5 maggio 2021

È INESORABILE LA NOSTRA ESTINZIONE?

Se non cambiamo strada forse sì. L'illusione dei "prep"


romanoViviamo in tempi apocalittici. Nell’articolo di Emilio Battisti sulla transizione ecologica si legge nel sottotitolo “Ipotesi di estinzione del genere umano.” Ho seguito l’incontro da lui organizzato su questo tema e proprio in quei giorni stavo leggendo il libro Appunti da un’Apocalisse, un reportage di Mark O’Connell, scrittore e giornalista irlandese.

O’Connell esplora un certo mondo oscuro e reazionario, costituito sia da una classe media populista trumpiana e poco acculturata che da una élite di miliardari. Questa strana popolazione si sta attrezzando, con modalità diverse, per sopravvivere a un’Apocalisse che si sta avvicinando in modo inesorabile, seppur al rallentatore, secondo alcuni.

Il cambiamento climatico ha portato drammaticamente alla luce la fragilità e l’instabilità della società in cui viviamo e se faremo un uso sconsiderato delle tecnologie si arriverà al collasso. Nel libro, parlando del disastro di Černobyl, l’autore ricorda come il progresso tecnologico racchiuda in sé l’idea stessa di catastrofe.

Mentre la distanza tra una certa retorica e concrete azioni politiche appare molto evidente chi non si accoda al pensiero stereotipato, c’è chi visibilmente, e senza mezzi termini, se ne approfitta della drammatica situazione attuale per accelerare la crisi ambientale e catapultarci in un mondo che presto non sarà più sostenibile.

Prendo spunto da un’osservazione del professor Vincenzo Ruggieri, che parla di due possibili forme di approccio al grande tema dell’ecologia, per alcune riflessioni che mi hanno attraversato leggendo il libro.

Ci sarebbe un approccio ecologico più profondo e illuminato, che ci indica la necessità improrogabile di un radicale cambiamento. Dobbiamo modificare il nostro rapporto nei confronti della natura e di tutti gli esseri viventi. La sopravvivenza dell’umanità è legata a un’equa distribuzione delle risorse, alla rimozione della povertà, delle diseguaglianze. La nostra energia va impiegata per frenare decisioni dannose e riconvertirle in scelte sostenibili. Solo ripensando alla Terra come a un bene comune dell’umanità, possiamo pensare di sentirci tutti implicati e coinvolti, ognuno per come può, in una dimensione di sentire comune, che potrà portarci a una nuova forma di umanesimo. In caso contrario, assisteremo a fenomeni di violenza, ribellioni, insurrezioni, tutte conseguenze dello sviluppo cieco di questo sistema economico sociale che continua ad arricchire i ricchi e a impoverire i poveri.

Esiste poi un approccio meno profondo, aggiungerei menefreghista, che è quello degli indifferenti, di coloro che non avvertono il problema perché continuano a coltivarsi il proprio orticello, convinti che ci sia un inutile allarmismo in atto e che interverrà una qualche entità indefinita a salvare il pianeta. C’è chi addirittura pensa di approfittare della difficoltà della situazione globale per sfruttare tutte le risorse rimanenti, incrementare le proprie ricchezze, consapevolmente incurante di una eventuale distruzione del pianeta, perché tanto loro sapranno come salvarsi. Come?

Nel libro O’Connell ci parla dei survivalisti o prepper (coloro che si dedicano ai preparativi “prep” in previsione della fine del mondo) che in Sud Dakota hanno acquistato dall’imprenditore immobiliare Robert Vicino file di bunker di 200 mq dotati di tutte le comodità su quello che era un ex deposito militare di munizioni e nei quali hanno stipato tonnellate di scorte di cibo liofilizzato. I survivalisti vivono con una B.O.B – Bug out bag, una borsa “prendi e scappa” a portata di mano, un kit di sopravvivenza portatile per 72 ore contenente bussole, torce, purificatori d’acqua, fischietti; hanno elaborato un linguaggio in codice: Shtf (Shit hits the fan, quando ci si ritrova con la merda fino al collo), Teotwawki (The end of the world as we know it, la fine del mondo come la conosciamo), Wrol (Without rule of law, un mondo privo di regole o leggi). C’è anche una puntata della serie Dark Tourism (su Netflix) del documentarista neozelandese David Farrier girata tra i survivalisti bianchi, armati fino ai denti, che evidenzia la sottocultura di una certa America.

Oltre a questa grande comunità survivalista, ci sono i miliardari della Silicon Valley, banchieri, gestori di fondi speculativi, che si comprano interi territori incontaminati della Nuova Zelanda, per poi passare eventualmente al seastading, la costruzione di isole artificiali in mare. Tra i più famosi troviamo Peter Thiel, investitore miliardario cofondatore di PayPal, tra i primi finanziatori di Facebook e consigliere durante la campagna elettorale di Trump del 2016. Con i soldi si è anche comprato la cittadinanza neozelandese. Incontriamo poi i colonizzatori di Marte, con Elon Musk in testa e i seguaci della Mars society che intendono dar vita a un pianeta di riserva per una civiltà autosufficiente.

Nel capitolo sulla Zona attorno a Pripjat è interessante constatare come la Natura, abbandonata a sé stessa, torni rigogliosa in modo prorompente come prima dell’uomo, popolata da numerose specie di animali che erano sparite quando quei luoghi erano abitati.

Ecco, non dovremmo arrivare a disastri come quello di Černobyl per capire che dobbiamo cambiare passo, che la transizione ecologica non deve diventare uno slogan col quale tacitare le nostre coscienze di predatori, attratti da un’inconscia Ruinenlust, quella fascinazione inquietante verso tutto ciò che è andato distrutto.

Così come dobbiamo capire che non è con l’isolamento, estraniandoci da questo mondo per cercarne altri, in bunker sotterranei, su Marte, o su isole artificiali che l’umanità potrà sopravvivere; la salvezza è data da esseri umani empatici, consapevoli di appartenere a una società di individui aventi tutti gli stessi diritti, e lavorare per rimuovere tutti quegli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di quei diritti innati in ciascuno di noi. Nel rispetto delle leggi della Natura e nella salvaguardia dell’ambiente che ci circonda.

Marina Romanò



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