5 febbraio 2020

PIANOFORTE CHE PASSIONE

De Maria a Villa Necchi Campiglio e una domenica mattina con Vanessa Wagner


Pietro De Maria è un veneziano, Accademico di Santa Cecilia, insegna al Mozarteum di Salisburgo e alla “Scuola Maria Tipo” di Pinerolo: suona in tutto il mondo e tuttavia a Milano non è propriamente di casa nonostante abbia vinto, nel 1990 a soli 23 anni, il primo premio al Concorso internazionale Dino Ciani al Teatro alla Scala.

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Sabato scorso al tennis di Villa Necchi Campiglio, nella terza giornata del ciclo integrale delle Sonate per pianoforte di Beethoven, De Maria ha preso il testimone e – nonostante i problemi di acustica e di ambientazione dei quali abbiamo scritto nella rubrica di quindici giorni fa – ha offerto una impagabile lezione di come si suona quello straordinario strumento, senza smania di protagonismo ma con una raffinatezza, una sobrietà ed una capacità di approfondimento del testo che ogni tanto – prede costanti, come siamo, di virtuosismi e di tecnicalità ossessive – ci dimentichiamo.

Molto elegante in una larga camicia color ruggine su pantaloni rigorosamente neri, un ciuffo da ragazzino nonostante abbia superato la cinquantina, De Maria ha eseguito 5 Sonate: l’opera 2 numero 2 in la maggiore, l’opera 14 numero 2 in sol maggiore, l’opera 31 numero 1 in sol maggiore, l’opera 78 in fa diesis maggiore “À Thérèse”, concludendo con la celeberrima opera 81a in mi bemolle maggiore denominata “Les Adieux” contro il parere dell’Autore che l’aveva battezzata in tedesco “Lebewohl”. Una carrellata su tutta la prima parte della vita di Beethoven se si pensa che l’opera 2 è stata impostata nel 1793, quando aveva appena 23 anni, e l’opera 78 nel 1809 quando già ne aveva 39 ed aveva già scritto i tre Quartetti “Razumowsky”, la Quinta e la Sesta Sinfonia, il Fidelio e il Quinto Concerto per pianoforte e orchestra “L’Imperatore”.

De Maria è un pianista che vivaddio non “corre” e non “pesta”, che dà a ciascuna Sonata il proprio specifico carattere, narrando la storia ch’essa sottende senza perderne il filo e senza confonderla con le altre, evitando ogni tipo di omologazione in nome di un supposto e malinteso beethovenismo. Esiste in realtà – ma è tutt’altra cosa – una sorta di “pianismo beethoveniano” che si manifesta nella … “consistenza sinfonica” delle sue opere per pianoforte; nelle trentadue Sonate, a differenza di quanto accade in Mozart, è facile percepire le voci degli strumenti dell’orchestra evocati dall’autore, e la stessa architettura della Sonata si avvicina, talvolta sensibilmente, alla struttura della Sinfonia. E il De Maria ha espresso tutto ciò con grande chiarezza e lucidità, senza mortificare il carattere proprio dello strumento.

Questa esecuzione a sei mani dell’integrale si sta rivelando molto interessante: Lucchesini, Carcano e De Maria che si alternano a Villa Necchi da un sabato all’altro, rappresentano tre anime diverse di Beethoven, tutte legittime e una più affascinante dell’altra. Lucchesini lo avremo ancora il 22 febbraio, Carcano il 29 febbraio e il 21 marzo, De Maria il 4 aprile con la monumentale ultima Sonata opera 111. Ad essi si aggiungerà Filippo Gorini, il 14 marzo, con le 33 Variazioni su un valzer di Diabelli. Una grande occasione per fare il punto sull’interpretazione di uno dei “corpi” più significativi di tutti i tempi della musica per pianoforte.

 

Un’altra occasione di penetrare nei segreti della musica per pianoforte ci è stata offerta domenica mattina al Teatro Franco Parenti dove è da poco iniziato un ciclo – sempre a cura della Società del Quartetto – dal titolo molto significativo: “Pianisti di altri mondi, dal jazz alle sonorità contemporanee”. Domenica era il turno di Vanessa Wagner, una pianista francese poco nota in Italia ma notissima nel suo paese e nelle Americhe, molto amante della sperimentazione e della contemporaneità, di contaminazione dei generi e di musica elettronica. In questa occasione ha però affrontato un repertorio che – benché poco usuale nelle nostre sale da concerto – aveva assai poco di sperimentale e nulla di elettronico. Era piuttosto una “Suite”, della durata di un’ora e mezza, che io avrei chiamato “Reminiscenze” o “Nostalgie” per le sottili allusioni e le impalpabili evocazioni di altre epoche, composta dalla stessa Wagner mettendo in fila una dozzina di brani di contemporanei per lo più americani, principalmente del filone minimalista. Si sentivano nell’aria echi di Beethoven, di Schubert, Chopin, Liszt ma nulla di preciso o di evidente; tutto era immerso in un’atmosfera vagamente onirica e volutamente ipnotica grazie alla profusione di bassi ostinati e di grumi di note ripetute ed amplificate dal generoso uso del pedale di risonanza.

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Detto così potrebbe apparire come qualcosa di noioso o di stucchevole, ma la grazia della Wagner, il suo suadente fraseggio ed il suo calibratissimo suono, non hanno dato spazio alla noia; anche se nessuno dei pezzi eseguiti poteva essere riconosciuto come un capolavoro, il loro insieme si è lasciato ascoltare gradevolmente entrando in sintonia con il pubblico.
Sentire due concerti tanto diversi tra loro a distanza così ravvicinata, e ancor più seguire sia il ciclo beethoveniano del sabato pomeriggio che questo ciclo di musica alternativa alla domenica mattina, è una esperienza ricca di suggestioni e di emozioni. Soprattutto consente di allargare lo sguardo sulla duttilità e sulle infinite espressività di quello straordinario strumento che è il pianoforte. Provare per credere.

Paolo Viola



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