21 maggio 2020

UN ALIENO IN PADANIA, O DEI SENZA NOME

Tanti sono i campanili quante le autorità che governano il Paese. Troppe


Quando il 17 marzo festeggiamo l’Unità d’Italia e quasi festeggiare un ossimoro. L’Italia è certo uno Stato ma frantumato in mille autorità, mille competenze, mille localismi in molti casi con identiche competenze. Una governance organica? No.

tacconi

Un alieno, forse un cinese, atterra nel bel mezzo della pianura padana in un giorno di sole del 2025. L’aereo sorvola le vene che collegano gli organismi vitali di questo fazzoletto di terra, le sue nuove e vecchie autostrade, i treni ultraveloci. Vede altri aerei incrociare sopra i dieci aeroporti. Avvicinandosi, ecco le fabbriche, l’agricoltura intensiva, campanili e ciminiere, furgoni e autobus. Pensa alla megalopoli dalla quale è partito, e si sente a casa. Case vicino a case vicino a fabbriche, formiche che camminano di qua e di là prese nei propri traffici. Atterra, ed ecco il famigliare odore dello smog. Quello della zona più inquinata in Europa.

Va al bar dell’aeroporto e chiede a un passante: “Come si chiama qui?”. Ma non riceve una risposta. Questo luogo non ha nome. Ne ha mille, diecimila.

Treccani, voce Pianura Padana: “Su una superficie di 41.850 km quadrati, appena un ottavo del territorio nazionale, la Pianura Padano-veneta alberga ben 14.850.000 ab., pari a oltre un quarto della popolazione italiana: la densità demografica (355 ab./km quadrato) risulta quasi doppia rispetto alla media nazionale. Con spicco ancora più netto emerge la sua importanza nel campo delle attività economiche: il 33% degli addetti al terziario e il 40% degli addetti all’industria operano in questo ambito territoriale”.

Quello che la Treccani non ci dice è quale complicatissimo intreccio di istituzioni regoli questo organismo indubbiamente unico e unito, tenuto insieme dall’economia e dai suoi attori anche più – marxianamente – che dalla cultura o delle tradizioni comuni.

Ci sono 7 città sopra i 200mila abitanti con i loro sindaci e consigli, almeno 4 Regioni, se le vogliamo ricordare decine di Province, 2.500 Comuni solo tra Lombardia e Piemonte. Ci sono associazioni territoriali, pro-loco, gruppi imprenditoriali, gruppi di interesse. Si pesca, si coltiva il grano e il riso, si produce l’acciaio e si fa funzionare una Borsa. La gente si muove: un milione di pendolari solo nella zona lombarda, ogni giorno. Ci si organizza, o almeno ci si prova.

Noi siamo oggi l’alieno cinese: perplessi nel cercare di capire come dobbiamo chiamare questo posto dove stiamo. Siamo tutti abitanti di una Milano, o Nembro, Trecate, Zero Branco, Biella, Tortona, Medicina. Ne conosciamo le locande, il dialetto, il suono delle campane. Viviamo, crediamo di vivere, in questa o quella bolla micro territoriale, più o meno appartenenti a quella comunità.

Ma tutto quello che sta accadendo intorno a noi, a partire – ma è davvero solo un esempio tra tanti – dal Covid-19 ci costringe a renderci conto di un destino comune. I tifosi bergamaschi vanno a San Siro, una squadra di basket milanese a Pesaro. Portano il virus, non lo sanno. Tornano a casa, qualcuno sta male, va in un ospedale pensato, collocato, gestito per servire quel campanile, quella mini-comunità. Quella valle non si può chiudere, chissà perché. Chi deve deciderlo? Quale delle 14 autorità? Chi tiene insieme e connette il paese da 400 anime con 10 casi di Covid-19 con la città vicina da 1.3 milioni?

Il Covid-19, si dice, ha dimezzato l’inquinamento della Pianura Padana, ma non ne siamo neppure ben sicuri. Si sente, l’aria è più leggera, la notte anche in città si tiene – mai fatto – la finestra aperta. Si discute, beh ora come facciamo a non ripartire con i gas, con l’inquinamento record? Domanda giusta e mal posta.

Dovremmo invece chiederci chi, chi ne è responsabile. L’agente di commercio col SUV? L’artigiano col vecchio Transit Euro 0? Quelle fabbriche spalmate in un’unica teoria sulla A4 tra Brescia e Torino, e nei cento fondovalle? Chi?

Noi. Siamo noi tutti responsabili, quindi nessuno. Perché, e questo ce lo suggerisce il nostro alieno, con stupore, nessuno comanda qui, non c’è “governance”. Non c’è un piano unico sull’uso delle ormai scarse risorse naturali, aria compresa, e lo Stato è lontano, da qualche parte al Sud, e ha tanti problemi, l’Italia è lunga. E così un virus forse cinese si diffonde a macchia d’olio, viaggia su quei SUV e su quei camioncini, che tanto velocemente attraversano quella pianura quanto lentamente viaggiano le decisioni, presi tutti come siamo – anche chi è in buona fede, e sono molti, probabilmente i più – in comitati, tavoli, coordinamenti e teleconferenze territoriali.

Forse è tempo di pensare che questa “cosa” debba avere un nome e un piano. Se ci teniamo davvero alle nostre diversità, alle trote del Ticino egli asparagi di Treviso, alle auto rosse di Modena e alle sfilate di Milano, ai SUV e alle fabbriche, dobbiamo ragionare insieme e accettare che questa cosa è, semplicemente, una megalopoli senza storia e senza progetto, involontaria. E come tale, proiettata in un futuro tutto da scegliere.

Covid-19 e PM10 ce lo stanno dicendo forte e chiaro: nessuno si salva dalla realtà economica e materiale, e a volte anzi, ci si muore. Anche solo pensare alla nostra città, Milano, come una realtà globale è uno sbaglio di prospettiva, come i bevitori di aperitivo sui Navigli. Un buon punto di partenza certo – la 231esima città più popolata al mondo, più o meno come Guarulhos (Brasile) e Rajkot (India). Mai sentite? Probabilmente gli abitanti di queste due metropoli pensano lo stesso di noi. Fidiamoci allora del nostro marziano, diamoci un nome, una governance unica e un futuro. Ne usciremo tutti più forti, e forse perderemo questi bei primati – zona più inquinata, maggior numero di morti da Covid-19 – o non ne aggiungeremo di nuovi. Chiamiamoci una volta per tutte quello che siamo, diamo un nome a questa nostra Shanghai, a questa nostra New York, Karachi o Tokyo.

Ci manca un nome, per ripartire. E no, non è Padania.

Paolo Tacconi



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