19 gennaio 2020

GENTRIFICATION A MILANO

Quando una città perde la sua anima


Ho incominciato ad interessarmi al fenomeno della gentrificazione (termine mutuato dall’inglese “gentrification”, da “gentry”, in passato “nobiltà rurale”, oggi più semplicemente “borghesia”) nel 2013. Il quotidiano inglese Guardian dedicava un articolo ad una delle conseguenze della cosiddetta “bedroom tax” – letteralmente tassa sulla camera da letto – un’imposta contenuta nella riforma fiscale votata dall’allora governo inglese di coalizione a guida del partito conservatore del neo-eletto David Cameron.

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In pratica si stava assistendo all’abbandono di numerosi immobili in vaste aree cittadine da parte delle famiglie storicamente residenti, appartenenti sia alle classi operaie sia alla classe media, costrette a trovare soluzioni abitative più piccole nelle periferie perché non più in grado di sostenere il costo della vita nei loro quartieri di origine (diciamo pure “strangolati” dalla nuova tassa su ogni camera da letto lasciata vuota dai figli ormai adulti e fuori casa).

Visto l’aumento di offerta delle case in vendita, le agenzie immobiliari acquisivano così le proprietà ai prezzi minimi per poi rivenderle (carissime, considerata la richiesta sempre crescente) alla nuova borghesia abbiente. Nel frattempo l’aumento della richiesta di alloggi di metrature ridotte nelle zone via via sempre più periferiche da parte dei vecchi proprietari causava un incremento dei prezzi degli immobili anche ai confini delle città.

Questo fenomeno è da tempo in atto in tutto il mondo occidentale, incluse le maggiori città in Italia: a Milano (si pensi alla zona Garibaldi/Brera, ai Navigli o, più recentemente, al quartiere Isola), a Roma (Testaccio, Pigneto, San Lorenzo), a Firenze (San Frediano)… I quartieri storici e popolari subiscono una trasformazione che cambia sia l’aspetto delle vie, sia il tessuto sociale che li compongono.

All’uniformità dell’estetica si accompagna un’uniformità economica: con la scomparsa dei piccoli negozi ‘di prossimità’ (latterie, panetterie, macellerie, mercerie ecc.) si assiste alla nascita di lounge-bar, gelaterie e birrerie artigianali, ristorantini off, botteghe artigiane (poche quelle vere), negozi vintage, che offrono prodotti a prezzi – ovviamente – omologati. Spesso in mezzo a questo universo di piccole attività campeggia il logo di una grande catena, quasi un imprimatur sulla qualità-appetibilità della zona.

E’ chiaro come, fin qui, il tono che ho usato non sia propriamente celebrativo del fenomeno della gentrificazione di Milano; questo perché ritengo sia importante comprendere che la posta in gioco è alta. Molto alta.

A Milano la gentrificazione, ovvero la selezione dei residenti, non avviene in seguito ad una tassa, come nell’Inghilterra di Cameron, bensì per la sopraggiunta impossibilità da parte di una larga fascia dei suoi cittadini di sostenere il costo derivante dal nuovo privilegio di vivere nella città in cui sono nati, una città divenuta troppo cara ed esclusiva, nel senso letterale del termine. Come è stato detto, gli effetti della gentrificazione colpiscono i cittadini meno abbienti tra i quali, non dimentichiamolo, ci sono molti giovani.

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Le scelte politiche delle più recenti Amministrazioni della città ci hanno portato qui. Quella cui si fa riferimento come modello Milano, la prima città metropolitana italiana ad essere smart, fashion e green, quella in cui tutto il mondo farebbe carte false per poterne vivere l’esperienza è – di fatto – diventata una città-vetrina, anche grazie alla cassa di risonanza offerta dalla stampa mainstream che sostiene apertamente il nuovo sistema di valori, volti ad attrarre gli investimenti dei grandi capitali esteri e dei privati, facilitarne le speculazioni e, al tempo stesso, accrescere fino a santificare chi la governa.

Per contro, alla creazione dei nuovi quartieri in non corrisponde la costruzione di infrastrutture adeguate al nuovo status: le strade, i marciapiedi, i servizi sono rimasti esattamente gli stessi di prima. Si badi bene, non mi riferisco solo a quelli del centro storico o quelli in cui sono stati fatti gli interventi più radicali, come Isola o Citylife: recentemente sono state addirittura coniate nuove toponomastiche per nobilitare anche quelli più periferici (vedi NoLo, ad esempio).

La scelta di favorire un processo utile solo alla speculazione da parte di privati in cambio del risanamento di alcuni buchi di bilancio ha portato Milano a perdere la sua peculiarità, la sua anima vera, sia essa rappresentata dalle sue antiche vie lastricate o dalla varietà culturale rappresentata da chi la abitava fino a un paio di decenni fa.

Cinzia Delvecchio



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  1. walter moniciOttimo articolo, cui manca purtroppo una proposta in alternativa. Cinzia ha centrato il problema ma non ci da la soluzione ed è compito delle forze politiche nuove o vecchie decidere che direzione prendere. Fosse per me butterei giù i due boschi verticali e solaria, tutte le nuove orribili costruzioni che dagli anni 60 rompono l'armonia delle cortine ottocentesche, abbasserei i grattacieli a massimo 25 metri di altezza tranne il dritto di citylife, aulenti, pirelli galfa e velasca. Lo storto della hadid va raso al suolo, rovina la vista da via mascheroni, Ristrutturare la stazione centrale rimettendo il transatlantico al posto dei chioschi di vendita, costruirei case in stile ottocento, liberty, eclettico milanese, come fanno in germania dove abbattono le costruzioni in cemento e rifanno i centri storici in stile come era dove era, o i cinesi che copiano le città europee e adesso si mangiano le mani per aver distrutto i loro centri storici. Lascerei i parchi, gli alberi cresciuti per sbaglio, le strade storte, tutte quelle piccole imperfezioni che invece gli architetti miei colleghi si divertono a demolire e raddrizzare, insomma farei tutto il contrario di tutti questi archistar cui piace moltissimo lasciare ai posteri la testimonianza di quanto siamo furbi: avevamo una splendida città a misura d'uomo. la stiamo trasformando in un incubo metafisico.
    22 gennaio 2020 • 10:10Rispondi
    • giuseppe bonominon ci sono limiti allo snobismo culturale!
      22 gennaio 2020 • 11:28
  2. giuseppe bonomiTra le molte cose su cui non sono d'accordo con Cinzia Delvecchio mi soffermo solo sul fatto che non sono le "agenzie immobiliari" che comprano e fanno il mercato, bensì rispondono ad una domanda che si trasforma e rinnova, andando a ricercare gli ambiti urbani più convenienti in termini prezzo-qualità; la gentrification non è pianificata dai grandi investitori, che invece seguono le tendenze spontanee del mercato più dinamico e innovativo.
    22 gennaio 2020 • 11:28Rispondi
  3. Andrea PassarellaLa gentrification è un processo nativo della rigenerazione urbana ed è ben noto da secoli. Come citato, non è problema limitato a Milano ma comune a tutte le aree metropolitane che fungono da hub. Berlino è l'esempio massimo degli effetti perversi della gentrification: venivano invitati artisti e professionisti nella parte est allettandoli con affitti molto bassi. una volta che il quartiere veniva rilanciato i proprietari degli stabili aumentavano gli affitti per cacciare i fautori del rilancio e realizzare plusvalenze. Tuttavia non sono come l'autore dell'articolo affetto dalla cosiddetta retrotopia: l'ex area delle Varesine era orrenda e poco vivibile, Milano non è mai stata amichevole per gli abitanti soprattutto da un punto di vista urbanistico e marcatamente nel periodo 70-90 del secolo scorso. Ben vengano quindi le rigenerazioni urbane, soprattutto a Milano che ha molte zone abbandonate. Quale potrebbe essere, dopo la denuncia di quanto in atto, una possibile politica che mitighi gli aspetti più crudi della gentrification mantenendone però gli aspetti positivi ossia la riqualifica del quartiere? L'edilizia agevolata (affitti e acquisto) è già presente ma per diversi motivi non è sufficiente, il Comune dovrebbe censire in modo più stringente gli immobili locati ed obbligare l'utilizzo di quelli sfitti fungendo da calmieratore. Un altro aspetto da considerare è quello da agire realmente nell'ambito dell'area metropolitana collaborando con i comuni dell?hinterland per avere una maggiore integrazione non solo in termini di trasporti ma anche di immobili e sedi delle aziende; purtroppo Milano è piccola e non può continuare a pensare solo al proprio ombelico.
    22 gennaio 2020 • 13:14Rispondi
  4. Marco PontiTrovo questo articolo perfettamente omogeneo, con diverso linguaggio, al mio da economista sul ruolo della rendita urbana e della conseguente fuga dei meno abbienti. Le uniche soluzioni sono bilanciare domanda e offerta, e migliorare l’accessibilita’. Ma anche non disdegnare lo sprawl, dove ci stanno quelli espulsi dalla rendita urbana, migliorandogli i servizi e la mobilità soprattutto stradale (nelle aree poco dense il TPL non funziona).
    22 gennaio 2020 • 16:09Rispondi
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