17 maggio 2022

LA “PERMANENZA” DEI PROBLEMI URBANISTICI DI MILANO

Una riflessione


imm. bottero (1)

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Nel 1961 si tenne a Milano, organizzato dai Collegi degli architetti, ingegneri e costruttori, il 2° convegno su “Gli sviluppi di Milano “(1). Rileggere adesso da una rivista –  che ebbe vita breve[SR1], ma che fece una puntigliosa riflessione su quel convegno1 – le interviste rilasciate da alcuni dei principali partecipanti e relatori non può che fare riflettere: perché gli argomenti allora trattati e le proposte e le critiche allora portate alle modalità con cui veniva programmata e gestita la prorompente crescita della città, potrebbero essere con poche varianti – quantitative più che qualitative – quasi totalmente riproponibili oggi:

– il mancato rapporto tra Milano e il suo territorio, allora (la questione ambientale non si era ancora affacciata) soprattutto centrato sulle difficoltà e gli squilibri ingenerati nelle piccole e meno piccole realtà comunali dell’area metropolitana investite dai problemi del capoluogo; la (conseguente) mancanza di una chiara strategia rispetto al fenomeno migratorio, allora di natura autoctona dal sud d’Italia; 

– la mancata interpretazione e capacità di visione rispetto alla forma della città e al rapporta tra le sue parti antiche e le nuove espansioni, allora affidato ai due famosi “assi attrezzati” che avrebbero dovuto consentire il superamento di quel monocentrismo che – per altri versi e sulla spinta di potenti interessi speculativi –  veniva ampiamente riconfermato.    

Ma, malgrado queste coincidenze, quel dibattito suona oggi come irrimediabilmente arcaico: non tanto perché, anziché su schermo, si presenta su carta un po’ ingiallita, o  perché –  a differenza di oggi – coloro che intervennero e si pronunciarono sulla natura di Milano e sulle incognite del suo violento sviluppo dopo il trauma della guerra, sono tra i più importanti professionisti, professori  e uomini di cultura di allora: i De Carlo, i Gardella, i Samonà, gli Astengo, i giovani del Collettivo di architettura: nelle cui critiche, e pur nello scoramento, si intravvedeva ancora la speranza in un “programma” che potesse portare a coerenza progetto edilizio/architettonico e progetto urbano. 

Una speranza che si avvaleva di argomentazioni tecniche, ma soprattutto si sostanziava di un riconoscimento affettuoso che, mi piace ricordarlo, anche molti intellettuali – Pavese Vittorini, Olmi, Testori tributavano alla storia e alla natura profonda della città. (“Una notte del ‘43 Milano è morta. È morta la città che credeva nella Galleria come in un’incrollabile piramide… nella fetta di panettone per tutti…” (Piovene) “E’ falso che Milano più che una città italiana sia una città della Mittel Europa…Milano è piuttosto un’immensa borgata al centro della val Padana…altre città sono più belle per bellezza canonica, ma nessuna è più cara, più impregnata di arcano…” (Olmi) “ Continuo a vivere a Milano, perché mi sembra possibile qui, e non altrove in Italia un’esistenza a livello moderno…qui c’è la realtà del lavoro, la realtà della fabbrica, che non possiamo abolire dalla nostra immaginazione se viviamo oggi.”(Vittorini)…

Mi viene allora da domandare: che cosa determina, oggi che siamo di fronte a un momento di trasformazione della città forse ancora più profondo e più pervasivo sia fisicamente che socialmente, questa sorta di afasia, questo allucinante silenzio della cultura ufficiale, dell’Università, della Triennale, dell’Ordine degli architetti, questa impotenza a suggerire un disegno, una prospettiva, un futuro per la città nel suo complesso? Che cosa, nascosto sotto la vernice scintillante delle manifestazioni turistiche e pseudo-artistiche ossessivamente proposte dai media, induce Il profondo disamore di tanti?

Forse frammenti di futuro ci possono venire dalle aree periferiche, in specie da alcuni quartieri “storici”” come il Giambellino, la Barona, il Corvetto, via Padova: luoghi ancora non del tutto “normalizzati” dall’istituzione e dalla benevolente retorica della partecipazione. Luoghi spesso descritti, con molta falsa coscienza, come abitati da giovani “creativi”, ma nei quali già si riconoscono, ad esempio, nelle manifestazioni del rap, le espressioni di un disagio sociale profondo, diffuso e doloroso. Un disagio che temo sia ancora più acuto in certi comuni dell’hinterland, come descrive così acutamente riferendosi a Rozzano il bel libro, “Febbre” di Jonathan Bazzi. 

Ecco, come per la guerra in Ucraina, ci troviamo anche qui a domandarci se la città – come la pace – possa essere salvata da questi episodi spontanei anche generosi e apparentemente vitali o se il problema da affrontare non sia più profondo, più radicale. E non alludo a qualche grande disegno, a qualche invenzione urbanistica spettacolare. Alludo alla capacità di concepire la città come prodotto della collaborazione di molti saperi, dentro a una ipotesi generale in cui l’imperativo economico non sia il primo e unico obiettivo, costi quel che costi in termini di benessere nostro, dei nostri genitori e dei nostri figli e nipoti. Un benessere che quindi vada sottratto alla mera quantificazione fornita a livello nazionale dal PIL o localmente misurata sul livello dei consumi, ma venga ridefinito come sommatoria di un insieme di fattori che concretamente lo determinano, e includendovi in primis la salute dell’’ambiente, la sua vitalità e biodiversità: premessa essenziale per la nostra stessa salute vitalità e biodiversità.

Più sopra evidentemente ho fatto affermazioni che paiono semplificare in modo inaccettabile i problemi che abbiamo davanti. Eppure, se ci pensiamo, sono proprio questi i presupposti che possono farci di nuovo pensare alla città come a un luogo in cui vogliamo vivere. Come sostiene la grande economista e sociologa Saskia Sassen infatti, noi abbiamo ancora bisogno della città. Ma quale città?

 Negli anni ’70, nei paesi anglosassoni, un importante filone di studi appartenenti alla cosiddetta “nuova geografia”(2)– a fronte della forte trasformazione del contesto sociale e alla evidente inefficienza, burocratizzazione e insieme onerosità delle forme di welfare fino allora praticate – propose di ricorrere alla definizione del benessere della popolazione non sulla base di quantificazioni omogenee, ma riferendosi al più complesso concetto di “livello di vita”, basato su analisi e fattori più sottili, variabili dà luogo a luogo: tra i quali la forma e la qualità dello spazio costituiva un fattore determinante. 

Ciò implicava una completa modificazione dei metodi e delle tecniche di rilevamento dei bisogni e delle diverse situazioni sociali, a loro volta da affidarsi a strutture istituzionali decentrate, vicine alle cittadinanze, in grado di connettere i problemi secondo schemi complessi, interdisciplinari e soprattutto coerenti con le scelte urbanistiche alle varie scale.  Una totale rivoluzione, quindi, nei modi di impostare le scelte e condurre i processi di pianificazione, che non so dire quanto si sia realizzata in quei paesi, ma che certamente non lambì il contesto operativo e normativo italiano, ancora oggi rigorosamente impermeabile a una effettiva interdisciplinarità nel progetto urbano. 

E tuttavia, mi è venuto da parlare di quegli studi e di quelle proposte perché mi sembra di intravvedere anche da noi, anche in questa nostra città prodotta da iniziative volontarie, una spontanea e casereccia connessione tra forme varie di welfare e forme di uso o di rivendicazioni d’uso della città, con sinergie che intelligentemente superano le barriere burocratiche e disciplinari, rivalutano spazi abbandonati o trascurati, intrecciano potenzialità e risorse delle persone e dei luoghi. 

Azioni che suggeriscono, o potrebbe suggerire, regole e modalità di intervento urbano che da subito, cioè all’atto stesso della loro decisione attuativa, incorporino gli obiettivi di benessere per la popolazione a cui si rivolgono, e quindi progettino asili nido e scuole per i bambini, spazi di riposo per gli anziani, biblioteche e oasi di incontro per tutte e tutti come e dove ci vogliono. Facendo riferimento a una città in certo senso dilatata, controllata nelle principali correnti di traffico e ridefinita in alcuni suoi principali elementi di vita ( come in fondo alcuni anni fa veniva intelligentemente proposto attraverso le cosiddette “Isole ambientali, che non so perché vennero abbandonate) … sempre attenti a non consumare dissennatamente quella risorsa preziosissima e rara che è il suolo: come avverte un recente saggio di Paolo Pileri, ”L’intelligenza del suolo”: che chiunque si appresti a pianificare e costruire dovrebbe assolutamente conoscere.

Bianca Bottero

NOTE

(1) Superfici, problemi di architettura e tecnologie edili, n.4, 1961

(2) Su questi studi mi ero interrogata anni fa, nel testo Progetto e gestione dello spazio nelle società complesse (Clup, Milano 1984)

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  1. AnnaCara Bianca, io credo che nidi, spazi per gli anziani e luoghi di incontro per tutti prima o poi aumenteranno a Milano, ma come la mettiamo con la grande finanza immobiliare che copre tutto il centro e i luoghi di pregio, accentua le disuguaglianze, e impedisce ai ceti medio bassi di vivere a Milano in condizioni dignitose?
    18 maggio 2022 • 09:11Rispondi
    • bianca botteroCara Anna, la mia riflessione era solo una disperata ricerca di qualcosa che si opponesse alla ineluttabilità del processo che tu delinei. Un richiamo alla competenza e alla sensibilità al bello che sono convinta essere ancora presenti tra la "gente" se, in qualche modo, si ridà loro la parola. Quanto alla bellezza di Milano - città che, pur venendo da Parigi, tanto piaceva a Stendhal - bisogna anche lei ancora ricercarla, salvarla in tanti piccoli episodi, zone, quartieri fortunosamente sopravvissuti allo tsunami della speculazione. E certo anche reinventarla nel suo territorio, nei suoi borghi , difenderla dagli incubi di Cascina Merlata...
      21 maggio 2022 • 12:02
  2. OmarBuongiorno, la Milano di oggi è priva di potenza. Allora c’erano le industrie, potenza predominante, che nel bene o male hanno generato un benessere collettivo. Oggi qual’è la potenza trainante? Questa città ha poco di tutto e spesso anche mal curato o gestito, è schiacciante l’impatto che si ha quando si va a Lione, Vienna, Monaco, Amburgo, Barcellona o Rotterdam. Li c’è sempre qualcosa che misura la potenza, sensazione di vivere in un ambiente a somma variabile. Penso che la mancanza di un elemento naturale di forte impatto, Collina, mare, fiume o canali tolgano tanto al benessere individuale di una città. Milano, come dicevo, ha poco di tutto, piccoli canali, piccola collina poco valorizzata, mare e monte lontani. E quindi cosa resta? Visto che è una città dovrebbe essere costruita, ri-sistemata meglio e soprattutto avere il coraggio di sentirsi ed essere più grande, di stare con e non contro l’immenso agglomerato urbano. Ma purtroppo tant’è, finito EXPO, finito il party e tutto si ridurrà all’idea di grande borgo di provincia o di pianura se si preferisce. P.S. Intanto la città metropolitana di Roma si accinge a diventare città regione o stato, acquisendo pieni poteri tipo Madrid, Londra e Berlino.
    18 maggio 2022 • 13:11Rispondi
  3. Pietro VismaraA mio parere non se ne uscirà fuori senza un'impietosa disamina dell'attuale PGT, documento scritto senza cuore, senza coraggio e senza cervello, giusto per compiacere la proprietà fondiaria ma privo di un pensiero sulla città. Ma nessuno vuole farlo, visto che è stato approvato da un amministrazione teoricamente "di sinistra" e con la firma (anche qui del tutto teorica) di alcuni professori del Politecnico... Quindi silenzio.
    22 maggio 2022 • 11:15Rispondi
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