19 aprile 2022

UNA PASSEGGIATA DA FLANEUR

Era meglio stare a casa


pivetta (2)

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Compare spesso il “superlativo” nelle descrizioni che il sindaco offre della città che amministra. Poi quando a Milano ci vivi, ci lavori, quando la percorri, l’attraversi, ti rendi conto che il “superlativo” non è sempre in linea con il generoso giudizio del primo cittadino e si può invece legare a termini molto concreti e poco piacevoli come disordine, affollamento, caos, sporcizia…

La mia è una divagazione, nel senso proprio del termine, perché se ho un problema e per risolverlo deve avviarmi in centro, risolta la questione poi divago, giusto per vedere, osservare e magari scoprire e capire. Per auto gratificazione, direi che sono un flaneur, senza meriti particolari. Una di queste mattine ero nella direzione tra Porta Garibaldi e il Cordusio, corso Como, corso Garibaldi, via Mercato, via Broletto, tagliando per Brera. 

Nei miei ricordi giovanili, mezzo secolo fa, ai tempi del liceo in via Goito, era una parte di città per me affascinante, tra il dignitoso degrado di case popolari, la riservatezza delle ricche residenze, l’eleganza dei chiostri, la varietà delle botteghe (come il Rossignoli di una volta quando era un autentico “ciclista”, non una boutique alla moda come oggi) e dei locali, trattorie che emanavano aromi di sugo e bar, come il celeberrimo, poi, Giamaica. Mi piaceva quella eterogeneità dei luoghi, delle case, con gli slarghi che annunciavano le grandi chiese, Santa Maria Incoronata, San Simpliciano, Santa Maria del Carmine, le strade interne tortuose e in ombra.

Ogni volta che cammino per corso Garibaldi, immancabilmente mi tornano alla mente i progetti che volevano trasformarlo in una specie di autostrada, sventrando per mantenere la linea retta, abbattendo un po’ a destra un po’ a sinistra, e naturalmente le lotte per la casa, la legge 167, la difesa delle abitazioni più povere. Due fallimenti, nel bene e nel male: le demolizioni si sono fermate ma non in tempo utile per impedire alcune orride edificazioni, la legge 167 ha avuto vita breve e scarsa applicazione (c’è testimonianza comunque).

Quelle vie, in questo angolo di Milano, come ovunque altrove, si sono trasformate negli anni in un parcheggio ininterrotto. Un tappeto di macchine e poi, con lo scorrere dei mesi, un agglomerato di biciclette comunali e, per ultimo, una catasta informe di monopattini, ostacoli immobili ma spessissimo mobilissimi, per chi ancora si avventura a camminare lungo i marciapiedi. La modernità, il dinamismo, il lavoro, la ricchezza, il turismo, spiegherà il sindaco, che trascura l’ansia collettiva di avviare liberamente e democraticamente il motore del suv. 

Ma il Covid ha accelerato un’altra novità, imposta questa all’inizio dalla necessità di riparare ai danni economici e gastronomici del contagio, adesso incentivata e moltiplicata dall’interesse spicciolo dei piatti o degli aperitivi da servire. Milano nelle sue zone centrali è diventata una enorme mensa all’aperto, custodita da improvvisate e instabili palizzate di legno che si alterna al plexiglas, da vasoni colmi di piante che sopravvivono a stento, coperta da tendoni dei più disparati generi, tra ombrelloni da ultima spiaggia e teloni tesi tra pali incerti, riscaldata da quegli orrendi funghi consumatori ingordi di elettricità. Una mensa affollata, messa da parte la paura del covid (che in realtà continua a mietere vittime), via il green pass, via la mascherina, tutti coralmente a mangiare e a digerire (anche i fumi delle auto in transito).

Una fortuna. Quanti soldi, magari esentasse, girano tra quei tavoli, religiosamente stretti uno accanto all’altro: ogni centimetro è prezioso. Sia benedetto il commercio, anche il commercio delle bevande e dei risotti riscaldati nel microonde. Questo vogliono la modernità, il dinamismo, il lavoro, la ricchezza, il turismo, spiegherà ancora il sindaco. E’ la metropoli, bellezza (la battuta di Humphrey Bogart nel film era in realtà “è la stampa, bellezza”. Non faccio il nostalgico, odio la nostalgia, ma non nego che mi sembra più civile e persino “ricco” il panorama dei giorni passati, quando non mancava il fabbro, il falegname, l’elettricista. In corso Garibaldi e in via Mercato sopravvivono in realtà un antico ferramenta e un altrettanto vecchio negozio di elettricista. Tutto il resto si è perso, però. Si sono perse persino le chiese. 

Mi ha colpito davanti a San Simpliciano o a Santa Maria del Carmine la distesa dei tavolini e dei tendoni, in perfetta simmetria, irreggimentati come gli ombrelloni e le sedie a sdraio sulle spiagge di Rimini in alta stagione. La folla è probabilmente la stessa. Le facciate delle chiese dalla strada si chiudono ai nostri occhi. Bisogna attraversare la mensa per ritrovarle. Fatte e rifatte (quella di San Simpliciano un po’ meno di quella neogotica ottocentesca di S. Maria del Carmine), meriterebbero però un po’ di rispetto. Basterebbe tagliare qui e là qualche tavolo, scorciare qualche invadente tendone. Secondo una misura che la bellezza (assai relativa), la vivibilità e persino la funzionalità di una città richiederebbero.

Si dirà che è bene che sia così, che così ha da mostrarsi una città moderna, dinamica, attiva, opulenta – mi ripeto – ricettiva e ospitale. Non invocherei una commissione d’ornato. Sarebbe fantastoria o fantascienza. Basterebbe rifarsi al titolo dell’articolo 80 del regolamento comunale: “Abbellimento del contesto urbano”. Forse un po’ di ordine sarebbe sufficiente oltre che utile, gioverebbe a tutti, cittadini milanesi, turisti d’ogni parte, commercianti e baristi… Magari aiuterebbe anche la presenza di qualche vigile per multare chi trasgredisce in tema di occupazione del suolo pubblico: peccato che in una mattina di “divagazione” non mi sia capitato di scorgerne all’orizzonte nemmeno uno.

Oreste Pivetta 

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