8 giugno 2020

IL POTERE (PERDUTO) DELL’INFORMAZIONE

Riflessioni su una stampa e una democrazia deteriorate


“Se in America il giornalismo è il cane da guardia del potere, in Italia è il cane da compagnia. O da riporto”: non ha tutti i torti Marco Travaglio, nel fare questa pungente osservazione. Cosa è successo ai nostri mezzi d’informazione, pre e post virus? L’opinione di Oreste Pivetta.

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Succede che un noto quotidiano milanese intervisti il notissimo professor Burioni, ordinario di virologia e di microbiologia presso l’università Vita Salute San Raffaele, i cui meriti scientifici non sono proprio in grado di valutare. Il professore non annuncia scoperte, terapie o vaccini, ma qualcosa di ben più grosso: “Vado in silenzio stampa. Basta. Da qui all’autunno non parlo più”. Neppure dal gaio Fazio, tra comici e ballerine, pure Fazio in chiusura. Dovrebbero quindi trascorrere quasi quattro mesi prima che si possa risentire Burioni e, quel che più conta, rivedere.

La brava cronista, Roberta Scorranese, la butta là: “Troppa televisione?. Il professore lesto: “Ma io non sono un presenzialista”. A riprova allega le classifiche dell’Agcom: “Nel periodo più buio dal primo marzo al 30 aprile non sono entrato nemmeno nei primi dieci più presenti nel dibattito pubblico”. Il primo in classifica sarebbe Conte, il capo del governo, inseguito dai professori Galli e Pregliasco. Non si nomina la Di Capua dall’America. Ancora l’intervistatrice evoca la lontana (2016) belligeranza in tema di vaccini e ancora coraggiosamente ricorda: “All’inizio lei si confrontò con Red Ronnie e Brigliadori”.

Qui chiudo. Per la risposta e per ulteriori dettagli leggere il Corriere dell’8 giugno. Chiudo perchè mi sembra d’essere giunto leggendo quella riga alla perfetta rappresentazione dell’informazione televisiva in Italia (non so altrove, perdonate): l’illustre scienziato esperto di vaccini alle prese con due illustri inesperti di tutto o quasi tutto (a Red Ronnie va riconosciuta la competenza musicale).

Lo sforzo titanico di spettacolarizzare qualsiasi cosa, anche la più seria, si misura in questi infelici accostamenti, nell’inadeguatezza dei soggetti recitanti, nella moltiplicazione degli esperti, degli opinionisti, dei giornalisti, senza distinzione tra uomini onesti e trombettieri, e in questa bolgia – occorre riconoscerlo – i bistrattati politici sono una minoranza, che in alcuni casi mostra persino competenza. Tutti peraltro sottoposti ai ritmi incalzanti dei conduttori, che in genere tolgono con aggressività la parola anche quando la parola sembra avvicinarsi a qualcosa di saggio, a qualcosa che assomiglia all’informazione. Perchè così vuole la televisione: velocità, mica argomenti.

Devo confessare che in questo periodo di clausura ho molto apprezzato la radio (anche RadioRai), costretta ovviamente dai bilancini politici a dar fiato alle cialtronerie della destra, senza mai un contradditorio, e soggetta al qualunquismo agevolato dall’invenzione del “microfono aperto”, dove chi interviene preferisce i propri motti di spirito alle domande, ma anche in grado di proporre talvolta discorsi di senso compiuto, pacati, senza strilli, senza rovinose liti da cabaret. Capita anche in RadioUno, però, di dover ascoltare verso le cinque del pomeriggio una cretina che ulula azzannando l’ascoltatore e l’interlocutore, secondo i modi che le ha insegnato la peggiore televisione: evidentemente vuol fare carriera.

Tre mesi e mezzo di coronavirus accertato (per ora) ci hanno regalato di tutto un po’ nel campo della libertà di pensiero e di espressione, senza rispetto neppure per i morti. La passerella è stata ininterrotta, un tappeto rosso steso all’infinito per qualsiasi opinione, quando sarebbero stati indispensabili rigore, chiarezza, uniformità nelle valutazioni e verifiche scrupolose. Sapere che fare. In alcuni casi, il “pensiero unico” sarebbe forse utile. Una guida per l’azione, una risposta efficace al “che fare?” quotidiano.

La Costituzione è garante del diritto di ciascuno di pensarla come vuole. Ma i cosiddetti media (giornali, televisioni, radio), avrebbero avuto e avrebbero (credo) la responsabilità di controllare certi pensieri, di valutarne la fondatezza, di non inseguire qualsiasi voce, quasi volessero gareggiare per il premio a chi la spara più grossa, a provocare (nei nostri amatissimi talk show, in particolare) la rissa tra il virologo e l’immunologo, tra l’immunologo e l’epidemiologo, con la pronta intrusione del giornalista, che come è risaputo non ha mai nutrito il minimo interesse per gli argomenti scientifici (e non solo).

Così i nostri media sono riusciti a smantellare l’immagine della scienza, a ridurre sotto zero la propria autorevolezza e a perdere copie (il discorso sarebbe lungo, la crisi nel settore è devastante), a disorientare il pubblico, ad alimentare l’imbecillità dei negazionisti.

Pensare all’effetto di certe dichiarazioni: si va dal suddetto Burioni, che il 2 febbraio dall’amico Fazio rassicurava che il rischio epidemia non esisteva, era zero in virtù delle precauzioni prese, all’ultimo Zangrillo, che chiudeva il cerchio il 31 maggio comunicandoci che “il virus clinicamente non esiste più” (un’amica mi confortava, ricordandomi che Zangrillo “é bravo, è il medico di Berlusconi”), a conferma appunto che si può buttare la mascherina, che niente ci impedisce di intrupparci nel popolo della Darsena, mentre i fascisti a Roma, gridano mano nella mano: “Ridateci la libertà”. Per la comica finale.

La scienza dovrebbe essere una cosa seria. L’informazione, nel suo piccolo, pure, l’informazione che ha il suo bel peso nella crescita della cultura, della conoscenza, delle sensibilità collettive, che sono poi alla base di qualsiasi esercizio di democrazia e di libertà.

Qui casca l’asino perché di cultura se n’è vista poco in giro e di conoscenza pure, tranne quella assai titubante e conflittuale dei professori… A prescindere da queste eccezioni, si è percepito il mutismo degli intellettuali (al di là dei sermoni di Scurati e dei consiglioni di Baricco nei panni di Donna Letizia), rotto dal frastuono delle donne e degli uomini qualunque ma anche dei presunti esperti da blog, laureati chissà dove, per lo più del genere complottista, legittimati dal mezzo (Facebook, Whatsapp, Twitter) a divulgare qualsiasi nefandezza, come ai tempi d’oro nelle “piazze” di Santoro. Infatti si parla di piazze telematiche.

Di fronte a tanta abbondanza di clamori, mi pare che sia mancata la stampa (cartacea e non), nei suoi compiti di proporre, sezionare, ricordare, insegnare insomma, in-formare come aveva sostenuto Gramsci, sottolineando, nelle pagine dedicate al giornalismo dei suoi Quaderni, il compito di “formare”.

Dopo questa prova, dopo la relativa perdita di credibilità, complice un giornalismo che si è prostrato, inchinato per vocazione o per bisogno (ricordate l’appello di Ciampi: tenete la schiena dritta), il sistema dei media probabilmente cambierà e probabilmente sarà più povero il sistema dei media tradizionali, cioè cartacei. I tempi neri del virus si sono sommati ai tempi ben più lunghi e altrettanto neri che si trascinano da decenni, dolorosamente segnati dalla caduta di centralità, dall’aggressione della comunicazione online, dalla fuga dei lettori, dalla chiusura delle testate, dal logoramento della qualità, dalla devastazione delle redazioni.

Sorvoliamo o quasi su episodi recenti. Brutali cambi di direttori, concentrazioni, umiliazione di giornali che pure vanterebbero una storia gloriosa. Il tracollo delle vendite è una costante da oltre un decennio, con perdite nel giro di un anno a doppia cifra. L’accaparramento della pubblicità, indispensabile alla sopravvivenza, annacqua qualsiasi dichiarazione di indipendenza. Formidabile il filmino autoprodotto in cui Urbano Cairo, all’esordio della pandemia, esorta i suoi agenti pubblicitari ad approfittare del momento e li saluta perché deve andare a “chiudere il Corriere”.

Il virus ha offerto il destro agli editori, intanto di tagliare e poi di sperimentare una nuova organizzazione del lavoro, vaticinata almeno trenta o venti anni fa dai teorici dell’innovazione: il cosiddetto smart working è facilissimo da applicare in campo giornalistico e assai gradito agli editori. Il “lavoro a casa” permette di pagare meno, di costruire un giornale grazie all’impegno di collaboratori non assunti, pochi (le “firme”) ben pagati, gli altri a cottimo. Estinzione delle redazioni significa fine di ogni conflittualità interna, ma anche di qualsiasi possibilità di confronto. Trionfo dell’obbedienza.

Non è cosa da poco. Qui non si tratta solo di trattamenti economici, di contratti, di sindacati, ma di democrazia, quella democrazia fondata dalla nostra Costituzione, che non a caso si dedica in poche ma solide parole non solo al diritto di ciascuno di manifestare il proprio pensiero, ma anche alla libertà di stampa. L’informazione dovrebbe rappresentare uno dei pilastri della nostra democrazia. Cade l’informazione (e qui e là è già caduta), cade l’edificio. Si torna da capo, alla ricerca di una via per ripristinare quei valori civili accantonati nelle belle stagioni del capitalismo arrembante e del consumismo ammorbante.

Oreste Pivetta

 

P.S.: Non riesco a trattenermi, anche se ne avrete già letto. Mi segnalano che la nota conduttrice televisiva Caterina Balivo, nel corso della sua trasmissione, ha presentato Irene Pivetti, incriminata per frode, falso, ricettazione, persino violazione dei dazi doganali, come la prima donna presidente della Camera (che fu Nilde Iotti nel 1979, ndr). Questo soltanto a testimonianza della qualità dell’informazione Rai.



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  1. silvanoChe quella frase l'abbia detta Travaglio mi fa scompisciare! Proprio lui, quello che appoggiava il movimento al grido di "fuori i partiti dalla Rai" starebbe, ora, per piazzarci la sua fedelissima Costamagna. E questo dopo aver sistemato Lucia Calvosa alla presidenza Eni. Non ho capito se lui si consideri cane da compagnia, da riporto o da "stai con me che ti sistemo"! Quanto alla presentazione della Pivetti come "la prima donna Presidente della Camera" è un vero e proprio scoop della Balivo! Tocca constatare, purtroppo, che in questo mondo sempre più sossopra l'ignoranza sembra essere ormai un pregio, tanto frequente è lo sfoggio che di essa si fa, da parte di troppi. Mentre il Merito è sempre più "questo sconosciuto"! Siccome i quotidiani, che io sappia, erano acquistati soprattutto da persone di cultura medio/alta, penso che il crollo delle loro vendite sia la conseguenza diretta del loro livello mediocre, sia sul piano culturale che dell'informazione.
    10 giugno 2020 • 18:13Rispondi
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