18 maggio 2020

DEBITI VERSUS CRESCITA. CHE FARE?

Finita la quarantena il Paese vuole ripartire, ma non ha ancora deciso come


Risolta – o meglio, rallentata – la crisi sanitaria, la ripresa economica è al centro del dibattito politico italiano: come faremo a ripartire? Com’è d’uso, subito ci si è schierati: bisogna spendere; non bisogna spendere; bisogna ridurre le tasse; no, aumentare i sussidi; no, tutti e due. Una risposta mista potrebbe essere l’unica via d’uscita.

pontipiccone

1. Bisogna crescere. Se uno è pieno di debiti fino al collo, come noi, non può permettersi di parlare di “radicale cambio di modello di sviluppo”, “decrescita felice”, o simili amenità. Non perché non possano essere fascinose, ma perché i nostri creditori, italiani ed esteri, ci manderebbero in default, cioè non ci presterebbero più un Euro. L’Europa può solo rafforzare la nostra (debole) credibilità con garanzie sul debito; cosa importantissima, ma questo è. Aspettarci che ci regali soldi a palate è illusorio, visto come li abbiamo spesi male negli ultimi vent’anni. Il rifiuto ideologico del MES (Fondo Salvastati) sembra indifendibile: è un prestito a tasso vicino allo zero per ammodernare la nostra sanità (il Sud Italia quanto ne avrebbe bisogno!). Certo è meglio che non rimaniamo i soli ad usarlo, per non dare segnali negativi ai mercati.

2. Ma siamo stati virtuosi! I sovranisti (e i turbokeynesiani che li supportano) obiettano che nonostante che nello scorso ventennio abbiamo ridotto il debito al netto degli interessi (vero), questo non ha migliorato la situazione, perché non siamo cresciuti, cioè il rapporto debito-PIL non è migliorato. Ne deducono che dovevamo spendere di più, non di meno (che spendere di più porti voti è solo un dettaglio…). E si scagliano contro l’austerità – che non c’è mai stata, visto che la spesa corrente è sempre cresciuta negli anni – voluta dai tedeschi “cattivi”.

Ma questo è insostenibile: spendere di più, se uno è molto indebitato, di sicuro a breve termine aumenta il debito. Per come abbiamo mal speso i soldi pubblici negli ultimi 50 anni, è improbabile che più spesa pubblica porti maggiore sviluppo. Il problema dell’Italia è la bassa produttività, che nel lungo termine non è tutto, ma è quasi tutto (cfr Paul Krugman). Per far crescere la produttività, bisogna che le imprese escano dal “nanismo” e che la Pubblica Amministrazione si digitalizzi. Vaste programme, direbbe il generale De Gaulle, ma ci sono ottimi esempi. Replicabili su base nazionale.

3. Le alternative sul tavolo. Per decidere, intanto bisogna capire se prevarrà nel breve termine una crisi di domanda o di offerta. Purtroppo oggi ci sono contemporaneamente tutte e due: le famiglie comprano meno (si pensi alle automobili e al turismo) e le imprese, escluse alcune – web, sanità e shopping online -, sono in crisi e rischiano di fallire. Il governo nell’emergenza deve intervenire su entrambi i fronti (“tenere a galla tutte le barche”), e nell’immediato è inevitabile che questo sconti una logica assistenziale.

È noto però che in Italia le misure di aiuto, una volta concesse, non vengano mai più tolte. Allora i sussidi, come ci insegna Pietro Ichino, andrebbero sempre usati con forti condizionalità, altrimenti l’incentivo diventa un veleno, che danneggia anche i lavoratori, i quali più stanno fuori dal mercato del lavoro, più è difficile che possano rientrarvi.

4. Più soldi alle imprese o alle famiglie? Iniziamo dalle imprese. Si può dargli direttamente soldi in due modi: riducendo le tasse o con prestiti agevolati (o addirittura trasferimenti a fondo perduto). La cura è diretta e semplice, ma ci sono due seri problemi: se le aspettative sono negative, ci sarà una forte spinta a non investire e magari a portare i soldi altrove – comportamento razionale e spesso anche legale; ci sarebbero inoltre aspetti distributivi gravi, nell’elargire soldi dei contribuenti ad una categoria ad alto reddito che li porta all’estero o li tesaurizza. Le imprese che investono poi potrebbero farlo in automazione (questo sarebbe addirittura un comportamento virtuoso). Ma in una crisi occupazionale le conseguenze non sono allegre.

Tra i due modi poi sembra nettamente meglio la riduzione delle tasse: gli evasori/elusori non sarebbero premiati, e questo è importante per gli aspetti distributivi sopra citati, dato il livello di evasione italiano. Purtroppo in Italia ridurre le imposte e le tasse non piace. La politica vuole gestire il consenso con maggiore spesa pubblica. Gli studi empirici di Alesina, Giavazzi e Favero dimostrano che la riduzione del carico fiscale è tra i modi più efficaci di supportare l’economia.

Il secondo modo di dare i soldi alle imprese è indiretto, e diventa indispensabile se le imprese con incentivi diretti non investono per le ragioni viste sopra: lo Stato diventa imprenditore lui, e promuove grandi strategie nazionali di investimenti pubblici, del tipo di quelli di Roosevelt dopo la crisi del ’29, il noto “New Deal” (si ricorda che quella crisi vide un calo dell’occupazione USA del 25% e del PIL di quasi il 50%).

È la visione della consulente di Conte, la prof.ssa Mariana Mazzucato: lo Stato deve promuovere un “Green New Deal”, e lei ha in mente come esempio il progetto Apollo che, anche se non “green”, ha avuto importanti ricadute industriali (e militari, ma su questo sorvola). Peccato che noi in quegli stessi anni abbiamo speso quasi gli stessi soldi per sussidiare le ferrovie, soprattutto le linee a scarso traffico. Dunque non sempre lo Stato è capace di spendere bene, in Italia predilige i “mille rivoli” di spese assistenziali, per comprar voti accontentando tutti e salvare aziende decotte di cui Alitalia e ILVA sono discreti esempi.

Infine c’è l’ingresso diretto nell’azionariato delle imprese attraverso Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), a cui verrà data una somma mostruosa: 50 miliardi! Strada pericolosissima perchè: a) i soldi della Cdp provengono dai depositanti postali, da tutelare in modo assoluto; b) distorce inevitabilmente la concorrenza, e chi è in grado di togliere i finanziamenti a quelle aziende non in grado di riprendersi in modo sostenibile? Torniamo all’IRI generalizzato e al clientelismo perpetuo.

Per il sostegno alle famiglie (noto anche come “helicopter money”), avrebbe senso farlo con i dati del reddito e della ricchezza delle famiglie. Come più volte sottolineato da Tito Boeri, il nostro welfare non è in grado di aiutare chi veramente ha bisogno. Peraltro già oggi assistiamo a un grave squilibrio tra la protezione dei dipendenti pubblici (perché a coloro che sono rimasti a casa non si è ridotto temporaneamente lo stipendio almeno al livello della cassa integrazione?) e quella dei privati, sia dipendenti (che rischiano il lavoro), che a reddito variabile (professionisti, commercianti, artigiani e partite iva).

Ma alla flessibilità degli strumenti, e alla loro diversificazione, occorre guardare con favore in un periodo di oggettiva, grave incertezza sul futuro, e così occorre smetterla di aspettarsi miracoli dall’esterno. Flessibilità sia nella destinazione (famiglie-imprese), che nel modello di supporto a queste ultime (diretto o indiretto). Certamente la forma indiretta (piano di investimenti pubblici) dovrebbe massimizzare sia il contenuto tecnologico che la redditività finanziaria (sia pur parziale, altrimenti ci penserebbe il mercato) che l’occupazione (per ridurre i trasferimenti alle famiglie).

Tre caratteristiche difficili, ma non impossibili da ottemperare (anche valenze ambientali sarebbero auspicabili, anche se non indispensabili). Vengono in mente tre ambiti possibili: a) la creazione di una rete capillare per l’alimentazione elettrica per i veicoli stradali (i veicoli elettrici a basso prezzo “soffriranno” sempre di problemi di autonomia); b) la ristrutturazione degli edifici con risparmi energetici (l’ecobonus su cui il governo si è già mosso); e infine c) la manutenzione del territorio. Tutti e tre hanno valenze occupazionali ed ambientali, i primi due sia contenuti tecnologici che possibili ritorni finanziari, mentre l’ultimo manca purtroppo di entrambi.

5. Una certezza. In questo quadro così incerto, emerge tuttavia una solida certezza: occorre bloccare lo sciagurato piano di grandi opere infrastrutturali sul tavolo, soprattutto ferroviarie, da 70 (o 100) miliardi che il governo ha in mente, con il plauso di Confindustria e dell’opposizione. In modo obbrobrioso si pensa – per evitare “lacci e lacciuoli” – di ricorrere al “modello Genova”, cioè senza gare. Tutto tra amici, tutti ovviamente italiani. Qui le caratteristiche che avevamo citato mancano davvero tutte: poca occupazione per euro speso, nessun contenuto tecnologico, nessun ritorno finanziario (domanda in sicuro calo), danni ambientali, e in più tempi lunghi. Ma, come si è detto: tanti, tanti “amici” contenti.

Beniamino Piccone e Marco Ponti



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  1. Cesare MocchiGrazie per l'accenno al cosiddetto"modello Genova" che risponde bene all'intervento di Franco D'Alfonso sul tema
    20 maggio 2020 • 08:20Rispondi
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