25 gennaio 2022

SCALI E SAN SIRO: L’ASIMMETRIA DEI BENEFICI

Torna il vecchio adagio: quando collaborano il pubblico perde e il privato guadagna


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Confesso che l’aver seguito il dibattito sul progetto dell’Ambito San Siro sin dall’inizio non mi aiuta a prendere una posizione netta al riguardo. Dallo Studio di fattibilità tecnico-economica  presentato nel Novembre 2019 si passa alla Dichiarazione di Pubblico Interesse da parte del Comune del 5 Novembre 2021, ma poi si sostiene che  un dibattito pubblico non si può fare finchè non c’è un progetto esecutivo che non c’è ancora, se no come si fa a giudicare. Al che non si capisce su che base la Giunta Comunale abbia invece potuto giudicare la proposta meritevole di “pubblico interesse”. 

Seguono assemblee cittadine, dibattiti e dichiarazioni dentro e fuori dal Consiglio Comunale, invocazioni affettive, del tipo “il Meazza non si tocca”, visualizzazioni ingannevoli nei quali gli edifici appaiono e scompaiono come i funghi d’autunno, e manovre correttive delle società sportive interessate all’iniziativa. 

Però in questo marasma in corso tra poco potremmo essere chiamati a prendere comunque posizione appunto in un dibattito pubblico (dovuto anche se osteggiato) o in un referendum (voluto). Pertanto vorrei seguire un percorso diverso, partire da una visione più globale dei criteri che debbono soddisfare le iniziative edificatorie sul nostro territorio, Ambito San Siro compreso ma non solo, per mantenere saldo il timone del nostro giudizio in un mare mediatico tempestoso. 

Sempre più spesso, e mi riferisco non solo all’Ambito San Siro ma anche ai progetti sugli ex-scali ferroviari e ad altri imminenti, le grandi iniziative immobiliari vengono inquadrate in  una relazione che si vorrebbe essere simbiotica tra le logiche del capitale e le necessità del territorio, relazione che ci si aspetta sia tanto più forte quanto più consistente è il capitale che si fa intervenire, a integrare le deboli risorse pubbliche disponibili. Ma è sempre così?

Se una relazione simbiotica è di tipo mutualistico, ognuno dei due attori deve fornire all’altro qualcosa che di cui ha bisogno per vivere e riprodursi. 

Il capitale finanziario, orientato a fare profitto con investimenti immobiliari che rispondano a esigenze certe o supposte, ha bisogno di un sedime sul quale realizzarli e di un mercato. E il territorio, inteso non solo come spazio fisico ma anche come sistema delle attività umane che in esso si sviluppano, ha bisogno del capitale finanziario investito al suo interno per sostenere le attività umane ivi insediate, che costituiscono appunto il mercato che attira il capitale.

Ma attenzione, perchè vi sono anche relazioni simbiotiche negative, di tipo parassitario: quelle nelle quali uno dei due prevale sull’altro, sottraendogli risorse senza  fornire risposte adeguate ai suoi bisogni.

E mi sembra che nei casi citati il rischio che l’ipotetica simbiosi finisca di diventare parassitaria è forte. Vediamo perchè.

Innanzitutto la condizione perchè una qualunque simbiosi sia mutualistica è che si  mantenga nel tempo: il che nel caso della simbiosi capitale-territorio accade solo se i profitti del capitale finanziario sono reimmessi in circolo, ad esmpio creando occupazione. E’ ciò che accadeva naturalmente fino all’800, prima dell’inizio del processo di globalizzazione: il capitale restava privato, ma in un contesto di scarsa mobilità fisica o di forti legami con il territorio il profitto veniva  reinvestito o speso nell’intorno in cui si andava formando. 

Ora non è più così, o meglio accade ora solo più nell’economia di prossimità: i capitali e i profitti per lo più migrano senza confini, liberi di abbandonare il territorio in cui sono stati prodotti, mentre  il territorio resta dov’è e non può muoversi nè ampliarsi, può solo sforzarsi di apparire appetibile al reinvestimento, o cercare di attrarre capitali esterni vaganti, in una posizione comunque di crescente debolezza e sudditanza nei confronti del capitale, e disponendo per attrarlo solo dei beni che già possiede.

Ma applichiamo quest’ottica al caso San Siro: la prima domanda da farsi è che senso ha che il territorio (la città di Milano) offra un’importante quota dei suoi beni comuni, ovvero delle sue aree pubbliche disponibili (le poche rimaste in un territorio già fortemente insediato), in concessione per 90 anni a tariffe molto convenienti a delle società estere, quindi più che mai  libere di esportare i profitti dove vogliono. E senza alcuna certezza che la sperata simbiosi produca i vantaggi auspicati, visto che gli edifici che dovrebbero alloggiare alcuni dei servizi inseriti dallo Studio di Fattibilità  di fatto accolto dal Comune (alberghi, uffici, centri commerciali) non rispondono ad alcun nuovo bisogno in una città già ricca degli stessi. 

In altre parole, a parte lo Stadio nuovo che sostituirebbe l’esistente, il rischio è che i cosiddetti servizi annessi per funzionare finiscano per sottrarre clientela a quelli esistenti. 

Fenomeno ben noto, che ad esempio accade già con la diffusione dei centri commerciali fuori città, che stanno condannando a morte il commercio di prossimità. 

La simbiosi capitale-territorio inoltre per essere sana e non parassitaria comporta la risposta a bisogni reali del territorio. Ammettiamo che tra questi vi sia anche uno stadio più capiente ed efficiente, i bisogni più urgenti per il nostro territorio sono soprattutto due: abitazioni economiche e posti di lavoro. Ma sarebbero soddisfatti dall’iniziativa in atto? 

Al primo, la domanda di edilizia economica, il capitale se possibile evita di rispondere, troppo poco remunerativo: lo fa solo se obbligato, chiedendo in cambio favori, ad esempio più volumetria. E lo fa anche se riceve aree pubbliche cedute disinvoltamente in concessione, benchè solo in piccola parte dedicate a coprire questo bisogno. 

Al secondo non ci pensa proprio, visto che finita l’operazione immobiliare appena possibile il capitale in questione userà i profitti per coprire deficit pregressi o se li porterà offshore: le due società che finanzierebbero l’Ambito San Siro hanno forti basi in paradisi fiscali.

Dunque con poche garanzie di ricadute positive sul territorio (certa è solo quella legata a un po’ di  business in più generato da maggiori eventi sportivi), che anzi di fatto aliena una parte dei suoi beni comuni, la simbiosi è destinata a diventare parassitaria, a tutto danno del  territorio.

Viene allora da chiedersi cosa ha indotto la Giunta comunale milanese a dichiarare “di publica utilità” il progetto Ambito San Siro.

Forse, e ampliando il discorso ad esempio a ciò che sta accadendo negli ex-scali ferroviari, a spiegare la sudditanza dell’amministrazione del territorio nei confronti del capitale non c’è solo la capacità di pressione economica di questo.  C’è anche l’illusione di trarre vantaggio pubblico dalla realizzazione di un ideale in realtà sempre più labile e discutibile: l’ideale del progresso e della crescita economica illimitata, fondata sull’espansione degli insediamenti.

Fino alla fine del secolo scorso ogni nuovo edificio costruito era comunque benedetto in quanto portatore di ricchezza, di lavoro, di valore urbano. Ma è da un bel po’, ed è un peccato che chi amministra la nostra città non se ne sia ancora accorto, che siamo arrivati alla saturazione insediativa. 

Ogni intervento edilizio nuovo, se occupa terreni liberi, non è certo che garantisca una continuità di vantaggi per la città, mentre invece è certo che aumenti  i danni al territorio, con l’impermeabilizzazione del suolo, il carico sulle infrastrutture esistenti, l’inquinamento, il consumo energetico. Costituisce cioè sempre  più spesso “a mixed blessing”, una benedizione mista, tanto più se di grandi dimensioni: quindi portatore in molti casi di vantaggi ma anche di svantaggi, da valutare con attenzione.

Qui colpisce la schizofrenia di coloro che legiferano o gestiscono la cosa pubblica. 

Da un lato si si trovano sempre più costretti a riconoscere che il territorio in un’area metropolitana come quella milanese è un ecosistema complesso e in parte squilibrato, pieno di criticità (traffico, squilibrio di servizi, edilizia abbandonata, inquinamento), e che la priorità nei confronti dei suoi abitanti non è occupare con nuova edilizia i pochi terreni rimasti liberi, è  invece intervenire con urgenza, terapeuticamente e chirurgicamente, sul tessuto esistente per riequilibrare, riattivare, migliorare il sistema insediativo attuale. E lo fanno allora ergendosi a paladini verdi, promettendo  forestazioni urbane, servizi di prossimità, contenimento all’uso dell’automobile, piste ciclabili, freno alle nuove urbanizzazioni e recupero di lotti e volumetrie inutilizzate. Anche se per ora di risultati se ne vedono ancora pochi. 

Dall’altro continuano a genuflettersi fiduciosi di fronte a chi promette di portare ricchezza, concedendogli di occupare terreni e trasformare porzioni di città, facendo passare ciò con acrobazie logiche come “rigenerazione urbana”, che invece è tutt’altra cosa, oppure offrendo agevolazioni volumetriche non meno deleterie per stimolare il capitale a fare ciò che è già nel suo interesse fare comunque, ad esempio riportare a reddito i propri beni abbandonati (vedi la legge regionale sul consumo del suolo).  

Se la  rigenerazione urbana è diventata un obiettivo primario come continuamente dichiarato, farla vuol dire occuparsi dell’esistente e dirottare su di esso le risorse disponibili, trattando la città come un organismo che se ha qualche acciacco va curato, avendo come obiettivo primario quello di migliorare la qualità dell’abitare per i suoi cittadini. Ma allora non si capisce perchè se quell’organismo ha qualche acciacco, ad esempio a un braccio, anzichè curare il braccio glie lo si debba tagliare per innestargli un braccio bionico, nuovo di zecca ma artificiale, solo perchè fa comodo all’azienda che lo produce. 

Concludo qui queste riflessioni, senza aggiungere altre valutazioni sui benefici e costi  dell’operazione San Siro che altri, ad esempio Santagostino o  Beltrami Gadola, sanno fare meglio di me. E senza neppure toccare il dilemma tecnico-sportivo-affettivo tra salvare il Meazza o fare uno stadio nuovo, che sarebbe sicuramente più facile da risolvere se non fosse la parte emersa di un iceberg immobiliaristico inquietante, appena celato dietro o sotto una cortina di verde accattivante.  

Ciò che dovremmo domandarci in caso di dibattito pubblico o di referendum è molto semplice: gli investimenti promessi in un determinato territorio hanno o non hanno caratteristiche tali da migliorare in modo certo e duraturo la qualità dell’abitare di chi ci vive? 

Senza farsi ingannare dai render fascinosi e dal piffero magico dell’eterno progresso, e anche attenti a ricordare che non è vero che “pecunia non olet”: in generale più viene da lontano e più puzza. E di puzza nell’affare San Siro comunque ce n’è quanto basta.

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  1. Giuseppe GattulloNella smart City-Life di Milano orgoglio green e tecnologico, lì è tutto smart ed ecologico, grattacieli in eco- tonnellate di cemento, in eco-tonnellate di ferro, tutti materiali di centinaia di migliaia di eco società, è tutto in logica efficienza energetica, inquinamento a mille dichiarato ZERO, peccato che non si siano accorti che non c’è una pianta e un prato. Idem alla smart Garibaldi idem allo smart Palazzo della Regione ecc..ecc... Il tutto secondo i meravigliosi piani di riqualificazione Green e Verde. Inutile illudersi l'area di San Siro farà la stessa fine della smart City-Life, Tonnellate di Eco Cemento. Giuseppe Gattullo
    26 gennaio 2022 • 22:08Rispondi
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