21 novembre 2020

PROTAGONISTI DIMENTICATI DELLA CITTÀ: I PREFETTI

Alcuni di loro furono determinanti per la storia di Milano


Questi “servitori dello Stato” hanno avuto un ruolo centrale per Milano durante il fascismo e poi la Resistenza e la Liberazione. Nell’immediato dopoguerra si pensò di abolirli come intralcio alla libertà politica dei Governi. L’idea fu poi abbandonata.

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Cos’hanno in comune il generale cannoneggiatore Bava Beccaris e il socialista di sinistra Riccardo Lombardi? Il ministro delle corporazioni Carlo Tiengo, il ministro degli interni del Governo Badoglio Bruno Fornaciari e l’attuale ministro degli interni Luciana Lamorgese? L’autore dell’Ettore Fieramosca, Massimo D’azeglio, e il capo della polizia Angelo Vicari? Il fascistissimo Piero Parini e il comandante della brigata partigiana Maiella Ettore Troilo? Il commissario straordinario al Comune di Roma Paolo Tronca, il senatore democristiano Libero Mazza, il candidato a sindaco di Milano per il sinistra-centro Bruno Ferrante?

Sono stati tutti prefetti di Milano.

Dal 1860 ad oggi i prefetti sono stati 50 (i sindaci 36) più quelli (3) della repubblica sociale che non compaiono nell’elenco del ministero degli interni. Il più breve nella carica (4 mesi) Enrico Flores, il più lungo il messinese Achille Basile (10 anni). Prefetti che hanno sempre avuto un ruolo politico e che hanno lasciato un segno nella storia della città, in alcuni casi non meno importante di quello lasciato dai sindaci.

Milano fu per quasi tutti una tappa nella carriera. La maggioranza dei prefetti milanesi nel periodo monarchico furono nominati senatori. Alcuni sono stati ministri. Quattro sono stati capi della polizia: Giovanni Alfazio sul finire dell’800, Giovanni D’Antoni (che era stato destituito, arrestato e deportato in Polonia) dal 1948 al 1952, Tommaso Pavone che fu tra i protagonisti in negativo del caso Montesi dal 1952 al 1954, ma soprattutto Angelo Vicari; il suo incarico, durato oltre dodici anni (ottobre 1960 gennaio 1973) è stato il più lungo nella storia dell’Italia repubblicana, l’importanza del suo ruolo venne sottolineata durante il tentato golpe Borghese quando venne indicato dai golpisti come una delle personalità da eliminare fisicamente.

Uno Oscar Uccelli (rimosso da Badoglio e reintegrato durante la RSI) fu condannato a morte nel 1945 insieme all’ex-ministro degli interni della RSI Guido Buffarini Guidi ma mentre Buffarini fu giustiziato, Uccelli in appello fu condannato a 30 anni di reclusione e liberato nel marzo del 1947.

Uno, Giovan Battista Marziale, ebbe la moglie Marta Jenna di origine ebraica fucilata dai tedeschi mentre lui aveva “aveva l’obbligo di consegnare ai tedeschi gli elenchi degli ebrei. Il funzionario provvide alla compilazione delle liste, le fece comporre con certosina precisione e si recò regolarmente agli incontri … ma quegli elenchi ai tedeschi non li consegnò mai.” (Repubblica 16. 11. 2008).

Uno fu trovato cadavere per le strade di Paullo: Carlo Tiengo che secondo la testimonianza di Sandro Pertini, era presente la mattina del 25 aprile alla riunione in arcivescovado tra il cardinale Ildefonso Schuster e il Comitato di liberazione nazionale per discutere sulla resa di Mussolini e avrebbe riferito al duce la determinazione dello stesso Pertini di non consegnarlo agli alleati nel caso si fosse arreso provocando la decisione del duce di darsi alla fuga.

Ad alcuni sono dedicati volumi biografici e ricerche ad altri, i più, poche righe nei repertori ufficiali. Vale la pena ricordare due di questi “dimenticati”: Alfredo Lusignoli fu prefetto dall’agosto del 20 al maggio del 1923. Giolittiano, nemico giurato della giunta socialista in comune, in questo continuando la tradizione dei suoi predecessori; Angelo Pesce che aveva istituito (anche se mai funzionò) un corpo di volontari dell’ordine che dovevano collaborare con le forze di polizia nella prevenzione e repressione dei reati (venne definita la “guardia bianca” milanese) e che era stato sostituito dal governo dopo che Caldara si era dimesso per il suo “interventismo” su Palazzo Marino e il conte Filiberto Olgiati che già pensionato tornò a Milano come commissario governativo della Società Umanitaria con il compito di fascistizzarla.

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Lusignoli nell’agosto del 1922 lasciò che Palazzo Marino fosse occupato dai fascisti, lasciò che i fascisti assaltassero l’Avanti! e che in città ci fossero 6 morti per le violenze squadriste che spadroneggiarono per una settimana. D’intesa con il governo e il procuratore generale Antonio Raimondi (futuro senatore) che dichiara che quanto è accaduto non costituisce motivo di reato esautora l’amministrazione, firma un decreto con il quale nomina un commissario prefettizio (conte Ferdinando Lalli). Di lì a poco, il 27 agosto, un regio decreto scioglie il consiglio comunale e nomina commissario il barone Pio Carbonelli.

Non che fosse un fanatico; durante l’occupazione delle fabbriche in stile giolittiano aveva scritto una lettera ai comandanti della Legione Carabinieri e della guardia regia di Milano: “La situazione creata dalla occupazione degli stabilimenti è di una delicatezza eccezionale. Un incidente qualsiasi determinato da avventatezza o da impulsività di un agente potrebbe cagionare ripercussioni e compromettere la tranquillità del Paese. Non si deve trascendere nell’uso delle armi se non per ordine dei superiori nei casi di estrema necessità per la difesa della propria o dell’altrui esistenza. Non deve verificarsi effusione di sangue, e qualora tragici episodi accadessero, saranno tenuti a darne conto non solo gli autori materiali, ma anche coloro ai quali potesse risalire una qualsiasi responsabilità indiretta e morale”. Semplicemente come molti benpensanti riteneva i fascisti utili per marginalizzare i socialisti, li concepiva come una milizia armata della borghesia.

Rispetto ai suoi predecessori Lusignoli però era di altro livello e con altre ambizioni. Scrive la Treccani: “fu l’uomo chiave della strategia giolittiana volta ad attrarre il fascismo verso un’auspicata evoluzione moderata, affinché fosse inserito nei blocchi nazionali a guida liberale in vista delle imminenti elezioni politiche. Si deve inquadrare in quel contesto l’episodio del 18-19 maggio 1921 quando, a elezioni avvenute, dodici dirigenti di spicco del fascio milanese, tra i quali il segretario Pasella, furono arrestati: davanti alle vibrate proteste di Mussolini, il Lusignoli li fece rimettere tutti in libertà.

Dimessosi Giolitti, che l’8 giugno 1921 lo aveva fatto nominare senatore del Regno, il Lusignoli prestò la sua opera con il governo Bonomi, adoperandosi tra l’altro nel luglio 1921 per convincere i fascisti milanesi ad aderire all’accordo di pacificazione Zaniboni-Acerbo. Mussolini, in questa come in altre occasioni, di solito si incontravano in una saletta del Savini, lasciò probabilmente credere al prefetto (e di conseguenza al governo e a Giolitti, cui il Lusignoli fedelmente riferiva) d’essere disponibile a rinunciare alla violenza squadrista e pronto ad adoperarsi per riportare il movimento dei fasci nella legalità”.

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In una lettera dell’8 ottobre 1922 a Giolitti, Lusignoli affermò che Mussolini si era dimostrato disponibile a entrare al governo, disposto ad accettare un governo Giolitti chiedendo i ministeri degli esteri, guerra, marina e lavoro. Nel suo pressing giolittiano il prefetto incontrò più volte anche Turati.

Chiave il suo ruolo nella trattativa tra Mussolini e il governo durante la marcia su Roma: il Lusignoli fu il tramite tra i romani che insistevano perché Mussolini si recasse a Roma, senza la certezza di ricevere l’incarico ma anzi per trovare una mediazione e Mussolini stesso che rifiutava ogni mediazione.

Secondo Cesare Rossi (l’ambiguo fascista sansepolcrista, vicesegretario del Partito nazionale fascista, capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, coinvolto nell’omicidio Matteotti ma successivamente accusatore di Mussolini e condannato a 30 anni dal tribunale speciale) senza Lusignoli “la marcia su Roma non sarebbe nemmeno cominciata. Sarebbe bastato che il prefetto avesse fatto funzionare i normali organi di polizia perché la mobilitazione fascista venisse soffocata nel germe”. Sempre secondo Rossi Lusignoli aveva in mano un ordine di arresto per Mussolini inviatogli dal ministro degli interni il prefetto Taddei dal quale lo divideva una feroce concorrenza

Forse è un’esagerazione certo è che anche G. Acerbo ricordò come in una prima lista di ministri, “compilata a Milano e già trapelata nei particolari”, Mussolini avesse indicato Lusignoli come sottosegretario all’Interno; certo è che il 2 novembre 1922 fu nominato ministro di Stato, una carica in pratica onorifica che si riservava in genere agli ex presidenti del Consiglio.

In una lettera (23 dicembre 1922) scriverà a Mussolini: “Se in altri momenti ho creduto possibile una intesa coi socialisti riveduti e corretti (non parlo delle scorie massimaliste e comuniste), ho cambiato pensiero in seguito agli svariati errori di costoro … Dico questo perché diverse volte … Ella mi ha rimproverato certo mio atteggiamento che era, come sempre, ispirato al fondamentale pensiero dell’interesse del Paese; nella stessa maniera che ho, in un secondo momento, ritenuto indispensabile l’incanalamento del fascismo, senza di che le nostrane convulsioni non cesseranno”.

Nonostante rivendicasse una grande familiarità con Mussolini (non reciproca) i suoi rapporti con i fascisti milanesi, che aveva snobbato, erano pessimi, così quando prese corpo una voce che lo voleva nuovo ministro degli interni (la sua vera fissazione) accompagnata dalle conferme delle sue frequentazioni con vecchi esponenti liberali, cadde in disgrazia.

Evitò di essere cacciato dal Consiglio di Stato come altri suoi colleghi solo grazie all’intervento del presidente del senato Tittoni ma non poté evitare di essere pubblicamente sbeffeggiato dal quotidiano dei fascisti intransigenti L’Impero che diede notizia della sua “espulsione” fisica, per opera di G. Suardo (sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) dall’anticamera di Mussolini, come un comune postulante.

Nel 1927 fu inserito dal prefetto di Roma in un elenco di oppositori al regime. Tipico rappresentante di quel mondo che aveva pensato di “usare Mussolini” finì i suoi anni con i fascisti che non si fidavano di lui, le opposizioni che lo consideravano un amico del Duce e i vecchi liberali un doppiogiochista e un arrampicatore sociale. Morirà nel 1931. Mussolini in Senato lo ricorderà con un lungo discorso: “Il Governo si associa alle parole di commemorazione e di cordoglio pronunziate dal Presidente di questa Assemblea.”

Ma non tutti i prefetti furono figure ambigue come Lusignoli: il suo opposto fu il prefetto Troilo.

la_guerra_di_troilo-_2_Di origini abruzzesi avvocato si trasferì a Milano dove frequentò il “salotto” Kuliscioff, e divenne amico di un altro giovane avvocato Antonio Greppi. Fu anzi proprio grazie a questa frequentazione che Turati, quando Troilo decise di tornare a Roma lo presentò a Matteotti nella cui segreteria lavorò fino all’assassinio del deputato.

Lasciata Roma dopo l’occupazione tedesca tornò in Abruzzo dove avviò l’organizzazione di un raggruppamento partigiano che diverrà la Brigata Maiella, la più importante formazione partigiana del centro sud, la prima regolarmente riconosciuta dal Governo Italiano e dal Comando Militare Alleato, decorata di Medaglia d’Oro della quale Ferruccio Parri scrisse: “è l’unico esempio di formazione che opera fuori del territorio in cui è nata, e quando il fronte si muove e l’avanzata riprende, inquadrata nel dispositivo alleato come reparto di avanguardia, prosegue combattendo fino alla linea gotica e poi fino a Bologna ed oltre”.

Nel gennaio del 1946 viene nominato prefetto di Milano in sostituzione di Riccardo Lombardi che era diventato Ministro dei trasporti nel primo governo De Gasperi.

E’ un prefetto che deve affrontare i problemi di una città distrutta dalla guerra: decine di migliaia di disoccupati,14.000 immobili distrutti, 11.000 gravemente danneggiati, tra cui Palazzo Marino, il Castello Sforzesco, la Galleria Vittorio Emanuele, e ben 250.000 edifici da ricostruire. Deve affrontare il dramma del carovita e della vera e propria carestia cui risponde d’intesa con Greppi, con l’adozione di un calmiere che verrà preso ad esempio dallo stesso governo nazionale: una città con enormi problemi di ordine pubblico: solo nel 1946 si contano più di mille rapine e ottanta morti di criminalità comune.

È la Milano della rivolta del carcere di San Vittore (un carcere dove 3682 ex fascisti di Salò, ha ricordato Cuzzi, “convivevano con un migliaio di ex partigiani arrestati per eccessi o per atti illeciti di varia natura”), esplosa il 21 aprile 1946. È la Milano del fascismo rinascente con il simbolico trafugamento della salma di Mussolini. È la Milano dei raid della volante rossa. É anche la Milano in cui il ritorno ad una relativa normalità si misura con la riapertura della Scala, di Brera e la nuova Fiera Campionaria. È la Milano che deve garantire il corretto svolgimento delle elezioni sia amministrative che politiche.

Perché un prefetto “politico”? Perché come dirà anni dopo Riccardo Lombardi: “Non dimentichiamo che una delle esigenze della Resistenza era stata l’abolizione dell’istituto prefettizio (concordava su questo anche Einaudi) e che la assunzione delle Prefetture, al momento della Liberazione, da parte dei prefetti aveva avuto l’esplicito significato di una radicale trasformazione dei compiti, dei comportamenti e del modo di esercitare il potere rispetto a quelli tradizionali e ciò per preparare appunto l’eliminazione dell’istituto ritenuto giustamente incompatibile con la costituzione autonomistica che si voleva dare al nuovo Stato.

Troilo adempì splendidamente al suo compito, ricordandosi che al momento della sua assunzione il suo predecessore aveva dichiarato, mettendo in grave imbarazzo il governo militare alleato, che egli avrebbe risposto politicamente non a quest’ultimo, ma al C.L.N.A.I., da cui considerava derivassero i suoi poteri. Troilo impresse all’esercizio quotidiano della sua carica lo stesso indirizzo, rispettoso nelle forme e fermissimo nella sostanza, mantenendo ed accentuando quella che era ormai divenuta una consuetudine della Prefettura di Milano, di essere terreno di incontro e di elaborazione amministrativa e politica aperto all’accesso e alla libera manifestazione degli organismi popolari nei quali si andava articolando la nuova vita democratica della città e della provincia. (21 luglio 1974 su Patria).

Il 27 novembre 1947 Scelba comunica la sua rimozione o per meglio dire messa “a disposizione per nuovo incarico”.

Scrive il figlio: “È chiaro che Scelba vuole prefetti che siano esecutori degli ordini del ministro e non può accettare che proprio a Milano, nella provincia più importante d’Italia, vi sia un prefetto partigiano con una forte tendenza all’autonomia decisionale”. Immediata la reazione della città: il sindaco Greppi con altri 156 sindaci della provincia si dimette, viene proclamato lo sciopero generale mentre al comando di Pajetta partigiani armati occupano la prefettura, si narra che Pajetta esultante telefona a Togliatti “Abbiamo preso la prefettura di Milano!” per sentirsi rispondere: “Bravo. E ora che te ne fai?”.

Scelba mobilita i militari al comando del generale Manlio Capizzi anch’esso un ex partigiano, con l’ordine di assumere i poteri: in pratica, dichiara lo stato d’assedio, il comando militare americano rinvia il rientro degli ultimi soldati di stanza nell’Italia del Nord.

unnamedFu proprio grazie al senso dello stato di Troilo (e alla mediazione del democristiano Achille Marazza, un altro dimenticato) che rinunciò ad un inutile braccio di ferro se come Lombardi dice: “l’occupazione della Prefettura, l’enorme protesta popolare riuscirono a dare un segno e un avvertimento. Non si poteva certamente vincere, ma si poteva dimostrare, si dimostrò, che le forze, gli ideali della Resistenza erano vivi e presenti e che nessuno mai li avrebbe potuti eliminare: sconfiggere momentaneamente forse sì, ma sradicare, no. Quella battaglia politica fu chiusa come non poteva non chiudersi.”

Quella che è stata definita “la guerra di Troilo” (che è anche il titolo del libro dedicatogli dal figlio), si conclude il 2 dicembre 1947: Troilo è ricevuto da Scelba e da De Gasperi, un comunicato congiunto pone fine alla vicenda, mentre a Milano Greppi ritira le dimissioni e Pertini presiede la riunione del comitato cittadino che coordinava la protesta. Vicenda chiusa ma non troppo se alla fine dell’articolo che descrive gli incontri il Corriere della Sera scrive: “nel pomeriggio a tutela dell’ordine pubblico il palazzo della prefettura e i suoi accessi sono stati presidiati oltre che dalla Polizia dai reparti della divisione Legnano e rinforzati da mezzi corazzati e cavalli di frisia…”.

La definitiva normalizzazione toccò al suo successore, proveniente da Torino, Vincenzo Ciotola così definito nella biografia ufficiale della prefettura di Torino: “eccellente antifascista… In quei drammatici giorni in cui Torino cade in mano nazista, mentre altri abbandonano si batté coraggiosamente, con grave pericolo personale e fino all’ultimo, per organizzare la difesa contro il nemico… viene destituito e inserito, unitamente ai suoi familiari, “nella lista degli ostaggi che la Prefettura aveva predisposto”.

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Lasciata la prefettura Troilo per un breve periodo fu Ministro Plenipotenziario presso l’ONU poi si dimise da tutto, anche dal ruolo prefettizio cosicché si autodefinì “l’unico ex funzionario dello Stato che non gode di alcuna pensione”. Candidato nelle liste del Fronte Popolare fu il primo dei non eletti e tornò a fare l’avvocato. In politica militò al fianco di Greppi, nel “Movimento di Unità socialista” ed in altre formazioni non frontiste per entrare poi nel PSI, senza peraltro avere ruoli significativi.

Muore nel 1974. La città gli ha intestato una strada nella zona dei Navigli.

Walter Marossi



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  1. Eduardo SzegoLa carrellata storica che ci regala Walter Marossi su vari Prefetti che si sono avvicendati a Milano, dal fascismo alla Resistenza fino alla liberazione, è molto interessante. A me da lo spunto per tornare sul tema della attualità, opportunità e utilità di questa funzione, specialmente nei tempi odierni ( e del resto lo stesso Riccardo Lombardi ricordava che " nelle esigenze della Resistenza c'era stata l'abolizione della Prefetture" , e in ciò pare concordasse anche Einaudi). Se infatti nei tempi andati, quando le comunicazioni col Centro del potere, ossia col Governo, erano difficili e certamente non rapide, per cui era forse imprescindibili la presenza sul territorio di un rappresentante del Governo stesso, oggi queste difficoltà non esistono più, le comunicazioni possono avvenire in tempo reale e addirittura in video; ogni Sindaco, Presidente di Regione, ogni Questore, può consultarsi con tutti gli organi di Governo con grande facilità e rapidità. Ma non è solo una questione di rapidità di comunicazione, ma proprio della necessità di un ripensamento sulla essenzialità e utilità dell'Istituzione Prefettizia, che tra l'altro pesa non poco in termini economici e o occupazionali: in totale 103 Prefetti e Prefetture per un costo globale annuo di mezzo miliardo di €, di cui l'80% riconducibile al costo del personale. Sarebbe molto interessante la parola dell'esperto costituzionalista che mettesse in chiaro deleghe e compiti dei Prefetti in epoca attuale, nei confronti e nell'interesse della collettività. E' invece purtroppo nota al singolo cittadino l'inadeguatezza dell'intervento prefettizio laddove è previsto per legge il contatto diretto col Prefetto: si allude ad esempio al ricorso, peraltro assai costoso, per una multa a cui viene sempre risposto con modulo prestampato che regolarmente conferma la giustezza della multa stessa, da cui si evince che il ricorso probabilmente non è stato neppure letto!
    9 dicembre 2020 • 16:51Rispondi
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