elezioni del 1914.

Membro dell’Associazione antisocialista milanese, un sodalizio costituito da industriali, fu interventista e aderì al Fascio Parlamentare di difesa nazionale, che aveva come primo obbiettivo combattere i “disfattisti” in prima fila tra questi ovviamente i parlamentari socialisti.

Presidente degli Ospedali mobili al fronte durante il conflitto, la sua prima iniziativa a guerra finita fu lo stesso 4 novembre quella di chiedere le dimissioni del sindaco Caldara perché “la grande maggioranza degli elettori milanesi considera le proprie finalità completamente diverse da quelle della Giunta” (tesi smentita clamorosamente dai successivi risultati elettorali).

Ma per De Capitani che già aveva chiesto lo scioglimento del comune durante la guerra era importante rimarcare la fine di ogni tregua politica con i “riformisti”.

Uomo di collegamento tra Salandra e Mussolini, De Capitani viene nominato Presidente della Sottocommissione parlamentare incaricata di indagare su “sussidi e assistenza ai combattenti e alle loro famiglie; spese dello Stato a pareggio dei bilanci delle province già invase dal nemico; liquidazione del materiale bellico; compensi e indennizzi in dipendenza di forniture per perdite determinate dallo stato di guerra”; vale la pena ricordare che studi recenti hanno evidenziato come la guerra costò in alcuni settori anche il 400% in più del dovuto. I lavori della commissione d’inchiesta partita con la roboante missione di svelare i profittatori di guerra e i loro illeciti finirà con un generale insabbiamento.

Nelle sue Memorie, Salandra ha scritto: “Il De Capitani era a Milano il più caro fra i miei amici, alla Camera non si era mai distaccato da me; ma era pure intimo amico di Mussolini, presso il quale rappresentava sentimenti e interessi dei conservatori milanesi…”.

Rieletto deputato fu sottosegretario al Tesoro nel primo governo Facta, rappresentando, come scrive la Treccani, la destra più conservatrice e filofascista.

Ben più significativo fu il suo ruolo nei giorni della presa del potere di Mussolini: fu infatti a capo della delegazione di industriali milanesi, Benni (Magneti Marelli), Olivetti, Conti, Crespi che cercò inutilmente di convincere il futuro duce a collaborare con Salandra presidente designato perché “lo stato di confusione anarcoide creava gravi danni al paese”. Mussolini respinse l’invito ma li rassicurò, come ricorda Pirelli: “L’obbiettivo della imminente azione fascista è il ripristino della disciplina, soprattutto nelle officine” (poi andò al Dal Verme ad assistere al Lohegrin di Wagner). Successivamente quando l’incarico venne infine affidato a Mussolini, De Capitani fu tra quelli che operarono per scongiurare l’ipotizzato ingresso al governo di qualche sindacalista e venne nominato ministro dell’Agricoltura.

Qui si sbizzarrì nel cancellare le timide riforme degli anni precedenti sopprimendo le commissioni governative incaricate di negoziare e di arbitrare le controversie di lavoro, abolendo le previdenze contro la disoccupazione agricola, revocando il decreto Visocchi per l’occupazione delle terre incolte, rilegittimando clausole vessatorie per mezzadri, sopprimendo associazioni. Scrisse Riccardo Lombardi in proposito: “Gli unici provvedimenti presi da quella “competenza” tecnica che è S. E. De Capitani, non sono stati ad altro indirizzati, ed altro esito del resto non hanno avuto, che quello di aggravare le condizioni già tristi della mano d’opera agricola, nella sadica voluttà di distruggere tutto ciò che i precedenti Ministri dell’agricoltura avevano fatto in questo campo…”

Dopo il commissariamento del comune si avvia lo smantellamento di tutti i presidi del progresso civile a partire dall’Istituto case popolari il cui direttore era Alessandro Schiavi; De Capitani viene nominato commissario della Società umanitaria di Milano con il compito di epurare (tra i primi licenziati Riccardo Bauer) e smantellare l’Ufficio Agrario, il Museo Sociale, tutti i servizi per l’assistenza dei lavoratori (creati in sinergia con il sindacato) e per gli emigranti (compresi i segretariati per l’emigrazione all’estero).

Nell’ottobre 1924, a Livorno, nel pieno della crisi Matteotti, al congresso dei Partito liberale cui avevano formalmente aderito Giolitti, Salandra, Mosca, Benedetto Croce, con la sezione milanese sostenne l’ordine del giorno favorevole ad una stretta collaborazione con il fascismo battuto con 10.880 voti favorevoli e 23.623 contrari; di li a poco lasciò il partito.

Nel marzo 1925 con Pirandello, Malaparte, Ungaretti, Marinetti, Pizzetti, Spirito, Di Giacomo fu tra i firmatari del manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile.

Nel 1926 , “in segno di riconoscimento della costante azione svolta per la rivalorizzazione nazionale”, ricevette la tessera fascista ad honorem, retrodatata al 23 marzo 1919.

Ma è il 1928 l’anno che lo inserisce nel bene e nel male tra i personaggi più importanti della storia cittadina del secolo scorso: Mussolini lo nomina presidente della Cassa di risparmio delle province lombarde, incarico che manterrà per 20 anni, succedendo ad un altro degli amici milanesi del duce: il prematuramente defunto Cesare Sarfatti, un tempo avvocato socialista di stretta osservanza turatiana, marito della più nota Margherita Grassini, protagonisti del ben noto “menage à trois”.

Ma non basta, il fascismo milanese è sconvolto dalla polemica tra il podestà Ernesto Belloni (industriale e professore) e Farinacci che lo accusa di affarismo e corruzione coinvolgendo nella vicenda anche Arnaldo Mussolini, dalle oscure vicende di prostituzione, tangenti, gioco d’azzardo del carismatico “fascista di sinistra” e federale Mario Giampaoli, da omicidi come quello di Erminia Ferrari, presunta amante di diversi gerarchi detta anche la “contessa del Viminale”, dagli attentati di aprile in Fiera (bomba con 18 morti), dalle fucilate nei locali della milizia (3 morti).

Il duce azzera i vertici del fascismo milanese e destituisce Belloni che finirà al confino sostituendolo (6 settembre 1928) con l’uomo nel quale ha maggior fiducia e che gode del rispetto della Milano “fascista ma assennata”: De Capitani D’Arzago che diviene il politico più importante della città, cumulando poteri che nessun amministratore cittadino, né prima né dopo, avrà mai.

Lo strapotere e un certo rigore moralista generarono forti gelosie tra fascisti della prima ora e non solo, tant’è che dopo poco più di un anno lascerà l’incarico di podestà (a succedergli sarà un altro rappresentante della illuminata nobiltà imprenditoriale milanese, Marcello Visconti di Modrone) per essere nominato senatore, e del Senato per diversi anni fu vicepresidente.

Fu commissario della Confederazione nazionale fascista del credito e assicurazione, presidente della Federazione nazionale fascista delle Casse di risparmio e dell’Istituto internazionale del risparmio, in pratica una delle figure più in vista del mondo finanziario italiano mantenendo il suo legame con la città grazie anche all’incarico di reggente della Veneranda Fabbrica del Duomo che conservò sino al 1945 salvandola dalla bancarotta, meritandosi la riconoscenza del cardinale Schuster e dei suoi successori che ancora nel 1986 lo definivano insigne benefattore. Fu anche in epoche diverse, Presidente del Trivulzio, della Fondazione Cesare Beccaria, della Casa del cieco di Guerra, commissario straordinario dell’Associazione per lo sviluppo dell’alta cultura, presidente dell’Associazione commercianti ed esercenti di Milano.

Come presidente Cariplo ebbe qualche merito, sua ad esempio fu l’iniziativa della costruzione del caveau della Cariplo, gioiello di ingegneria, progettato da Giovanni Muzio e Giovanni Greppi. Per costruire i cinque piani sotterranei, gli architetti si inventarono un “sottomarino” per isolare dall’acqua della falda i sotterranei: all’aumento del peso delle strutture realizzate all’interno, lo scafo si inabissò nell’enorme cratere creato dalla scavo, fino a toccare il suolo a circa venti metri di profondità. Inaugurato nel 1941 raccolse i tesori d’arte del Duomo, dell’Ambrosiana e di Brera durante la Guerra.

Quando ormai il fascismo era agli sgoccioli, cercò di riposizionarsi sul fronte del moderatismo cattolico, tuttavia come scrive Riccardo Lombardi: “Secondo il verbale del comitato per l’epurazione dell’alta dirigenza della grande industria la commissione ha deciso con voto unanime l’arresto di sei industriali (Puricelli, Belluzzo, Treccani degli Alfieri, Rocca, Bianchini e Marinotti) e il deferimento alla commissione per l’epurazione per i delitti del fascismo e gli arricchimenti illeciti di altri undici industriali (Carlo Faina, Prospero Gianferrari, Antonio Pesenti, Euclide Silvestri, Gianni Caproni di Taliedo, Angelo Ferrari, Luigi Candiani, Ferdinando Tesi, Gaetano Venino, Beniamino Donzelli, Giuseppe De Capitani d’Arzago: per gli ultimi tre non si è deciso l’arresto immediato “solo in considerazione della loro tarda età”) mentre nei confronti di Piero Pirelli si prevede la radiazione dalle cariche ricoperte.”

La vicenda terminò con un non luogo a procedere dell’ Alta Corte di Giustizia per le Sanzioni contro il Fascismo (ACGSF) perchè morì nel novembre del 1945.

Coerentemente e costantemente conservatore, reazionario e fascista, discreto anche se ragioneristico amministratore, De Capitani rappresentò una parte non sempre minoritaria della città che andrebbe ricordata e studiata, anche perché è ancora tutta con noi.

Walter Marossi

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  1. Giuseppe NigroBella e puntuale ricostruzione. Mi permetto una integrazione spero utile per chiarire la deriva fascista di De Capitani. Il presidente della CA.RI.PP.LL. ebbe un ruolo non secondario nel sollecitare Mussolini affinchè attribuisse alle Casse di Risparmio e al Credito Fondiario di quella lombarda la gestione dei beni ebraici confiscati con le leggi razziali.
    18 aprile 2019 • 10:20Rispondi
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