10 aprile 2021

TRANSIZIONE ECOLOGICA TRA POTERI DIGITALI E RIVOLTE SOCIALI

Tra le tante ipotesi anche l'estinzione del genere umano


Il quinto incontro del ciclo intitolato Milano dopo la pandemia dedicato alla Transizione ecologica ci presenta una questione di grande attualità e prende anche spunto da una novità di grande crucialità: quella dei poteri digitali che a Milano hanno riscontrato le prime forme di protesta, non esente da manifestazioni di rivolta, da parte di taxisti, rider, commercianti e ristoratori proprio a causa dello sfruttamento che la gestione digitale dei servizi e del commercio mette in atto.

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Milano sarà anche la capitale economica del Paese, ma va osservato che è anche sede di violenza sistemica a dimostrazione del fatto che chi vive nella sua periferia ha una durata media della vita minore di chi vive nel centro della città, che nella fase di sviluppo dopo l’Expo la forbice tra ricchi e poveri si è ulteriormente allargata e che la città metropolitana milanese è la realtà nella quale le conseguenze della pandemia hanno manifestato in forma più grave i propri effetti. Non solo attraverso una ingente perdita di occupazione ma anche con la grande diffusione del lavoro da remoto, che in assenza di adeguate tutele sindacali sta dando luogo a inedite forme di sfruttamento dei lavoratori per lo più appartenenti alla piccola borghesia.

Come ho segnalato in varie occasioni, quando ho assistito al primo seminario organizzato dalla Triennale di Milano, che si è tenuto il 4 marzo dello scorso anno per definire il tema della XXIII edizione, l’introduzione di Stefano Boeri ha posto in evidenza come quella stessa Natura che appare messa in crisi dall’irresponsabile comportamento del genere umano sembra aver reagito mettendo gravemente in discussione la nostra stessa sopravvivenza con la pandemia del Covid-19

Tra gli interventi di vari relatori che hanno manifestato aspettative di un più o meno automatico e spontaneo adeguamento del comportamento del genere umano nei confronti dell’ecosistema planetario dopo la pandemia, solo due hanno segnalato gravi criticità: quello di Mariachiara Pastore che ha indicato come l’Africa sia il continente della più grande trasformazione dell’Antropocene e che, dei due miliardi di prossimo aumento della popolazione del pianeta, almeno uno si verificherà in quel continente. E ciò sarà causa dell’esodo di milioni di persone che dovranno abbandonarlo per la crisi climatica accompagnata da conflitti per la sopravvivenza, che investiranno direttamente il nostro paese: il più esposto tra quelli europei.

Inoltre sono stato molto interessato all’intervento di Panos Mantziaras direttore della Fondation Braillard Architectes di Ginevra che ha invitato ad avere consapevolezza che la transizione ecologica non potrà avvenire senza violenza, anche se non dice in quali forme si manifesterà e ha giustamente affermato che “l’idea di poter prescindere da fenomeni di questo tipo nell’abbandonare i paradigmi del nostro tempo, che comporta la rinuncia ai canoni estetici e razionali (oltre che sociali ed economici, aggiungo io) dei quali ci serviamo attualmente, è debole rispetto all’urgenza di una transizione ecologica che non può essere che distopica.”

Per riflettere su una questione così cruciale rimando al recente libro di Donatella Di Cesare che insegna Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, Il Tempo della Rivolta e a quello di Vincenzo Ruggiero che insegna Sociologia alla Middlesex University di Londra del quale è stato recentemente pubblicato Violenza politica. Visioni e immaginario.

battisti2Definirei il libro della Di Cesare un manifesto che interpreta il significato politico della rivolta come sfida alla violenza di Stato, al potere finanziario, all’economia incurante dei propri devastanti effetti, mette allo scoperto la disparità di forze, la sorveglianza planetaria sempre più oppressiva e riflette sul fatto che, per quanto le rivolte vengano presentate come eventi caotici, sono sempre più frequenti nello scenario mondiale e mostrano ciò che, nelle varie situazioni, “accade fuori dall’ordine statocentrico ai bordi dell’architettura politica, ai confini dello spazio pubblico, sempre più sorvegliato, mostrando il loro voltafaccia al potere.”

battisti3Considero quello di Ruggiero più un trattato che ci presenta le differenti forme di violenza: da quella istituzionale dello stato, a quella delle masse, dai conflitti armati al terrorismo e analizza attraverso una prospettiva interdisciplinare, dalla criminologia alla sociologia, dalla giurisprudenza alla letteratura, quanto siano interdipendenti e pur riconoscendo che la violenza può avere un ruolo nel progresso sociale, è fautore della riduzione di tutte le forme di violenza, perseguibile con una più ampia distribuzione delle risorse, e mettendo a disposizione lo spazio politico per la contesa e il negoziato.

battisti4Nel mettere a confronto i libri di Di Cesare e Ruggiero con l’introduzione alla ricerca Dessiner la Transition che ci ha messo a disposizione Mantziaras, cerco di comprendere in quali forme la violenza potrà esprimersi nella fase di transizione ecologica che stiamo già affrontando. Ma anche, considerato che Mantziaras ed io siamo architetti, tentare almeno di intuire come la progettazione potrà misurarsi con le attuali e le future emergenze anche a fronte della pandemia.

In proposito Mantziaras ha dato una definizione molto significativa del progetto come “espressione della volontà associata al tempo”, in particolare sintonia con quanto mi sono proposto con il ciclo di incontri intitolato Progettare la Sostenibilità che si è svolto lo scorso anno.

Infatti il presupposto al quale mi sono riferito è che il compito del progettista non può più essere quello di avere come riferimenti progettuali funzionalità, efficienza, economicità ed estetica nel presupposto che rispettando tali parametri il risultato sia necessariamente anche buono e positivo ma, piuttosto, che ogni progetto debba assumere come oggetto innanzi tutto la sostenibilità e che i citati requisiti vadano tutti valutati, modulati, subordinati ad essa e sia bello soltanto ciò che è sostenibile.

Di conseguenza l’esito positivo del progetto dipende dal perseguimento (volontà) di obiettivi riferiti alle possibili declinazioni della sostenibilità, rispetto al ciclo di vita (tempo) di ciò che si progetta: sia esso un prodotto di grande consumo, un edificio, un quartiere o un territorio.

La questione delle forme di violenza intrinseca alla transizione ecologica mi sembra un tema di enorme importanza perché, per quanto si possa essere contrari alla violenza, non tenere conto di come, dove e quando essa si potrà manifestare, pensando di contrapporre ad essa un generico pacifismo, mi sembra del tutto irresponsabile.

Innanzi tutto perché l’esercizio della violenza è già in atto ed è rappresentato dall’insieme delle pratiche che stanno conducendo all’estinzione del genere umano.

Che differenza ci sarebbe tra il modo di reagire al quale saremmo autorizzati per difendere la nostra vita in termini di legittima difesa a livello individuale rispetto a quella che potremmo mettere in atto per difendere l’esistenza del genere umano?

Si tratta di una forma di autotutela che è riconosciuta anche dalle Carta delle Nazioni Unite con riferimento alle controversie tra stati che rappresenta l’eccezione fondamentale al divieto dell’uso della forza contenuto nell’art. 2, par. 4 della medesima Carta: “una delle manifestazioni più significative dell’attuale fase evolutiva del diritto internazionale è rappresentata dall’espansione del diritto di legittima difesa, individuale e collettiva, rispetto alle interpretazioni dell’art. 51 della Carta, prevalenti sino agli inizi degli anni ’90”.

Tornando alle considerazioni di Mantziaras, nel successivo seminario della Triennale dell’11 giugno dello scorso anno, ha precisato il suo approccio rispetto alla scadenza del 2050 entro la quale si ipotizza che, per evitare l’innalzamento della temperatura del pianeta oltre la soglia di un grado e mezzo, si devono azzerare totalmente le emissioni climalteranti

Ma secondo i possibili scenari di transizione ecologica a cui fa riferimento non si può immaginare che possano attuarsi senza una grave crisi socioeconomica che comporterà conflitto e violenza in maggiore o minor misura ed è ragionevole considerare che tutte le previsioni che non si misurino con questo aspetto cruciale siano profondamente inadeguate anche rispetto al proposito di limitare, per quanto possibile, il manifestarsi della violenza stessa.

Del resto è storicamente dimostrato che, anche in epoca moderna, tutte rilevanti trasformazioni sociali sono avvenute attraverso il manifestarsi di forme di violenza più o meno dirette: tutte le rivoluzioni borghesi e proletarie sono state accompagnate da movimenti che hanno fatto della violenza un mezzo di lotta politica e va anche riconosciuto che queste stesse componenti hanno registrato il maggior insuccesso e sono risultate contingentemente perdenti sul campo.

Ma è innegabile che il loro portato teorico, politico e sociale è spesso risultato riconosciuto sul lungo termine, assimilato e rielaborato dai poteri istituzionali, dagli apparati di governo o, come nel caso delle rivoluzioni sovietica, castrista o cinese trasformato in un sistema dittatoriale. Tuttavia quanto espresso da Mantziaras mi ha convinto che il processo di transizione non potrà essere indolore e soprattutto che non potrà essere risolutivo nell’evitare la fine del genere umano.

In proposito avevo già fatto qualche ipotesi con un articolo pubblicato su queste stesse pagine nel quale affermavo che non assumerei il termine Antropocene solo come indicativo di una fase della storia del pianeta in cui la specie umana determina le trasformazioni di maggior impatto, ma come quella in cui si compirà la sua estinzione, come è accaduto e accade per molte altre specie, proprio per effetto dell’azione che il genere umano esercita sui fattori materiali e immateriali dell’ambiente.”

Mi si potrebbe accusare di catastrofismo ma non credo che riceverei la medesima accusa semplicemente affermando che io sono mortale. Analogamente, con totale consapevolezza e naturalezza si può affermare che la specie umana si estinguerà. Ciò che non è dato ancora sapere come e quando ciò avverrà.

battisti5Sulla questione un libro di Telmo Pievani, Finitudine: un romanzo filosofico tra fragilità e libertà mi ha affascinato anche per l’espediente narrativo che mette in atto immaginando di far sopravvivere Albert Camus all’incidente del gennaio 1960, in cui invece perse la vita, facendolo collaborare dal letto d’ospedale con Jacques Monod alla scrittura di un libro di contenuto scientificofilosofico che offre un contributo interpretativo molto interessante del reale. Nel segno del disincanto, prende forma una visione del mondo in cui la scienza ha svelato la finitudine di tutte le cose: dell’Universo, della Terra, delle specie compreso il genere umano, di ognuno di noi.

“Come trovare allora un senso all’esistenza accettando la nostra finitezza non solo come individui ma anche come genere umano? Camus e Monod passano in rassegna le possibilità laiche di sfidare concettualmente e eticamente la morte ipotizzando che la finitudine non implichi nichilismo, ma al contrario solidarietà, rivolta, una vita piena.”

Auspicherei che la prossima edizione della Triennale tra i molti unknouns mysteries che intende considerare, possa affrontare anche aspetti meno siderali, che ci riguardino più da vicino, come genere umano, in questa fase di emergenza.

La transizione ecologica non è quindi questione da affrontare su un piano esclusivamente concettuale ma a un livello nel quale il progettista sappia farsi carico della complessità dei contenuti, mettendo in atto un processo che partendo dagli aspetti concreti e urgenti della sostenibilità si impegni a conquistare il terreno della razionalità scientifica e dell’etica del progetto.

Emilio Battisti

Per rivedere gli incontri passati clicca qui



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