10 dicembre 2020

COM’È FATTO IL POPOLO COVID?

Un ritratto impietoso ma non da ora


Tra irresponsabilità di chi governa, dei media, delle persone il Covid si sta mostrando tuti i difetti di un popolo poco altruista, dove pochi responsabili tentano di salvare gli irresponsabili.

pivetta

Mesi fa, all’apparire in forze della pandemia, ci si chiedeva come sarebbe stato dopo, come saremmo stati noi dopo. Si viveva ancora tra la sorpresa di fronte alla voracità di un morbo che veniva dall’Oriente e la certezza che l’Occidente, in virtù dei suoi primati economici e delle sue scienze, della sua “civiltà” insomma e della sua “modernità”, l’avrebbe debellato rapidamente. Dopo un anno il virus sembra più vispo che mai e si contano ancora i morti e i contagiati, si lamenta ancora la penuria dei letti nelle terapie intensive. Si spera nei vaccini, una pratica lunga e non certo universale.

Ad apertura del sito di qualsiasi quotidiano, nel tardo pomeriggio, i numeri disegnano senza ambiguità la ferocia della malattia. Il disastro del Vajont nel 1963 provocò duemila morti, il terremoto dell’Irpinia nel 1980 di morti ne fece quasi tremila: nel 2020 bastano quattro o cinque giorni di covid per pareggiare i conti. Non parliamo di guerre, perché non siamo in guerra: non si muore di bombe o di fame, si muore per una febbre influenzale, perché ti manca l’aria, e per irresponsabilità. Gli “esperti” prevedono la terza ondata. Da inesperto mi viene da pensare ad un fiume lento che da un anno continua a disperdere veleni inquinando pianure indifese, perché l’unica difesa purtroppo è stare lontani, stare lontani gli uni dagli altri, cercare l’isolamento che è solitudine e la solitudine obbliga a pensare, la solitudine è pensiero, ma i più non vogliono “stare lontani” e mi pare temano il pensiero…

Non so come si comportino gli altri: la Merkel impone blocchi pesanti e il suo parlamento la sostiene, la Svezia corre ai ripari, la Svizzera mi pare lasci fare (in particolare sulle piste di sci). Ma non si conoscono i comportamenti dei tedeschi, degli svedesi, degli svizzeri (tranne appunto che sulle piste di sci, in compagnia dei nostri connazionali).

Abbiamo letto di “negazionisti” in piazza, nelle capitali europee e negli Usa, ma non si capiva quanti fossero. Sono forse più pericolosi i nostri “negazionisti”, non quelli rumorosi intravisti a Roma, pochissimi, intrattenuti da un ex generale e da un ex comico, ma quelli “striscianti”, incuranti, menefreghisti di vecchio stampo, indifferenti, opportunisti a difesa di un “particolare” che si potrebbe definire familiare o familista, egoisti, semplicemente inconsapevoli…

Quelli del “ma noi…”, quelli che rivendicano “il nostro diritto” e che non immaginano neppure che esista insieme “il nostro dovere”. Quelli che non resistono senza l’aperitivo e che allo stesso modo sostengono di non poter resistere senza cinema e senza teatri (sempre scarsamente frequentati, peraltro). Quelli che non capiscono…

Le fotografie della scorsa domenica, la domenica delle regioni gialle, non sono altro che la cronaca prevedibile dello shopping, la festa non tanto dell’acquisto (che secondo gli economisti rimetterebbe in moto la produzione) quanto della vocazione a partecipare a un rito che si ritiene ormai irrinunciabile, come la vacanza sulla neve o come sarà tra breve la partita, come il cenone natalizio vissuto per lo più in epoca pre-covid alla stregua di una insopportabile scocciatura.

Sembra che gli italiani preferiscano “i piaceri dello spettacolo e gli altri diletti de’ sensi a quelli più particolarmente propri dello spirito, e che gli spinge all’assoluto divertimento scompagnato da ogni fatica dell’animo…”.

Questa fotografia è di Giacomo Leopardi, pertinente per quanto antica: “Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni delle classi non bisognose in Italia”.

Pochi giorni fa il Censis, l’istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964 da Giuseppe De Rita, ha pubblicato il suo ultimo rapporto, ricchissimo come sempre di informazioni. Dal quale rapporto si deduce ad esempio che manca il lavoro, ma che rispetto al dicembre 2019, nel giugno 2020 la liquidità (monete, biglietti e depositi a vista) nel portafoglio finanziario degli italiani ha registrato un incremento di ben 41,6 miliardi di euro (più 3,9 per cento in termini reali) e che nel complesso il portafoglio finanziario dei nostri connazionali ha superato i quattromila 400 miliardi.

Si legge anche che meno del sessanta per cento degli italiani è disposto ad accantonare le libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, ma che quasi il quaranta per cento è pronto a rinunciare persino ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, accettando limiti allo sciopero, alla libertà di opinione e alla appartenenza a sindacati e associazioni. Nostalgia dell’uomo forte.

Nell’era dei consumi, il benessere materiale, suggestione o realtà, pubblicità o consapevolezza di una condizione, pesa per molti più della democrazia. Tuttavia, nelle piazze televisive e in quelle virtuali, sia attraverso un microfono aperto sia attraverso Facebook, l’ansia di partecipazione è travolgente. Tutti hanno un’opinione da manifestare. Dal fondo delle sale o dalle poltrone di casa si leva un brusio assordante.

L’incompetenza sale in cattedra: nessun ostacolo, nessuna remora. Anzi, viene blandita, incoraggiata, soprattutto se urlata. Forse proprio perché di incompetenza si tratta, preziosa quando serve a manomettere l’opinione pubblica, a indirizzarla… Il covid ha stimolato tutti a scoprire le carte, a rivelare congiure, a individuare colpevoli, a proporre soluzioni o a negarle, a criticare divieti e a pretendere permessi (naturalmente ritagliati secondo l’esigenza personale).

Mai a considerare che agli oratori, ai contestatori, ai persuasori toccherebbe anche l’onere della prova. Al gioco ovviamente, chi più chi meno, partecipano i media, in un ruolo di equidistanza che appunto lascia risuonare tutte le voci, tutte le campane, attendibili o meno, in una rappresentazione che sa spesso di omertà.

Informare significherebbe “formare”, cioè orientare, educare secondo un punto di vista dichiarato, selezionando le opinioni. Come una rivista scientifica non pubblicherebbe studi e ricerche inattendibili, così un giornale non dovrebbe consentire il libero corso delle fake news.

Quasi due secoli fa, Vincenzo Gioberti, il cui nome una volta a scuola si mandava a memoria come quello di uno dei padri del Risorgimento, scriveva che il popolo italiano “è un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa…”.

L’abate torinese potrebbe constatare oggi l’esistenza di un popolo di individui, che non si sentono troppo partecipi di una comunità. In alto come in basso. Lo scontro perenne tra alcuni presidenti di regione e il governo centrale è lo specchio di una rottura, di un conflitto di interessi, che chiude le porte al “bene comune”.

Non servono altri esempi: sono sotto gli occhi … Nella disgrazia dei tempi, ciascuno rema per sé in vista di chissà quali vantaggi, mentre occorrerebbe coesione, come si mostrò in altre epoche, nella lotta di Liberazione o nel fronteggiare il terrorismo. Capacità, volontà smarrite.

Non del tutto. Le “minoranze virtuose” esistono. Non sanno però neppure loro ritrovarsi, non sanno insieme condividere un orizzonte, frustrate dalla crisi della politica e dalla confusione dei partiti, che rinunciano a proporsi secondo nette discriminanti ideali e programmatiche. Ma così, come si può pensare che guarisca un paese, sofferente non solo per colpa del covid.

Oreste Pivetta



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