14 marzo 2020

SE DOPO NON CAMBIERÀ NIENTE

Avremo vinto il Covid-19 e ci saremo persi noi


PER COMINCIARE: Dalle pagine dei giornali alle pagine social, una gran fetta di italiani pare convinta che il Covid-19 ci mostrerà finalmente il nostro modo di vivere per quello che è, un egoistico e consumistico delirio di onnipotenza, inducendoci a cambiarlo. E che a questo cambiamento sociale si accompagnerà inevitabilmente quello politico. E se non fosse così? D’altra parte, di apocalissi in TV e nei libri ne abbiamo viste tante, e non pare abbiano smosso gli animi. Staremo a vedere.

Pivetta

Più che la storia, l’epidemia, con i suoi dati di quotidianità e di universalità, può essere maestra di vita. In realtà ci sarebbero bastate la fantastoria o la fantascienza, senza doversi di nuovo mettere alla prova, come se le prove che l’umanità ha già dovuto superare non fossero state sufficienti. Ne abbiamo dovute affrontare tante in poco più di un secolo, guerre, spagnola, asiatica, aids, ebola..

Il cinema americano, i capolavori ma anche la serie b, ci ha mostrato tutto, il giorno prima e il giorno dopo. Non solo campi di battaglia. Eruzioni, terremoti, improvvise ere glaciali provocate dall’inquinamento, i grattacieli di New York che s’azzerano sotto la coltre di neve, il mare che sommerge ogni lembo di terra, vermiciattoli che spuntano dalla sabbia del deserto e aggrediscono gli esseri umani, bacelli ultraterrestri che assumono le sembianze degli abitanti di Santa Mira e naturalmente i virus, qualcosa di impalpabile e di misterioso e di invincibile (talvolta si scopre che sono il prodotto delle fantasiose e mortali tecnologie militari). Persino perfetti cervelli elettronici che prendono coscienza dei propri poteri e costringono nell’angolo i loro utilizzatori. Il day after sugli schermi è un brutale ritorno al passato, tra i simulacri superstiti della modernità.

Il nostro day after, quando avremo concluso la conta dei morti e il mostriciattolo che ci ha invaso sarà annientato o si sarà autoannientato (spero nelle catastrofiche, per lui, conseguenze di un delirio di onnipotenza), non sarà probabilmente un cammino a ritroso nella nostra preistoria. Ritroveremo il mondo così come lo abbiamo lasciato, solo più povero se il tempo del contagio sarà più lungo di quel “vuoto d’aria”, che auspica la grande finanza, mentre le più solide illusioni potrebbero andare in frantumi: lo sviluppo a tempo indeterminato, i consumi unico orizzonte, la libertà come indifferenza alle regole e all’altrui esistenza… Potrebbe correre grossi rischi quell’ideologia da ipermercato che ha orientato negli ultimi decenni i nostri comportamenti (ricordate la Cultura del narcisismo, di Christopher Lasch).

Non so quali saranno nel frattempo i sentimenti degli italiani di fronte ai nuovi numeri dei contagiati e delle vittime, di fronte a una macchia rossa che da nord s’allunga spaventosa verso il centro e verso il sud. Credo che nessun sondaggio potrebbe rappresentarne la varietà, al di là delle apparenze e della occasionalità. Ad esempio quando si canta in un coro immaginario dal balcone di casa “Fratelli d’Italia” si può esprimere orgoglio patriottico, una cultura identitaria, uno spirito comunitario e quindi solidaristico, la fiducia nei confronti di quanti, politici o scienziati, sono costretti a guidarci in questo difficile momento e la volontà convinta a seguirne le prescrizioni, il ringraziamento ai medici e agli infermieri che si battono in prima fila, un incoraggiamento agli eroi che siamo stati costretti a riscoprire…

Così quel canto corale disegnerebbe quel senso dello stato, delle istituzioni, del bene comune, che vorremmo ritrovare a partita vittoriosamente conclusa.

Ma l’invisibile mostriciattolo sta agitando altri dubbi, altre incertezze, dubbi e incertezze ai quali non si dovrebbero sottrarre gli italiani che cantano l’inno, al pari di tutti gli inquilini di questo mondo.

Intanto il coronavirus, in maniera più subdola di un terremoto o di un’alluvione o dello scioglimento del polo, ci sta dimostrando che siamo i più deboli sulla terra. Gli animali non ne sono colpiti, l’erba rispunta, i germogli (alle nostre latitudini) continuano a maturare sui rami. La natura, erba e piante di ogni genere, ha una capacità e una rapidità di rigenerazione che noi certo non possediamo. Copriamo pure di cemento: un filo d’edera prima o poi si inerpicherà e sbriciolerà quella materia che pare durissima. La natura ci insegna la misura. Il coronavirus ci mostra i nostri limiti.

La tecnologia forse, ma non è scritto, ci aiuterà a superare questa crisi, ma il mito della tecnologia, bene assoluto, che sottrae l’umanità alle paure, alla povertà, alla fame, che assicurerà un futuro radioso, che può rendere più ricchi i ricchi e un po’ meno poveri i poveri, sta rovinando.

Un altro mito mi pare si stia sgretolando: quello della globalizzazione (soprattutto la sua banalizzazione, che la riduce a un traffico incontrollabile, guidato solo dalla speculazione), intesa magari come viatico ad una universale occasione di crescita. La globalizzazione, che certo ha consentito dinamiche economiche sottraendo paesi interi alla povertà, non ha costruito giustizia sociale e piuttosto ha generato nuove occasioni di squilibrio. Il meccanismo, che nei decenni s’è ancorato tra un continente e l’altro, si dimostra debolissimo: basta un virus ad incepparlo. L’Italia non sa produrre mascherine sanitarie, dopo aver progettato le macchine che in Cina ne hanno cucite a milioni. Il mondo globalizzato lascerebbe pensare alla cooperazione (mi è pure tornato in mente un vocabolo desueto: programmazione), ma invece prospera il conflitto (qualche volta armato).

Per noi e vicino a noi s’è riproposto alle prese con questa crisi il ruolo dell’Europa: almeno l’Unione avrà una possibilità di riscatto.

Un altro ordine il coronavirus mette in crisi. Molti si sono posti in questi giorni la domanda se affrontare un’emergenza di questo genere sia compatibile con la democrazia occidentale (naturalmente il solito sgraziato capetto ha invocato l’ “uomo forte”). Molti si sono dati una risposta indicando il modello cinese (che ha alle spalle ben altra storia e ben altra tradizione politica e soprattutto religiosa): isolata una città di sette milioni di abitanti, totale rispetto degli ordini, pesante repressione di ogni dissenso, organizzazione “militare” del soccorso. La domanda è corretta? Di quale democrazia si parla? Di una democrazia come quella italiana indebolita di fronte a qualsiasi emergenza (non solo l’epidemia) dalla “crisi” o dalla inconsistenza dei partiti, dalla loro frammentarietà, dalla distanza progressiva dalla politica di troppi cittadini italiani più che dagli obblighi dettati dalla complessità del suo esercizio.

Mi pare piuttosto che dall’esperienza d’oggi ci si debba interrogare sui margini della libertà individuale e sulla liceità della disobbedienza. Si può disobbedire? Certo si può disobbedire (anche se infrangere regole, per quanto le si consideri ingiuste, dovrebbe avere un prezzo, come insegnava Thoreau). Ma alla possibilità di disobbedire in circostanze estreme dovrebbe contrapporsi l’utilità di un patto di convenienza. Conviene disobbedire, quando si sa che sottrarsi all’obbligo della quarantena, può provocare altro contagio, altra malattia, altri danni? Non potrebbe valere un principio vagamente utilitaristico in base al quale la salute che il mio sacrificio garantisce agli altri si ritroverà nella salute mia? La tua vita è, alla fine, la mia vita.

Che cosa avrà insegnato la crisi? A ridisegnare la globalizzazione, a riconsiderare senza enfasi lo scopo della tecnologia, a immaginare se non una democrazia planetaria almeno una buona collaborazione tra le grandi entità geografiche e politiche. Avrà insegnato qualcosa a Trump o a Boris Johnson?

Che cosa avranno imparato gli italiani? Ad esempio a pagare le tasse, non solo per un astratto senso civico ma perché sono indispensabili a finanziare la sanità pubblica, autentico presidio della salute di tutti, dopo tanti tagli e dopo tanti favori resi ai privati (mi sono compiaciuto del pentimento del presidente della giunta regionale lombarda, che ha esaltato il ruolo del servizio pubblico, dopo che per decenni la sua parte politica ha contribuito al suo smantellamento).

Avranno imparato a riconoscere i propri doveri (dovremmo tornare a Mazzini), a rispettare le leggi, indispensabili al buon funzionamento della società, avranno imparato a sentirsi comunità e quindi a condividere il valore della solidarietà… Avranno magari imparato a rispettare i medici, dopo aver aggredito quelli di qualche pronto soccorso inviperiti per non essere stati “serviti” per primi. Avranno pure imparato a sostenere l’insegnamento scolastico, a pretendere non le promozioni facili ma il massimo del rigore e della qualità. Anche questo serve alla salute.

Azzardo a dire che avranno imparato a valutare il loro tempo, adesso che ne hanno tanto di libero, e quanto poco conti la loro frenesia da shopping, da divertimento compulsivo, da movida… I giovani soprattutto: perché sprecare le proprie ore ad alimentare una giostra di futili consumi, materiali e immateriali, tanto vistosa quanto impotente di fronte a un microscopico esserino?

Si potrebbe cambiare il mondo. Questo paese cambiò molto, dopo il fascismo, le stragi, le deportazioni. In quegli anni la ritrovata libertà, la nuova democrazia, la fine della paura impressero uno straordinario slancio al cambiamento. La cultura offrì il meglio… Poi molto si perse.

Oggi è tutto più difficile, causa interdipendenza dei fenomeni. Non solo per colpa degli italiani. Ma anche per colpa degli italiani. Temo che tutto ricominci come prima, perché si possono aggiustare i conti pubblici, riavviare le fabbriche, persino dimenticare i morti, ma cambiare la mentalità è altra cosa.

Gli sciatori della domenica in tempo di coronavirus suonano un campanello d’allarme.

Oreste Pivetta

P.s. Al di là del cinema, ci sarebbe moltissimo da scrivere di letteratura. Mi limito a consigliare la lettura di “Condominio” di Ballard. Giusto per prepararci al peggio, ora che ci sentiamo reclusi in casa.



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