24 settembre 2021

LAVORO, IMPRESA, ISTITUZIONE

Una sfida a tre


bizzotto

BANNER GIOVEDI

Impresa: Milano discuta, innovi, faccia un test per una economia che coinvolga e attivi. Smettere di correre e fare solo l’Ambulanza del lavoro (che raccoglie morti e feriti). Mirare a un’economia dell’engagement, dell’impegno, del coinvolgimento, della partecipazione, anche del conflitto, ma vada nel merito, non pregiudiziale, antagonista. Anticipi i problemi. Costa poco e fa giustizia.

Il rischio più temuto dalle imprese – subito dopo il digitale – è quello delle “risorse umane” da trovare, soddisfare, trattenere. E si sa che il 65% dei dipendenti è insoddisfatto. Trovare risorse con la personalità e l’attitudine giusta e un minimo di formazione di base è un problema. Anche a Milano che pure – secondo l’OCSE – è la capitale europea delle competenze professionali, dipendenti e autonome.

E poi, come fare per trattenerle e soddisfarle? Molti i modi ma, “la libertà viene prima” diceva il sindacalista Cgil anni ’80 Bruno Trentin. Si tratta di liberare insieme l’uomo, il lavoratore, e l’impresa. Cercare, definire, con Istituzioni ad hoc, processi e servizi mirati (Politiche attive) che rendano dinamiche le relazioni di lavoro, per favorire l’incontro tra collaboratori giusti e imprenditori giusti; favorire il reciproco “engagement”: impegno, coinvolgimento, partecipazione, anche conflitto, ma di merito, creativo, non pregiudiziale, antagonista. Sperimentare una via appropriata e originale di Democrazia economica.

Il nostro Paese ha una fortissima rete di PMI (il nostro salvagente) a cui mal si attagliano le pur fortunate esperienze giapponese (Qualità) e tedesca (Cogestione). L’economia dell’engagement mira al sodo: a coinvolgere e attivare sul terreno concreto, innovativo, imprenditivo. Mira – ognuno al suo posto – a una cultura dell’impegno e della Libertà responsabile. È una sfida a tre: Lavoro, Impresa e Istituzione; tre che ambiscono e si rispettano. Significa credere (e far prendere il volo) alla sana concorrenza in economia.

Bisognerà convincere una certa sinistra (specie milanese), ma le recenti parole di Nicola Zingaretti (superare la contrapposizione tra Lavoro e Impresa) e la definizione, pur datata, di imprenditore di Walter Veltroni (“un lavoratore che rischia”) fanno sperare. Questo concorrere piacerebbe a Bruno Trentin. Penso che non dispiaccia al segretario della Cgil Landini e al presidente di Confindustria Bonomi. Cercare per questa via la reciproca soddisfazione: un valore capace forse di raddoppiare la produttività d’impresa. Mirare a un equilibrio del mercato del lavoro (del fare impresa plurale, a diversi livelli) che abbia il minimo bisogno di sostegni e tutele esterni. Un sogno di Libertà tipicamente europeo che necessita di forti Istituzioni preposte per evitare, avverte Lucrezia Reichlin (editoriale del Corriere della sera di oggi 19 c.m.), che la democrazia liberale scivoli verso il “modello asiatico autoritario”.

Aggiungerei qualche “pungolo gentile” (alla Richard Thaler): una buona “architettura delle opzioni” e una semplice fiscalità di vantaggio. Significa favorire la mobilità del lavoro e la sua articolazione, flessibilità e autonomia (direbbe Enzo Spaltro), attraverso l’anticipazione dei problemi, delle crisi aziendali e relazionali. Con costi molto bassi. Acquisterebbe pieno senso il lavoro autonomo (che è fuoco di brace); sia quello di alta sia quello di modesta qualità (i lavoretti). Entrambi meritano tutele (sindacali) di solidarietà e la possibilità di formarsi, esprimersi, crescere, mettersi sul mercato e cambiare. Potersene andare, se ambiscono e sono insoddisfatti!

Ora, mentre le assunzioni riprendono quota, dopo la mazzata del Covid, una cosa è chiara: si assume a tempo determinato. L’impresa vuole contenere il rischio di avere risorse in eccesso e di sbagliare assunzione. Vuole verificare il mercato e conoscere, toccare con mano la risorsa prima di stabilizzarla. Ha ragione. E il lavoro? Ne disperdiamo qualità, tensione, fiducia nella precarietà? È la precarietà che umilia e produce i NEET! Dunque, è evidente: le Politiche del lavoro non sono più solo questione di diritti e di tutele del lavoratore dipendente, dell’offerta di lavoro, ma un interesse di primissimo piano dell’impresa (e del Paese).

Così, l’impresa deve occuparsene attivamente (come Confindustria di Brescia nella ricerca di competenti), mentre ha sempre meno senso fare carico all’impresa degli aspetti di tutela. Tocca alla società, alle sue Istituzioni. Salvo i casi di discriminazione e comportamenti scorretti. E siano tutele che attivano. L’aspetto chiave è il nostro punto debole: le Istituzioni di territorio dedicate. Abbiamo creato un guazzabuglio tra livelli nazionale (Anpal), regionale (titolarità) e locale (responsabilità). Serve una trasparente volontà politica che vi rimedi. E Milano? È avanti. Investe da un ventennio sulla sua Agenzia del lavoro AFOL Metropolitana, che ha messo a sistema una gloriosa storia di sostegno al lavoro (a partire dal formare i più fragili).

Ora urgono scelte innovative, di respiro lombardo e oltre, nella direzione dell’engagement, della libertà responsabile. Per giocare la partita anche all’attacco, in positivo, e anche sulle migliori risorse, non solo in difesa, in negativo, sulle risorse in difficoltà (nelle crisi e sui licenziati). Smettere di fare solo l’Ambulanza del lavoro che raccoglie morti e feriti. Di tutelare e asservire. Per essere efficaci, vincere la partita e abbattere i costi. Quali scelte? Tre mi sembrano prioritarie:

  1. Sindacati e Assolombarda devono prender parte, contribuire. Per una volta, non si tratta di soldi. Si tratta di convinzione, idee, equilibri. Di progetti credibili. Senza le imprese e i Sindacati, le Politiche del lavoro rimangono ferme al secolo scorso, giocano di rimessa, platealmente separate, inefficaci e costose. E non favoriscono la convergenza delle iniziative di solidarietà, formazione e sostegno al lavoro, che spesso disperdono risorse.
  2. E poi vanno coinvolti – l’Europa lo ribadisce sempre – altri competenti interessati. Per mixare i punti di vista e realizzare iniziative nuove. L’Assicuratore ad esempio può facilmente “assicurare il lavoro”. Oltre che tutelare, si attiverà anche in due direzioni innovative a lui care e necessarie: prevenire i “sinistri” (i licenziamenti) e investire nelle infrastrutture del caso (per la formazione e la mobilità), secondo la chiara indicazione europea (Solvency II: investire per formare, anticipare i trend dei rischi). Si dia spazio, finalmente, a chi ha interesse (guadagna di più) se le cose vanno bene, se le crisi vengono gestite, anticipate. Vi sembra poca cosa?
  3. Così – in accordo e con finanziamenti europei – si può provare a gestire il “bene comune” lavoro (e impresa) come raccomanda la prima donna Nobel per l’economia (2009) Elinor Ostrom (“Governare i beni collettivi”, Marsilio, 2006): mixare pubblico e privato con Istituzioni ad hoc fondate su valori, idee e progetti incrementali condivisi. Si tratta di mettere in campo iniziative credibili; di provare il metodo Ostrom, ormai maturo. Facciamo a Milano con AFOL Metropolitana un TEST di Politiche attive del lavoro positive, innovative, coraggiose e solidali; europee. Dove, se non qui? Quando se non ora? Dimostriamo che non è più vero che Milano corre e Roma pensa.

Francesco Bizzotto

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. Tutti i campi sono obbligatori.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.


Sullo stesso tema





26 ottobre 2021

HO VOTATO SALA

Ugo Targetti



28 settembre 2021

SALA O NON SALA

Gianluca Gennai



28 settembre 2021

PENSARE MILANO COME CENTRO DELL’INNOVAZIONE

Nicolò Boggian






26 settembre 2021

UNA CANDIDATURA PER SALA

Michele Sacerdoti


Ultimi commenti