2 settembre 2020

I CINQUE ANNI DEL MAMU

E cinque volte cinquant’anni dalla nascita di Beethoven


Il 5 settembre MaMu ha festeggiato il suo 5° compleanno con un concerto il cui programma giocava abilmente con i multipli del numero cinque: era il 5 del mese ed erano 5 gli anni di attività del Magazzino Musica di via Soave, ma erano anche 5 i “cinquantenari” dalla nascita di Beethoven e porta il numero 5 il suo più famoso Concerto per pianoforte e orchestra, l’Imperatore, eseguito per l’occasione. E forse erano 50 anche gli spettatori ben distanziati nella sala grande (10 x 12) di questo spazio che in pochi anni è diventato un cenacolo musicale di tutto rispetto.

viola

Ovviamente in una sala da 120 metri quadri non è pensabile di poter accogliere un’orchestra completa soprattutto rispettando, com’è stato fatto, la normativa anti-Covid. Da qui l’astuta idea di eseguire non l’originale Imperatore di Beethoven ma una trascrizione per pianoforte e orchestra d’archi – di soli archi – che ne fece nel 1881 uno semisconosciuto compositore, pedagogo e direttore d’orchestra tedesco, Vinzenz Lachner, amico di Brahms e di Clara Schumann, attivo a Mannheim, Karlsruhe, Francoforte e per un breve periodo anche a Vienna e Londra.

Devo riconoscere di essere rimasto felicemente colpito nello scoprire che – forse complice la dimensione dell’ambiente – la godibilità del capolavoro che tutti conosciamo a memoria non perdeva moltissimo: è un Beethoven certamente meno possente e “imperiale” – o “imperioso” – ma imprevedibilmente più ricco di morbidezze e di cantabilità, meno assertivo e più suadente. Forse anche perché il giovanissimo e bravissimo pianista e concertatore, Luca Buratto, alle prese con la difficile parte del pianoforte – parte che opportunamente il Lachner non ha modificato – è riuscito a essere sempre in perfetta sintonia con i 15 elementi dell’orchestra (5 primi violini, 4 secondi, 3 viole, 2 violoncelli e 1 contrabbasso, cioè il collaudato gruppo amatoriale da camera del MaMu Ensemble rinforzato, per l’occasione, da quattro prime parti ospiti: Alberto Bramani, Sofia Villanueva, Carlo De Martini ed Eliana Gintoli).

Luca Buratto è la rivelazione di questi anni. Milanese, schivo, appena ventisettenne, diplomato nel nostro Conservatorio, vincitore a soli ventitré anni del prestigiosissimo Honens International Piano Competition di Calgary, in Canada, già pieno di riconoscimenti, di premi e di successi ottenuti in varie parti del mondo, è il nipote di un compositore mantovano, Renzo Massarani, che a causa delle leggi razziali fu costretto a emigrare in Brasile da dove non è più tornato e dove è mancato nel 1975. Quest’anno Buratto è stato invitato dalle maggiori istituzioni musicali milanesi a tenere concerti che sono stati regolarmente cancellati dalla pandemia e che ci si augura possano essere tutti presto riprogrammati.

Per soddisfare le richieste del pubblico, Luca Buratto ha eseguito il concerto, suonando e dirigendo insieme, due volte di seguito e a distanza molto ravvicinata (alle 19 e alle 21) sicché mi è sembrato più che comprensibile che nella seconda sessione, dopo i freschissimi e intensi primi due movimenti, il rondò finale sia apparso in leggero affanno. Non ci si può che complimentare con tutti.

Mi sono occupato di questo concerto non solo perché è stato un bell’evento – e perché non c’è stato molto altro da sentire a Milano in questi primi giorni di settembre (avete provato a conquistare un ingresso alla Messa da Requiem di Chailly in Duomo con l’orchestra scaligera? Un’impresa impossibile!) – ma soprattutto perché è stata una preziosa occasione per toccare con mano come cambiano radicalmente le aspettative dell’ascolto musicale in funzione dell’ambiente e della situazione in cui ci si trova. Lo stesso concerto dell’Imperatore è stato infatti suonato e diretto da Alexander Romanovsky il primo luglio scorso all’Auditorium, con l’orchestra Verdi in numero ridotto, e su questo giornale ne avevo tessuto le lodi.

Lungi da me l’idea di fare paragoni, peraltro impossibili, fra le due esecuzioni, ma è interessante riconoscere che ascoltare la musica in uno spazio piccolo e accogliente, con un bicchiere di vino in mano, con i musicisti abbigliati come in casa propria ma pieni di passione e di entusiasmo, guidati con pochi gesti essenziali distribuiti senza la minima ostentazione, dà una gioia e un piacere non molto dissimili da quelli che proviamo nei tradizionali ascolti cui siamo abituati. Anche un attacco imperfetto, un’entrata imprecisa, uno strumento non ben intonato, trovano un ascoltatore più tollerante, partecipe, coinvolto, e ne abbassano lo spirito critico a beneficio di un godimento più pieno della musica! In fondo è la nota magia della Hausmusik

LA NUOVA STAGIONE DEL QUARTETTO

Per tornare invece a un tempio classico della musica da camera, lunedì 7 mattina la Società del Quartetto ha presentato, nel bel chiostro di via Durini, la nuova stagione 2020-2021. Non bastano poche righe per dire come questa istituzione – che non poche volte abbiamo definito la migliore fra le tante milanesi – grazie al suo imprescindibile direttore artistico Paolo Arcà, sia riuscita a mettere insieme un programma di ottimo livello nonostante gli infiniti bastoni che la pandemia è riuscita a metterle fra le ruote.

Ne parleremo dunque nelle prossime settimane ma cominciamo ad anticipare che nella Sala Verdi del Conservatorio il 6 ottobre vi sarà un prologo in cui verranno presentate nove inedite opere scritte per l’occasione da altrettanti compositori italiani per una serata intitolata “Il canto della rinascita”. Sarà uno di quei concerti che non si possono perdere e che segneranno la storia della musica colta nella nostra città; sarà un evento a ingresso gratuito ma da prenotare per tempo perché – come si sa – i posti saranno ancora in numero ridotto.

Paolo Viola



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  1. eduardo szegoCaro Paolo, con piacere anche questa volta leggo la tua critica musicale su quel poco che ci è stato dato di sentire in era pandemica, e devo dire che in parte mi precedi con un'osservazione sulla quale volevo confrontarmi proprio con te. Mi sembra di capire che anche tu hai avvertito qualcosa di nuovo in questi ultimi concerti che hai recensito, che attribuisci in più di un' occasione all'ambiente piccolo, e/o all'organico ridotto dell'orchestra. Io mi permetto di aggiungere un altro parametro che mi è sembrato nuovo ma determinante, e che mi si è palesato proprio in occasione del Requiem Verdiano in Duomo, luogo che non gode certo di buona acustica. Ebbene si avvertiva da subito questo bel suono in cui si stagliavano nitide tutte le sezioni, coro compreso, ti sentivi come stessi dialogando con interlocutori educati che lasciavano spazio a tutti, anche all'ascoltatore; non massa di suoni agglutinati e spesso indistinguibili, ma suoni individuali che esprimevano appieno la loro individualità ed essenzialità. La sensazione è stata così piacevole che mi ha indotto a chiedermi a cosa potesse essere dovuta. E ho la netta sensazione che si possa ricondurre al "distanziamento" degli elementi dell'orchestra e del coro, sì proprio quel "social distancing" come lo chiama il Comune. E se così fosse, e credo che lo sia davvero, potrebbe essere una sopravvenienza attiva di tutte le norme antipandemiche che ci stanno sommergendo. Al sommesso grido di "si suoni distanziati, orchestre e cori", ti saluto con immancabile cordialità, sperando in un tuo commento al "social distancing" nei concerti. Eduardo Szego
    16 settembre 2020 • 13:57Rispondi
    • Paolo ViolaCaro Eduardo, innanzitutto devo dire che i tuoi garbati e puntuali commenti agli interventi di questa rubrica sono sempre preziosi: allargano ed approfondiscono i temi che di volta in volta tocchiamo, e te ne sono molto grato. In questo tuo ultimo commento, che leggo in ritardo e me ne scuso, apri un interessante dibattito sul problema della "grande orchestra sinfonica", di 100 e più elementi, che - nata nella seconda metà dell'ottocento insieme ai grandi cori che ad essa si accompagnano - spesso cannibalizza il repertorio musicale classico, creato per complessi assai più piccoli. Sono assolutamente d'accordo con te: i professori d'orchestra distanziati, ciascuno con il proprio leggìo, esprimono sicuramente meglio "la loro individualità ed essenzialità" perché godono di una sensibilità più vicina a quella dei solisti e di una responsabilità più accentuata rispetto a quella che si prova quando si è "annegati" nella massa orchestrale . Ma credo anche che, con il distanziamento, il rapporto fra singolo professore e direttore d'orchestra diventi più intimo e diretto, e che questo dovrebbe consentire, a chi ha la bacchetta in mano, di raggiungere migliori risultati per quanto riguarda sia il fraseggio che la qualità del suono. C'è da sperare, come dici tu, che questa esperienza della pandemia serva da lezione e spinga i direttori a "calibrare" con maggiore precisione le dimensioni dell'orchestra in funzione del singolo programma. Vedremo se sarà così ma ne dubito, perché le nostre orchestre sono molto sindacalizzate e poco duttili, e perché i direttori, quasi mai stabili, non hanno né la voglia né tanto meno l'interesse ad intervenire sugli organici delle compagini che li ospitano. Per dare concretezza a queste riflessioni basta pensare ai risultati che ottiene Currentzis con la sua "MusicAeterna": i musicisti tutti in piedi (tranne i violoncelli!) e lui che comunica direttamente con ciascuno di loro girando fra i leggìi....
      25 settembre 2020 • 23:40
  2. Eduardo SzegoGrazie Paolo per i tuoi sempre chiari commenti, e questa volta grazie per aver condiviso una mia ossservazione sul più che positivo esito di esecuzioni dove l'orchestra, e il coro se c'è, sono maggiormente distanziati, come ci è capitato di rilevare nelle più recenti esecuzioni in regime ancora pandemico. A mio parere infatti non è tanto, o solo, la dimensione dell'orchestra ma fondamentale è il distanziamento tra i vari elementi. La percezione più netta dei suoni, dei fraseggi e di quella che ho chiamato "individualità ed essenzialità " dei vari strumenti e voci, penso quindi sia in gran parte, o comunque anche, una questione di acustica e fisica di trasmissione dei suoni. Se è disponibile uno spazio ampio ben vengano orchestre e cori di grandi dimensioni purché opportunamente distanziati, come è stato possibile in Duomo per il Requiem, ma siccome così ampi spazi non sono quasi mai disponibili per mettere in pratica i necessari distanziamenti, unica soluzione sarebbe ridurre le dimensioni delle orchestre, e Currentzis ci dimostra che ciò è possibile' come tu giustamente ricordi. Alla fine di queste considerazioni un dubbio però mi assale, sul quale mi interesserebbe il tuo parere: come mai il grandissimo Mahler, che amo incondizionatamente e che fu anche un grande orchestratore ( si permise anche di apportare correzioni ad uno spartito di una sinfonia di Mozart che poi diresse al Metropolitan di New York!), oltre che sublime compositore e venerato direttore d'orchestra, prediligesse le grandissime orchestre per l'esecuzione delle sue sinfonie, pensiamo all'ottava, eppure non credo disponesse sempre di ampi spazi tali da poter distanziare i singoli orchestrali. Forse perché dal suo podio i suoni si percepiscono tutti nella loro nitidezza prima di arrivare agglutinati all'ascoltatore in sala? per cui lui non avvertiva la necessità di distanziarli all'origine? Ai posteri l'ardua sentenza!! Con i miei più cordiali saluti Eduardo Szego
    3 ottobre 2020 • 18:30Rispondi
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