30 giugno 2020

L’IRRIFORMABILE INADEGUATEZZA DELLA PA

Riflessioni dopo la febbre del "modello Genova"


Perchè la Pubblica Amministrazione italiana gode di una tale, pessima, fama? Come snellire i suoi procedimenti? Una riflessione oltre le chiacchere di semplificazione da Bar Sport.

violaS

Ormai è fatto risaputo. Tutti lo sanno e quelli che possono dirlo hanno smesso di sussurrarlo e lo affermano apertamente: la Pubblica Amministrazione italiana è divenuta irriformabile. La concrezione di abitudini, la moltiplicazione e il consolidamento di centri di potere, l’ipertrofia normativa, l’inesistenza di controlli interni, hanno raggiunto un grado tale da rendere impossibile la riforma della Pubblica Amministrazione – qualcosa come il degrado di Roma, che ha raggiunto un livello tale da renderlo probabilmente irreversibile. Parlare (o meglio blaterare) di “semplificazione e sburocratizzazione” è pura propaganda da Bar Sport perché il “mostro” è troppo complesso e nessuno sa più da che parte aggredirlo. 

Una delle tante teste di questo mostro irriformabile è rappresentata dal tema dei contratti della PA: codice degli appalti e giustizia amministrativa – complici dapprima la tragica vicenda genovese del crollo del Ponte Morandi e poi l’emergenza Covid – sono entrati nell’occhio del ciclone. Esponenti politici, imprenditori e persino illustri accademici invocano la deroga o la sospensione del codice, il “modello Genova” (ma omettono di dire che è, giustamente, finito in Corte Costituzionale), l’abolizione di ANAC1 e persino della tutela giurisdizionale: insomma il “liberi tutti”.

Il dibattito pubblico che contrappone l’efficienza alla legalità e alla tutela dei diritti non solo è disdicevole, ma è disonesto: solo l’1,5 % delle gare bandite è oggetto di impugnazione, e solo una gara su 300 è sospesa dalla Giustizia Amministrativa, che emette le sentenze in soli 6 mesi (probabilmente abbiamo il sistema di giustizia amministrativa settoriale più efficiente d’Europa).

All’origine delle lentezze e delle inefficienze, NON stanno (principalmente o solo) le norme, NON sta il presidio della Giustizia Amministrativa, ma sta principalmente l’inadeguatezza della Pubblica Amministrazione. Occorre incidere sugli apparati amministrativi, sugli uomini e sulle strutture tecniche della PA, oggi carenti in termini di adeguatezza progettuale, gestionale e operativa. Serve una rete organizzata e coordinata di strutture operative qualificate, serve il loro rafforzamento digitale ma, come giustamente scrive il Presidente di ANAC da quattro anni si registra una sorda resistenza delle stesse stazioni appaltanti al processo di riqualificazione”.

Occorre primariamente una cospicua riduzione delle centrali di committenza: oggi le stazioni appaltanti sono 37.000. Inutile soffermarsi sull’ovvia inefficienza e inadeguatezza di un sistema così frammentato. È possibile ridurle a poche centinaia e costituire soggetti molto qualificati, che agiscano nell’interesse di una pluralità di piccole e grandi amministrazioni pubbliche? Sì, naturalmente è astrattamente possibile – ma, probabilmente, concretamente impossibile alla luce dell’odierno assetto politico.

Trattandosi di disciplina eccessivamente complessa di dettaglio, occorrerebbe che il Parlamento delegasse il Governo ad adottare decreti legislativi per la centralizzazione delle centrali di committenza, con la fissazione di principi e criteri direttivi. Il Parlamento potrebbe imporre per esempio l’istituzione di una centrale unica almeno per ogni regione o provincia autonoma e l’individuazione degli ambiti territoriali di riferimento in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza anche al fine di istituire centrali uniche per più regioni.

Dopodiché la norma – quand’anche approvata dal Parlamento – secondo le migliori tradizioni, resterebbe inattuata per mancanza dei decreti attuativi (a proposito, per avere una spiegazione chiara di questo e altri fenomeni, suggerisco l’immediata lettura di “Io sono il potere”, pubblicato anonimo da Feltrinelli).

E allora propongo ad Arcipelago Milano che sa – disponendo delle più elevate competenze – e può – perché libero da vincoli politici di appartenenza: rimbocchiamoci le maniche e scriviamo lo schema di decreto attuativo. Lavoriamo a un progetto serio di riforma delle centrali di committenza sul quale costruire una battaglia politica. 

Insomma facciamo la nostra parte e lasciamo che i blateratori continuino ad affondare l’Italia al Bar Sport.

Simona Viola

Autorità Nazionale Anti-Corruzione



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  1. xavier vigorellinel mio piccolo concordo pienamente. Riporto un esempio di un altro settore pubblico: la scuola. Da anni in migliaia di scuole d'Italia tutti lamentano l'inadeguatezza del collegio docenti. Organo mastodontico in cui più di cento docenti ammassati in un'aula ascoltano troppo spesso chi ha più gusto a tenere banco. E' strutturale. A mio parere non vuol dire che si deve rinunciare a un organo collegiale ma c'è modo di condurlo in modo ben diverso. per esempio obbligando a rendicontare con un riassunto di massimo una cartella che si concentra sui fatti e che rimanda ad altri documenti per chi vuole approfondire. Tante piccole riforme sono possibili, e a ben guardare non sono nemmeno tanto piccole. Si parla di migliaia ore-uomo spese male che a lungo andare demotivano anche i più sensibili.
    1 luglio 2020 • 08:25Rispondi
  2. Andrea VitaliGrazie per aver sollevato il problema, che dovrebbe essere al primo posto in agenda di tutte le forze politiche. E invece non lo è. Come mai? Perché il problema è che la situazione della pubblica amministrazione è esattamente esito di quello che segretamente sogna ogni sistema di potere: ovvero un'amministrazione prona, fungibile, e che poi sia incompetente e inefficiente è l'ultimo dei problemi. È un fatto noto che molte delle norme ingarbugliate e confuse del nostro ordinamento sono state letteralmente dettate da quegli stessi soggetti che si lamentano dei "lacci e lacciuoli" (basta vedere le cosiddette leggi di semplificazione o le recenti norme regionali o comunali: è tutto un'ampliamento della discrezionalità amministrativa, che va tutto a beneficio da una parte dei gestori pubblici del potere, dall'altra di chi pensa di avere abbastanza forza per poter avere influenza su di loro). L'altro tema è quello della selezione della classe dirigente pubblica, che avviene normalmente per cooptazione fra persone mediocri, attente alle dinamiche di potere e non al merito; per cui ai vertici delle amministrazioni troviamo spesso chi "si sa muovere meglio" e non chi è più capace. Infine, il paradosso finale è che spesso è la classe politica (sempre meno capace) a trovarsi ostaggio della burocrazia selezionata in base al suo servilismo: per cui il sistema si propaga, amministrazione dopo amministrazione, senza sostanziale discontinuità. Il caso più emblematico è quello del comune di Milano, dove le politiche urbanistiche sono sostanzialmente le stesse dal Albertini in avanti, prigioniere di dirigenti e funzionari che definire incompetenti è poco. Che ci possiamo fare? Molto poco, temo. Almeno, per ora, renderci conto del problema.
    1 luglio 2020 • 09:38Rispondi
  3. ugo targettiConcordo in generale con l’articolo di Simona Viola che stufa della retorica inconcludente della “semplificazione” propone di affrontare in concreto la questione distinguendone i diversi aspetti del problema. Uno degli aspetti è l’inefficienza della burocrazia come strumento di azione diretta della pubblica amministrazione, per l’attuazione di opere e servizi. Viola individua il nodo principale nella pletora delle stazioni appaltanti (l’articolo ci informa che sono 37.000) e del loro conseguente basso livello professionale. Sostiene, a ragione, che serve una “rete organizzata e coordinata di strutture operative qualificate”. Ci si chiede: la rete auspicata sarebbe dello Stato, come era il Genio civile, o dipenderebbe dalle regioni? Le regioni non hanno avuto storicamente ruoli attuativi e sarebbe bene che non l’assumessero perché il loro ruolo istituzionale dovrebbe essere legiferare e programmare. Una buona soluzione sarebbe affidare il ruolo di centri di committenza per le opere pubbliche e la gestione del territorio attualmente di comuni, consorzi, parchi regionali ecc, alle Province e Città Metropolitane, naturalmente riportate al rango di istituzioni di primo livello, quando avevano una buona capacità tecnica (viabilità, edilizia scolastica, idraulica ecc.). Sarebbero 107 centri di committenza: volendo mettere anche i comuni maggiori con più di 100.000 abitanti si aggiungerebbero altre 45 stazioni appaltanti; si ridurrebbero di diverse migliaia gli attuali 37.000 centri. Probabilmente servirebbe anche un coordinamento centrale dello Stato che garantisca comportamenti omogenei e lo stesso livello di competenze in tutto il Paese. Dalle notizie di stampa, nel prossimo decreto per la semplificazione si affronta le questioni della responsabilità patrimoniale dei funzionari e del reato d’abuso d’ufficio, motivi di gravi ritardi per la resistenza dei funzionari ad assumere responsabilità. E’ giusto tutelare chi lavora nella PA, ma nel contempo bisognerebbe introdurre il rispetto dei tempi programmati per le diverse fasi attuative delle opere pubbliche e dei servizi, come obbligo di legge reale, prevalente su altri vincoli e accompagnato da sanzioni. L’ altro corno del problema è il ruolo della burocrazia come controllore dell’attività dei privati. In questo caso il problema sta in grande misura nell’ ECCESSO DI NORMATIVE statali e regionali. Bisogna che lo Stato, in senso lato, riduca i campi di controllo e riveda le priorità per la tutela dell’interesse pubblico. Questa è la parte di riforma che appare non aggredibile se non modificando il quadro istituzionale, ovvero il ruolo delle Camere e delle regioni e trovando un accordo di lungo termine tra le forze politiche, separato dalle mutevoli maggioranze di governo.
    5 luglio 2020 • 18:59Rispondi
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