31 gennaio 2021

LA GIUNTA MILANESE E I DUE MODI DI AMMINISTRARE LA CITTÀ

Per Milano. Elementi per un’amministrazione che se ne prenda cura*


Due modelli per il Comune – Da tempo si fronteggiano due modalità di interpretare il ruolo del Comune: il Comune come azienda (pubblica), idea per la quale la buona amministrazione consiste nel garantire efficacia ed efficienza nell’erogazione dei servizi e nell’avere i bilanci in ordine; il Comune come istituzione che ha come obiettivo prioritario il bene comune.

Nel primo caso il cittadino è ridotto a contribuente/utente: vince l’idea thatcheriana per cui «la società non esiste, esistono gli individui». Nel secondo caso il cittadino è inteso come abitante, ovvero come parte di un corpo sociale verso cui ha un legame di responsabilità e dal cui buon funzionamento tutti possono avere benefici. In questa seconda interpretazione l’azione amministrativa ha al centro tre obiettivi:

  1. il benessere dei cittadini;

  2. la crescita culturale individuale e collettiva e il rafforzarsi di una cultura civile;

  3. l’inclusione, la coesione sociale e il fiorire di relazioni sinergiche.

In tema di urbanistica, nel Comune interpretato come azienda, il sindaco e la giunta si sentono investiti del ruolo di facilitatori dei processi di trasformazione. La priorità è incrementare quanto più possibile le entrate del pubblico bilancio (oneri di urbanizzazione ecc.), mentre le decisioni strategiche sono in larga parte lasciate nelle mani degli operatori privati (banche e assicurazioni, investitori finanziari, promotori immobiliari ecc.) per i quali la remuneratività degli investimenti vince su ogni altro obiettivo, compreso il destino della città.

Porre al centro il bene comune, per gli amministratori pubblici significa prendersi cura della polis, nelle sue accezioni di civitas (il corpo sociale) e urbs (il corpo fisico). E dunque fare politica al massimo grado. Chi opera secondo questa impostazione ha piena consapevolezza della portata strategica delle trasformazioni della città e delle loro implicazioni politiche sul lungo periodo, nel senso della loro capacità di condizionare le relazioni e la coesione sociale. Un simile modo di governare il territorio presuppone una verifica – a priori e a posteriori, con gli strumenti adeguati – della sostenibilità sociale degli interventi, principio inderogabile su cui basare le scelte. È invece un terreno su cui regnano incompetenza e noncuranza.

Perseguire il bene comune comporta che si ponga grande attenzione alle fonti del benessere collettivo e dunque anche all’economia (con particolare attenzione all’occupazione). Se in questo ambito le possibilità di azione dell’Ente locale sono piuttosto ridotte, nondimeno sindaco e giunta possono svolgere un ruolo attivo di stimolo e concertazione su più fronti: verso l’iniziativa privata, verso il mondo della conoscenza e della formazione e, ovviamente, verso gli altri livelli della Pubblica amministrazione (Regione e Stato). Né le amministrazioni comunali tese al bene comune disarmano di fronte alla inadeguatezza cronica mostrata da questi livelli di governo.

Il Comune azienda: le conseguenze su Milano

Come si collocano la giunta milanese uscente e quelle che l’hanno preceduta rispetto ai due modi alternativi di amministrare il Comune sopra indicati? La prassi da tempo invalsa, a Milano come a livello nazionale, vede ridotta ai minimi termini la capacità delle amministrazioni locali di darsi un quadro strategico volto al bene comune e di agire di conseguenza. La portata politica dell’azione amministrativa risulta in larga parte annullata in partenza e lo scivolamento verso il modello del Comune azienda avviene in un modo che è dato per inevitabile. Si dà ormai per scontato che a decidere gli assetti delle trasformazioni urbanistiche sia il “mercato”, ovvero il complesso degli attori che va sotto questo nome. Risultato: è aumentata vertiginosamente la tendenza a dar vita a complessi edilizi a «grana grossa» (per usare la nota espressione di Colin Ward), specializzati in termini funzionali e, quanto alla residenza, rispondenti a una netta distinzione in termini di reddito. Segnalo le due conseguenze più rilevanti:

  • l’estendersi di processi di lacerazione del corpo fisico e sociale della città;

  • la formazione di gated communities, più o meno camuffate, con la crescita di segregazione per un verso e di emarginazione sociale per altro verso.

La Milano nuova venuta avanti negli ultimi due decenni è inscritta in questo modello. Allo stesso tempo, i caratteri assunti dal nuovo paesaggio urbano sono la riprova della portata squisitamente politica delle scelte urbanistiche operate dalla Pubblica amministrazione. Una portata che, a fronte della breve durata delle giunte, è destinata a distendersi sui tempi lunghi condizionando pesantemente i quadri di vita delle generazioni future.

Su questo stenta a farsi avanti una consapevolezza collettiva. Il fuoco di sbarramento innalzato dai media osannanti le «magnifiche sorti e progressive» di Milano Città Stato – un’operazione insistita e condotta in grande stile – porta semmai acqua al mulino di una regressione della coscienza civile. Ma il telo di questo Truman show non tiene: non è in grado di nascondere l’aumento delle disparità sociali. Una sofferenza estesa per ora ancora silenziosa, anche se l’allungarsi delle code nei punti di assistenza parla chiaro.

Più in generale è il bilancio sul fronte del fare città a essere decisamente in rosso. L’aggiungersi di interventi a interventi ha avuto come esito il prodursi di sconnessioni e lacerazioni nel tessuto urbano come in quello sociale contribuendo a mettere in discussione la qualità e la stessa natura civile della città. Le trasformazioni edilizie decise sulla base esclusiva della redditività degli investimenti hanno infatti portato a un regresso dell’urbanità; una condizione da cui difficilmente la città ambrosiana riuscirà a risollevarsi.

Se non si verifica un esteso sussulto di resipiscenza, la strada è segnata: la qualità urbana di Milano, nei prossimi decenni, è destinata a entrare ulteriormente in crisi. Non fa ben sperare il fatto che, a esclusione delle puntuali azioni di contrasto dei comitati di cittadini su singoli problemi, qui come altrove, si elevino peana celebrativi alla dissoluzione del lascito più prezioso della civilizzazione: la città.

Come invertire la rotta?

Vietare processi di zonizzazione funzionale e sociale può essere un modo per contrastare la disgregazione. Ma più che i divieti, a incidere può essere solo una politica attiva: una accorta, quanto determinata, regia della Pubblica amministrazione nel promuovere l’urbanità e la coesione sociale. Questo significa prefigurare e imbastire concretamente un quadro di attività, di presenze e di relazioni capace di innervare le parti della città che soffrono.

Allo stesso tempo occorre che si presti la massima cura allo spazio pubblico, così da renderlo vitale e insieme presidiato dagli abitanti in ogni parte del corpo urbano. La difesa della democrazia passa anche da qui. È infatti la socialità il primo vero antidoto all’insicurezza (e alla domanda irrazionale di poteri forti che questa finisce per generare).

La città “a grana grossa” tende invece a fare degli spazi aperti pubblici (piazze, strade, parchi) dei deserti relazionali, dei luoghi inospitali che chiedono di essere presidiati, con lo scivolamento inesorabile verso processi di controllo militarizzato (Porta Nuova e Citylife insegnano). Nella messa a punto di una strategia volta a rafforzare l’urbanità e la coesione sociale può essere feconda la nozione di “tessuto urbano” (proprio quella modalità di costruire città che il razionalismo in urbanistica, quasi un secolo fa, ha invece pensato di liquidare). Puntare sul consolidamento e/o formazione dei tessuti insediativi significa, in primo luogo, riconoscere il quadro dei valori di cui in generale è portatrice la città compatta; un quadro che a Milano, soprattutto nella parte ottocentesca, è connotato da un senso della misura intesa a creare condizioni di ospitalità, domesticità e affabilità delle strade, delle piazze, come anche dei parchi-giardino.

In secondo luogo, significa operare nei nuovi interventi per una reinterpretazione, secondo la sensibilità contemporanea, delle regole inscritte nei tessuti esistenti. Occorre che in ogni intervento trasformativo si sappiano ricreare tessuti relazionali capaci di assicurare, insieme, vitalità sociale e sicurezza. Questo significa tornare a fare dello spazio pubblico l’armatura portante dei luoghi: lo spazio dell’abitare condiviso, il teatro di interazioni e di sinergie propulsive della cultura civile.

Questione urbana e questione metropolitana: due nodi da affrontare assieme

Un tratto che contraddistingue l’abitare contemporaneo è la coesistenza di relazioni di prossimità e di relazioni a distanza. La condizione metropolitana si basa sul coesistere di queste due prerogative e la loro sinergia può spiegare le ragioni del successo del modello metropolitano. I problemi sorgono, su un versante, quando entro un certo raggio – mezzo miglio in termini di spazio; 15 minuti in termini di tempo negli spostamenti pedonali – non sono assicurati servizi primari, e, sull’altro versante, quando l’inefficienza dei trasporti pubblici finisce per erodere una parte considerevole del tempo disponibile per l’abitante della metropoli.

Nel caso del contesto milanese, ha grande rilevanza la dicotomia, in termini di efficienza dei trasporti, fra il capoluogo e l’hinterland metropolitano. È uno dei termini della questione metropolitana (a cui vanno aggiunti la disuguale dotazione di servizi e di funzioni ‘nobili’ fra città centrale e hinterland e lo squilibrio nelle dotazioni di risorse pubbliche): un insieme di problemi annosi che la legge 56/2014 (cosiddetta legge Delrio) non solo non ha consentito di affrontare ma ha contribuito ad aggravare.

Un programma per Milano non può non contenere precise indicazioni su come si intende procedere nel ritrovamento di un nuovo equilibrio fra la città centrale e il resto del contesto metropolitano. A cominciare da due nodi:

  • l’adozione di una forma di governo democratica per il contesto metropolitano (ben diversamente dal centralismo promosso dalla legge Delrio);

  • la capacità di perseguire un effettivo policentrismo, ovvero un riassetto nella dotazione di servizi sovracomunali e di attività ‘nobili’ e, appunto, una rete di trasporti pubblici in grado di rispondere adeguatamente alla grande domanda di mobilità territoriale (un’operazione come quella di Mind sulle aree ex Expo va in direzione opposta in quanto assorbe energie che andrebbero invece spese per rafforzare l’armatura urbana esistente).

Gli Scali ferroviari: un grande banco di prova

Un cenno infine all’operazione più rilevante dei prossimi decenni: il recupero degli Scali ferroviari. Al di là delle inadempienze eventuali rispetto alla legislazione vigente (una questione che spetterà alla Giustizia dirimere), le vicende recenti confermano la grande debolezza della politica: l’assenza a ogni livello di governo di una visione strategica. Che un’azienda pubblica sia il primo anello di una catena che punta a creare/incamerare rendite immobiliari rilevanti e a promuovere i conseguenti modelli insediativi (del tutto simili a quelli messi in atto a Porta Nuova e a CityLife) è sconcertante. La scusa che questo serva a fare cassa per finanziare interventi sulla rete ferroviaria è la foglia di fico che non nasconde il fallimento della Pubblica amministrazione (a tutti i livelli) – e della politica – sul tema del fare città.

Con il processo messo in campo con l’operazione Scali, a Milano la strada per sfasciare ulteriormente il corpo urbano e per accentuare la divisione fra la città dei benestanti e la città dei ceti deboli è tracciata. Il Covid 19 ha mostrato come lo scenario immaginato da chi ha promosso/avallato questa gigantesca operazione abbia in più di un punto i piedi d’argilla (con il rischio che la città delle ortiche, che fa mostra di sé a Porta Vittoria, si estenda costellando la città con paesaggi di rovine).

Il recupero degli Scali è uno dei punti su cui dalla nuova amministrazione ci si attende un deciso cambiamento di rotta.

Giancarlo Consonni

* Il testo rielabora l’intervento all’incontro on-line su La Città futura, discussione per costruire Milano Unita, tenutosi il 27 gennaio 2021. All’incontro, introdotto da Paolo Tafuro, hanno partecipato, oltre a G. Consonni, Emilio Battisti e Gianni Dapri.



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  1. Antonio CortinovisAnalisi profonda, affascinante e intervento puntuale e profondo. Confido porti alle necessarie riflessioni nei decisori. Da parte mia: grazie prof. Consonni!
    3 febbraio 2021 • 10:11Rispondi
  2. Arturo CalaminiciCaro Giancarlo, ho letto con vera gioia – politica, intellettuale, morale – il tuo magnifico “intervento”, rivisitato rispetto a quello orale e in immagine della settimana scorsa, già esso molto incisivo e stimolante. Questa tua lectio magistralis colpisce e quasi turba per la grande passione civile che la percorre parola per parola, e per la precisione e la chiarezza: un vero manifesto. La sua esplicita destinazione politica, la sua costruzione che avanza per gradi, salendo verso una più ampia visione delle progressive distorsioni (e distopie) introdotte nel tessuto fisico della città quanto in quello sociale, potrebbe-dovrebbe suscitare un nuovo movimento di idee, di resistenza e di ribellione nei confronti di una cultura liberista che trasforma tutto quello che tocca in merce, da portare al mercato. Ora, il processo di alienazione e reificazione è arrivato ad un punto tale che la stessa città, globalmente intesa, ed il suo centro storico in particolare (il resto non conta, non si vende!) diventa una cosa, un prodotto che si offre a lontani compratori. Sul mercato viene messa anche la bellezza, la storia, la misura e il garbo (che vanno inesorabilmente dileguando) di questa nostra città, le cose sue più immateriali, quelle più spirituali, le più creative, sussunte, si dice così?, da quelle molto solide, delle grandi operazioni immobiliari. Delle tre grandi forze culturali e politiche presenti fino a un certo punto nella storia del nostro paese, quella cattolica, quella socialista e quella liberale, solo quest’ultima, nella versione peggiore, cioè liberistica e mercatistica, tiene bene il campo, si è fatta egemone e dominante; il socialismo, che ha avuto a Milano la sua culla, è del tutto inesistente, un vecchio ricordo e per noi un doloroso ricordo, e la tradizione religiosa e cattolica anch’essa soccombente alla secolarizzazione che avanza nella forma spietata del business, si è ridotta ad essere una presenza, quanto mai utile certo, che tenta di porre un disperato ma insufficiente rimedio alle lacerazioni e ai guasti di una città che si fa estranea e anche nemica. Milano, sempre esempio dei tempi nuovi che avanzano, modello di quello che può diventare l’intero paese, si mostra oggi come la città più capitalistica d’Italia, cioè quindi anche come la più alienata-alienante. Resta, è vero, ancora tanto della vecchia città meneghina, della attenzione ambrosiana alle persone, della sua urbanità e affabilità, come a te piace dire, e questo ha un valore alto. Ma è proprio questo valore che attrae gli investitori, che ha un suo prezzo e che si vende bene! E’ possibile fermare, almeno frenare questa deriva? E quali sono le forze su cui possiamo contare? Ci affidiamo, consegniamo i nostri messaggi e le nostre speranze a chi? Agli eredi dei vecchi partiti popolari di sinistra, del tutto irriconoscenti e dissipatori fino all’ultimo di quel patrimonio, a coloro che armi e bagagli hanno abbandonato il campo e sono passati in quello avverso? Con chi parliamo, con il manager Sala?, emblema dei vincitori, impastato della ideologia liberistica, convinto propagandista della città vetrina, smart e altre amenità dicendo? Solo la politica, un suo ritorno, un suo risveglio ci può salvare, ma essa invece annega e, come il barone di Munchausen, non può trarsi dal gorgo tirandosi per i suoi stessi capelli. Da decenni, tramontata la classe operaia, è aperta la questione del “soggetto” che dovrebbe guidare la trasformazione, ma più se ne discute e meno lo si trova. Di sicuro, grande è la confusione sotto il cielo, ma non per questo possiamo dire che la situazione è eccellente! Ancora grazie per il tuo contributo.
    3 febbraio 2021 • 11:07Rispondi
  3. Paolo BurgioProvo un moto di risveglio del mio animo cittadino alla lettura dell’articolo di Giancarlo Consonni. Abbiamo bisogno di buoni maestri, di quelli cattivi c’è abbondanza a dismisura, per recuperare la dignità dell’essere cittadini e alimentare la passione “politica” che ognuno di noi deve coltivare. Ma quando l’attuale amministrazione smetterà di occuparsi solo di propaganda mediatica, solo di marketing a supporto alla propria funzione di rappresentanza, che svilisce tutto, riduce l’alto compito dell’amministratore pubblico a mero servitore degli interessi mercantili di una classe di nuovi protagonisti del mondo economico finanziario del tutto impresentabile e deprime lo spirito di partecipazione e di impegno civile della cittadinanza? Quasi ogni nuova iniziativa immobiliare avallata da questa amministrazione vede la nascita di comitati e movimenti cittadini sorti spontaneamente per contrastare le scelte calate sulle loro teste; è questa una cartina di tornasole dell’avvilente condizione della politica cittadina (per tacere di quella nazionale) che non sembra offrire alcuna prospettiva di cambiamento. I problemi, che con tanta chiarezza l’articolo di Consonni ha esposto, sono destinati a restare irrisolti, servirà la prossima tornata elettorale a trovare qualche spiraglio per colmare il vuoto di partecipazione della politica alla costruzione del bene comune, perché è questa che manca, non tanto quella della cittadinanza, per invertire la rotta?
    3 febbraio 2021 • 16:35Rispondi
  4. Marina RomanòNella mia città futura ideale vorrei solo amministratori capaci di analisi così profonde e animati dalla stessa passione civica e dal rigore intellettuale di Giancarlo Consonni. Un grazie a lui anche da parte mia per questo suo intervento.
    5 febbraio 2021 • 16:12Rispondi
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