8 settembre 2021
PERCHÉ LE CASE POPOLARI SONO COSÌ IMPOPOLARI?
Una domanda che ha più di sessant’anni
8 settembre 2021
Una domanda che ha più di sessant’anni
Nell’introduzione a The Exploding Metropolis, una raccolta di saggi pubblicati nel 1958 a cura degli editor della rivista Fortune, William H. Whyte jr notava come da quegli scritti emergesse una sorprendente relazione tra l’aspetto che andavano assumendo le città americane e il livello di coinvolgimento dei non specialisti nelle trasformazioni urbane. Maggiore è la possibilità che il cosiddetto uomo della strada si senta niente di più che una sorta di soprintendente del marciapiede (…) visto il gran numero di commissioni urbanistiche, di gruppi di studio e di professionisti di ogni tipo, più alta è la possibilità che così tante città patiscono la stessa sterile, ripetitiva progettazione. In sostanza, dato che la pianificazione e la progettazione delle trasformazioni urbane venivano lasciate solo agli specialisti, era inevitabile che gli edifici realizzati a seguito di quei piani e di quei progetti fossero profondamente istituzionali.
Whyte non era il solo a sostenere che l’aver lasciato le trasformazioni delle città americane interamente nelle mani degli esperti fosse la causa dell’aspetto istituzionale, monotono e deprimente dei settori rinnovati per eliminare il degrado che prima li connotava. Già nel 1947 il saggista di orientamento anarchico Paul Goodman e il di lui fratello Percival, architetto, avevano introdotto in Communitas. Means of Livelihood and Ways of Life una prima critica ai dogmi dell’urbanistica che discendeva dal Movimento Moderno in architettura. I Goodman ritenevano che i principi sui quali si era basata l’urbanistica moderna andavano fatti risalire a quando gli uomini erano parte della macchina, cioè di quei processi industriali che avevano innescato le necessità del rinnovamento urbano e fatto nascere l’urbanistica.
Essi notavano che a partire da La Ville Radieuse di Le Corbusier le abitazioni erano diventate macchine per vivere, i grattacieli macchine per le comunicazioni e gli scambi, e le strade macchine per il traffico. Il piano penetrava oltre i muri delle case, fino all’arredamento e ai mobili. La città ideale di Le Corbusier, aveva a loro dire l’obiettivo noioso e ingombrante di realizzare la società intesa come una Organizzazione. I Goodman fanno un chiaro riferimento al celebre libro di William H. Whyte The Organization Man pubblicato nel 1956, in cui l’indagine sociale e antropologica si estendeva alle trasformazioni urbane e al loro carattere burocratico. Nell’introduzione a The Exploding Metropolis, quest’ultimo autore sottolineava come la cultura degli urbanisti moderni, che potremmo definire della città-macchina, avesse prodotto da una parte la straordinaria proliferazione delle aree suburbane, luogo d’elezione per la residenza della classe media, e, dall’altra, le case popolari per la popolazione a basso reddito.
Catherine Bauer, una delle maggiori esperte di edilizia residenziale pubblica negli Stati Uniti d’America, in un articolo pubblicato nel 1957 da Architectural Forum, sottolineava l’aspetto altamente standardizzato, monotono e istituzionale, come gli ospedali per reduci di guerra o gli orfanotrofi di vecchio stampo, che i meccanismi progettuali conferivano alle case popolari. Il fatto poi che i complessi di edilizia residenziale pubblica fossero di solito progettati come isole – “unità immobiliari comunitarie” che girano le spalle al quartiere circostante con il quale sembrano non avere nulla in comune – non fa che aumentare questa caratteristica istituzionale e proclamare visivamente il loro essere a favore della popolazione a basso reddito. Si trattava in sostanza di progetti per la segregazione sociale conseguenti a una precisa idea di società. I complessi di case popolari finanziati con soldi pubblici finivano per essere una replica dei ghetti di cui avevano preso il posto, solo migliori dal punto di vista costruttivo.
Le parole di Bauer saranno riprese tre anni dopo da James Baldwin in un articolo apparso nella rivista Esquire nel quale lo scrittore afro-americani sosteneva che c’è una legge valida ovunque nel mondo, quella per cui le case popolari sono incoraggianti quanto una prigione. Gli abitanti neri di Harlem – osservava Baldwin – non appena trasferiti nei complessi residenziali a loro destinati hanno cominciato a rompere le finestre, distruggere i muri, urinare negli ascensori e fornicare nei campi da gioco.
Rispetto allo sconcerto dell’opinione pubblica progressista e alla condanna di coloro che vedevano in tutto ciò la prova provata del fatto che nulla si può fare per migliorare la condizione della gente di colore, egli concludeva che un ghetto può essere migliorato solo in un modo: smettendo di esistere. Poiché i principi del Movimento Moderno prescrivevano che le caserme dei progetti residenziali, invece di allinearsi lungo le strade, dovessero essere innestate su ciò che nel gergo delle gang giovanili si sarebbe definito “il territorio” – il turf con il quale si indica il tappeto erboso che attornia gli edifici proprio per negare il loro allineamento stradale – ne conseguiva che con il sopprimere la disposizione degli edifici lungo la strada si finiva per incentivare le attività antisociali delle bande giovanili, che trovavano nel turf il territorio da controllare.
Anche Jane Jacobs in Vita e morte delle grandi città, pubblicato nel 1961, ha puntato l’indice contro l’urbanistica del rinnovamento urbano che sopprimeva le strade e i marciapiedi, «i più importanti luoghi pubblici di una città e i suoi organi più vitali», e contro i progetti basati sulla logica dei turf, che da una parte finivano per favorire la formazione di bande della criminalità giovanile e, dall’altra, per accrescere il bisogno di sicurezza. La necessità di barriere sempre più invalicabili non faceva che aumentare il degrado dei complessi progettati proprio per eliminarlo.
In quell’articolo del 1957 Catherine Bauer sosteneva che ci fosse una domanda ancora priva di una risposta affidabile ed essa era: perché le case popolari sono così impopolari? A distanza di oltre sessant’anni, e in un contesto alquanto diverso, sembrerebbe che quella domanda dovremmo farcela di nuovo, vista la quantità di denunce e di appelli riferibili alle condizioni in cui versano molti insediamenti di edilizia residenziale pubblica a Milano e non solo.
I tanti slogan associati alle periferie, che per una strana proprietà transitiva sono diventate sinonimo di case popolari, testimoniano l’esistenza di problema che va molto oltre l’aspetto geografico del rapporti con il centro. L’uso di parole come rammendo e rigenerazione ci dice che il problema è rappresentato da una situazione dominata dallo strappo e dalla degenerazione. Al di là del profluvio di studi, indagini, programmi che lo indagano, spesso facendo propria la postura dell’entomologo rispetto al punto di osservazione, la domanda che forse ha qualche senso porsi è la seguente: di quanti insediamenti di edilizia residenziale pubblica – dei quali Milano ha un’importante e utilissima dotazione – si può dire che abbiano quell’aspetto standardizzato, istituzionale, monotono e deprimente alla base dell’affermazione di Baldwin? Quanto è diffusa la logica dei turf e, per converso, la negazione della strada nei progetti di quegli insediamenti e quanto essa ha a che fare con la microcriminalità? Per quanti di loro vale lo stigma del ghetto per poveri?
Ricorda lo storico John Foot, nel suo Milano dopo il miracolo (2001), che la Comasina – il quartiere autosufficiente completato tra il 1958-60 e dotato di tutti quei servizi ed esercizi che, secondo gli urbanisti, avrebbero permesso lo sviluppo di una comunità – divenne invece «il classico “ghetto”, vuoto di giorno (…); pieno di sera, ma desolato e senza luoghi di aggregazione sociale spontanea non ufficiali, anche se annoverava tre centri sociali e una chiesa con strutture sportive e culturali». Il fatto che qualcosa non fosse andato per il verso giusto era già stato appurato nel 1964 dall’Istituto Lombardo di Studi Economici e Sociali, che aveva notato come, appena fuori le mura dei dignitosi alloggi dove «consistenti gruppi di sfrattati, senzatetto ed ex baraccati» avevano trovato casa, «il quartiere aveva subito iniziato a decadere».
Nel 1958 Anna Maria Ortese, in uno dei racconti che formano il suo Silenzio a Milano, descriveva più o meno le stesse cose quando, uscendo in auto dal centro, un personaggio vedeva venire avanti «il mare gonfio e scuro, sinistro e scuro dei quartieri periferici [dove] anche le case recenti hanno un che di vecchissimo». Vecchissime e muffite erano le case di ringhiera da cui quel personaggio del libro fugge per cercare un alloggio dignitoso, anche se molto lontano. Ora gli edifici vecchia Milano, secondo il gergo degli agenti immobiliari, sono, da una parte inseriti nei processi di sostituzione sociale (o, per usare un termine di moda, di gentrificazione) e, dall’altra, fanno parte del panorama del degrado diventato lo stigma delle periferie.
Emblematico è il caso del settore attraversato da via Padova, da un lato incluso nella creazione del brand NoLo e dall’altra caratterizzato da ambiti residenziali che in altro contesti si definirebbero con il termine un po’ brutale di slum. Sono case popolari che nulla hanno a che fare con l’edilizia residenziale pubblica, dove spesso quelle forme di degrado e altre resistono ai programmi finalizzati da un paio di decenni alla loro eliminazione. Come nel gioco dell’oca, anche qui si ritorna al punto di partenza, a quel inestricabile connubio tra periferie e degrado sul quale queste note offrono solo qualche spunto di ragionamento.
Michela Barzi
NOTA. Le frasi in corsivo sono frutto della mia traduzione dall’inglese.
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